4. Dépassement
IT: superamento
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15 aprile 2023
Montecarlo, Principato di Monaco
Quel giorno la visita del casinò con la figlia del signor Aubert, Desirée, mi rubò solo una scarsa ora della mattinata. Prima di settimane dedicate al lavoro e al tentativo di persuadere la ragazza affinché cedesse le proprietà, avrei avuto un intero pomeriggio da dedicare a mia figlia. Alla realizzazione di quella consapevolezza, il mio cuore si rilassò e imboccai Avenue des Beaux Arts per risalire all'Hermitage in tutta serenità.
Infilando una mano nella tasca dei pantaloni e curiosando tra i palazzi del One Monte-Carlo, i pensieri volarono tutti alla realtà in cui ero stato catapultato in meno di ventiquattro ore.
È tutto per soddisfare papà, mi ripetei. Il mio scopo primario non consisteva nell'arricchire l'azienda di famiglia e trasformarla da diamante grezzo a gemma preziosa, ma era quello di accontentare mio padre. Il bambino che ancora viveva in me mi pregava di farlo, di riuscirci, e insisteva a ogni passo che compivo in direzione dell'hotel.
Varcando l'ingresso, accolto dai portinai cordiali che spinsero l'imponente portone in ferro battuto, realizzai che non sarebbe stato semplice. Avrei dovuto trattare con Desirée, che appariva come una donna intenzionata a curare il germoglio della sua carriera fino a renderlo un fiore rigoglioso e invidiabile.
Io, che mi ero nutrito di ricchezze solo per colmare i vuoti del passato e garantire il meglio a mia madre e a mia figlia, non potevo essere più diverso da lei. Lei che aveva obiettivi chiari stampati nello sguardo deciso, contro di me, che mascheravo i miei reali intenti dietro atteggiamenti menzogneri.
Distratto, giunsi finalmente alla lobby dell'hotel. Il bianco delle colonne, dei soffitti e delle pareti lo rendeva un ambiente luminoso, impreziosito dai dettagli marmorei dei banconi della reception e dalle luci calde che ammantavano la zona centrale, arredata da divanetti e poltroncine di velluto. I concierge trasportavano carrelli ricolmi di valigie verso gli ascensori, strada che io stesso percorsi.
Stando a quanto avevo saputo prima di recarmi al casinò con Desirée, suo padre mi aveva riservato una Diamond Suite Principesca situata all'ultimo piano dell'edificio. Era una delle stanze più prestigiose, con un'ampia terrazza e la vista sul mare cristallino della Costa Azzurra; non era solo il panorama a renderla tale, se si pensava a tutti i benefici che portava con sé, dal servizio in camera alle altre comodità.
Le porte scorrevoli dell'ascensore si aprirono sul corridoio. Uscendo, quindi, estrassi dalla tasca del pantalone la chiave elettronica che mi avrebbe garantito l'accesso alla stanza. Una piccola stampa ne riportava il numero, che successivamente cercai affisso alle porte delle varie suite fino a trovarla. La inserii nell'apposito vano, rimuovendola quando l'uscio si sbloccò con un rumore impercettibile. Lo aprii.
L'ingresso dava direttamente su un salotto inondato dalla luce del sole grazie alle finestre angolari annesse al primo balcone, che affacciava sul porto. Due divani grigi si fronteggiavano l'un l'altro, affiancati da poltrone più piccole; al centro, brillava un tavolino da caffè in vetro. I soffitti bassi e le pareti adornate dal legno intarsiato mi ricordarono gli appartamenti inglesi, le case della Londra dei ricchi, della parte della città in cui il denaro era la priorità.
La prima cosa che feci fu sfilarmi la giacca, accaldato; la sistemai su un appendiabiti posto in un angolo dell'ingresso. Fui distratto, però, perché una vocina dolce mi richiamò. Non pronunciò il mio nome. Bensì, in tutta la sua felicità in grado di rallegrarmi, esclamò un affettuoso "papà". Sentire quella parola era la mia parte preferita della giornata.
Mia figlia Erin, infatti, stava correndo nella mia direzione da una delle stanze circostanti. A causa della bassa statura riuscì ad avvolgermi solo le gambe con le braccia, ma io la sollevai nell'immediato e la strinsi a me.
«Amore mio» la salutai con un sorriso spontaneo. Anche se erano già trascorsi quattro anni dalla sua nascita, l'emozione di poterla chiamare "mia" era intramontabile. Le lasciai un bacio sulla guancia morbida, accarezzando con le labbra la pelle pallida che contrastava con i suoi capelli d'un rosso vivo, raccolti un due trecce perfette. «Come stai?» le chiesi, iniziando a camminare verso il salotto.
«Bene» affermò. Come se non fosse stato abbastanza, annuì con un cenno della testolina. «Io e Kira abbiamo giocato insieme fino ad adesso» mi informò.
A confermarlo, la voce di Kira riecheggiò tra le pareti. La vidi con la coda dell'occhio mentre si lasciava cadere contro lo stipite della porta che univa il salotto e l'ingresso, le braccia incrociate sotto il seno. Era raggiante, il viso libero dai capelli biondi raccolti.
«Non smetterò mai di dirtelo, Isaac» esordì, «tua figlia è un angelo. Ho lavorato con tanti bambini, ma lei è incredibile».
Non potei fare a meno di sorridere. Crescerla nel migliore dei modi era lo scopo della mia esistenza. Non avevo basi, essendo figlio di una figura paterna assente e della miseria in cui ci aveva abbandonati in passato, ma avevo giurato di impegnarmi al massimo per non farle mancare nulla. L'educazione era tra i capisaldi, insieme a un carattere che non lasciasse spazio alla cattiveria e all'infamia. Sognavo che il mondo fosse buono, almeno con lei.
Parte del merito andava senza dubbio a Kira. Lavorava con noi da anni, e il suo talento e la sua pazienza – due doti di cui poteva certo vantarsi – avevano fatto sì che Erin maturasse in mani sicure. Da me riceveva una cospicua somma mensile, esagerata agli occhi altrui, ma non ai miei.
«Brava, piccola» mi congratulai, guardandola. Lei mi avvolse il collo con le braccia. «Sai che dovrai fare la brava in queste settimane, vero?» le domandai. «Papà sarà impegnato, ma tu devi comportarti bene».
«Ma poi torni?» mi chiese, allora, voltando il capo per guardarmi.
Sentii una crepa serpeggiare nel cuore, a quel quesito. Erin era abituata a stare nella sola compagnia di Kira per ore a causa del mio lavoro, che mi portava via un'immensità di tempo tra riunioni, conferenze e altre commissioni, e nel profondo nutriva il timore che io potessi sparire per giorni. Aveva solo me, ero l'unica presenza fisica al suo fianco. Scomparire, nella sua testa, non era un'opzione.
«Certo» le promisi. «Papà torna sempre da te» ribadii, colpendola con un buffetto scherzoso sul nasino che lei arricciò divertita.
Con la mano libera dal suo peso, estrassi dalle tasche la chiave elettronica della suite e il contenitore in pelle dei miei sigari. Li adagiai sul tavolino da caffè al centro della stanza, poi afferrai il mio cellulare.
«Ti va di chiamare la mamma?» le domandai, poi. «Forse starà cenando» ipotizzai.
Giselle viveva e lavorava a Melbourne, ormai. Dopo il periodo trascorso a Londra che portò alla nostra conoscenza e alla nascita inaspettata della bambina, era tornata nella metropoli australiana senza guardarsi indietro.
Erin si limitò ad annuire, scuotendo la testolina. Iniziai quindi a compiere dei passi in direzione di una delle due camere da letto, affinché io e lei potessimo essere più appartati, ma arrestai i miei passi quando una punta di altruismo di appropriò di me. Per obbedire a quell'istinto, mi voltai verso Kira.
«Tu hai bisogno di qualcosa, Kira?» le chiesi. «Vuoi pranzare o altro?»
«Non preoccuparti» mi rassicurò. «Credo che metterò in ordine i giocattoli della bambina, mentre siete occupati».
«Stai tranquilla» la fermai. «Ci penso io. Oggi ho la giornata libera» spiegai. «Va' pure a riposarti, sarai stanca dopo il viaggio» le concessi, infine.
Lei assentì e, per godersi la libertà datale dal mio permesso, si rifugiò nella camera destinatale. Sentii la porta chiudersi, segno che si era isolata da noi per bearsi del suo meritato riposo, e io tornai a concentrarmi sulla mia volontà: marciai fino alla mia stanza, entrandovi.
Il parquet lucido brillò ai miei piedi, mentre mi curiosavo intorno. Le finestre affacciavano sul mare, intervallate da un paio di metri di parete su cui era affisso un televisore a schermo piatto. Gli arredi erano semplici: a riempire lo spazio, un letto matrimoniale fronteggiato da un altro divanetto e una scrivania di legno scuro. Alcune abat-jour decoravano gli angoli, accese nonostante fosse pieno giorno; dai paralumi si diffondeva una luce calda e accogliente.
Camminai in direzione della scrivania, a cui mi sedetti una volta raggiunta. Feci accomodare Erin sulle mie cosce, nello spazio tra i braccioli della sedia imbottita, e sistemai il cellulare contro una piccola cornice che troneggiava sulla superficie lignea. Riportava il logo dell'Hermitage che ben presto venne coprii con il dispositivo. Lo sbloccai e in una manciata di secondi selezionai il contatto di Giselle; la schermata della videochiamata si illuminò, gli squilli si diffusero per tutta la stanza. Erin, per dilettarsi, giocherellava con il colletto della camicia.
Aspettammo insieme fin quando il display non rivelò il viso angelico di Giselle. Ellie, come solevo chiamarla io. Con i suoi lineamenti dolci, le guance piene d'un colorito roseo e gli occhi scuri, era bellissima e rappresentava uno dei miei tanti rammarichi, il motivo per il quale mi pentivo continuamente degli atteggiamenti avuti con lei nel periodo peggiore della mia vita. I capelli rossi, lunghi fino alle spalle, le incorniciavano il viso. Erano identici a quelli di nostra figlia.
«Amore mio» quasi esclamò, vedendo la bambina in primo piano. Erin abbandonò il colletto della mia camicia e si voltò in direzione del cellulare. Si sorrisero, vedendosi, e io non assistetti mai a uno spettacolo dalla tal bellezza. «Isaac, quanto tempo» continuò ad arridere.
Le nostre chiamate non erano frequenti, a causa dei nostri lavori. Io ero sommerso dalle centinaia di scartoffie dell'azienda di papà, da firme e contratti, e lei era impegnata nella ditta di famiglia. Era un'interior designer cresciuta tra gli architetti, sempre occupata dalla progettazione di nuovi edifici. Ci incontrammo a Londra proprio nel periodo in cui stava studiando, arricchendo le sue conoscenze in Inghilterra.
«Come state?» chiese a entrambi. Aguzzando la vista, poi, mise a fuoco la stanza che si estendeva alle mie spalle. «Non siete a casa, sbaglio?»
Mi munii della forza per spostare Erin da una coscia all'altra, per sorreggere meglio il suo peso, e incollai lo sguardo allo schermo.
«Stiamo bene» asserii. Lasciai un leggero bacio sulla tempia diafana della bambina e tornai a osservare il viso di Giselle. «E no, non siamo a casa» confermai. «Siamo a Monaco».
«A Monaco?» mi inquisì. «Hai conquistato anche la Costa Azzurra?» rise.
In tutta risposta ridacchiai, ma suonò come una risata intrisa di tristezza. Mi mancava Londra, mi mancava mia madre. «Non ancora» scherzai. «Ma mio padre ha intenzione di farlo. Vuole acquistare alcune proprietà qui e dovrò vedermela con i capi» le spiegai.
«I capi, addirittura? Quante persone ostacolano le tue strategie invidiabili?»
«L'amministratore delegato è uno, per fortuna» replicai. «Ma sua figlia ha un bel caratterino, e io devo parlarne con lei. Tra qualche anno tutto questo», e indicai la stanza d'hotel con un dito, sottolineando che anche quella era una proprietà di mio interesse, «sarà suo».
Giselle annuì, comprensiva. I nostri lavori si occupavano di due campi differenti, ma per certi versi viaggiavano su un paio di binari paralleli. «Erin, papà ti ha portato in vacanza?» tergiversò, adottando un tono allegro.
«Ha detto che devo andare all'asilo anche se siamo qui» si lamentò, incrociando le braccia. Sul suo viso comparve un broncio dolce. «Non è una vacanza!»
«L'asilo è importante, piccola» le ricordò. «Quando sarai davvero in vacanza, quest'estate, verrai un po' qui da me. Ti va?»
Erin assentì con un movimento della testolina e sorrise. Non aveva mai messo piede in Australia, in quei quattro anni, ma la miriade di foto di koala e altri animali del luogo l'avevano fatta innamorare. Era una bambina curiosa, bisognosa di scoprire. L'Australia sarebbe stato il posto ideale da cui iniziare.
«Qui farà freddo, però» specificò. Nei mesi estivi, l'emisfero opposto si preparava ad accogliere le temperature invernali.
«È abituata all'Inghilterra, non si lamenterà» mi intromisi.
«Immagino» commentò.
Stette in silenzio per una manciata di secondi. Ignara di come mandare avanti la conversazione, armeggiò con qualche aggeggio sparso sulla sua scrivania e si distrasse, una ciocca di capelli rossi le ricadde sul viso. Lei la ravviò dietro l'orecchio.
Pensare alla nostra amicizia era strano, se comparata agli errori che avevo commesso con lei prima che tornasse in Australia, dopo la nascita di nostra figlia. Eppure, più la guardavo, più la mia mente andava oltre la concezione di lei come una semplice amica. Per me, Giselle era stata e continuava a essere una salvezza.
«Papà ha incontrato una bella ragazza, oggi». Fu Erin a interrompere la quiete, con la sua vocina.
Una fitta mi colpì il cuore ed esternai il disagio con un sospiro. Non volevo che Giselle fraintendesse: anche se da parte sua non esisteva una benché minima speranza di ricucire la nostra relazione che in passato era stata costellata di crepe, io non avevo mai smesso di aggrapparmi a lei e di pregare in un suo ritorno tra le mie braccia.
Sotto carezze di mani che le avevano inferto troppo dolore.
«Sei appena atterrato e hai già fatto strage di donne» si burlò di me. Il suo tono, tuttavia, si tinse di amarezza. «Come biasimarle» mormorò incerta.
Mi sforzai di ridacchiare, cogliendo lo scherzo. Un altro silenzio si propagò tra noi, distanti migliaia di chilometri e separati da un mutismo freddo, che si creava nei momenti di tentennamento. Non avevamo ancora ripreso a comunicare normalmente, nonostante il rapporto in parte recuperato, ma ci sforzavamo di farlo per nostra figlia.
Quest'ultima, distraendosi, cominciò a torturare il mio polso, arrotolando l'orlo della camicia. Si dilettò con un elastico nero che lo avvolgeva, nonché uno di quelli di sua madre. Giselle ne conservava a decine, timorosa di rimanerne a corto, e me ne aveva affidato uno convinta che mi sarei ricordato di restituirglielo. Non accadde mai. A distanza di anni, quella rimaneva una promessa in sospeso ad aleggiare fra noi.
«Quello è mio» constatò, infatti, non appena si accorse dei movimenti di Erin. Lo annunciò con un sorriso tenero, colorato di malinconia; nelle sclere brillò un baluginio di nostalgia. «Sono anni che ce l'hai».
«Non si è mai mosso da qui». Mi persi in un risolino spento. «Te lo ridarò non appena ci vedremo. Lo giuro su questa creaturina». Arrisi nel riferirmi a Erin, e le lasciai un secondo bacio sulla testa.
All'improvviso, la ragazza si schiarì la voce. Guardò nostra figlia e dalle iridi scure trapelò tutto l'affetto che voleva riservarle, la linea delle labbra che si incurvò verso l'altro. Poi si concentrò su di me. «Stai facendo un ottimo lavoro con lei» mi assicurò. «Più ci penso, consapevole che da qui non posso fare tanto quanto te, e più me ne convinco. Se Erin sarà una donna magnifica, il merito sarà tutto tuo, Isaac».
Sentii un velo di lacrime annebbiarmi gli occhi, ma lo repressi. Allentai il nodo della cravatta sperando che ciò aiutasse a dissipare quello che mi occludeva la gola, ma non successe. L'aria mi si mozzò prima di giungere ai polmoni, bruciando nella trachea.
Erano parole di Giselle, quelle. Lemmi sinceri che avevano sfiorato le sue labbra rosee, pronunciati dalla voce con cui aveva urlato contro i miei errori madornali, e che io custodii gelosamente nei cassetti della memoria. Era fiera di me, del frutto del nostro amore. La consapevolezza era abbastanza.
Mia figlia era il mio riscatto dagli sbagli, l'esempio più concreto di una redenzione che doveva partire soltanto da me. Disintossicarmi dal passato era più semplice, se c'era la sua giovialità a rappresentare un ausilio.
Deglutendo il groppo alla gola, mi sforzai di replicare. «Ti ringrazio».
La bambina, sulle mie gambe, si mosse per una repentina scomodità. Indietreggiai dalla sedia per farla scendere, liberandola dalla mia presa, e lei piantò i piedi sul parquet. Corse in direzione del letto matrimoniale, su cui si arrampicò per sedersi sulle lenzuola candide. Sprofondò tra i cuscini decorativi, stanca a causa del viaggio.
Dagli altoparlanti del cellulare riverberò il nome di Giselle; risuonò ovattato, distante, pronunciato probabilmente da un'altra stanza del suo appartamento. Lei voltò il capo, sull'attenti, e si sporse all'indietro per controllare lo spazio circostante.
Era una voce maschile ad averla chiamata, e tutti i quesiti sorti da quell'episodio ottennero risposta quando un uomo alto comparve accanto a lei. Probabilmente mio coetaneo, portava i capelli biondo cenere in un taglio ordinato. Era alto, i muscoli allenati, e si chinò verso la ragazza per stamparle un bacio sulle labbra.
Un fottuto bacio sulle labbra.
Era elegante, curato: stretto nella sua giacca bianca in tinta con il pantalone, ostentava una controspallina adornata da una fascetta dorata. Non decifrai le lettere verdi ricamate su quest'ultima, frammentate in decine di pixel.
L'effusione si fece più intensa e insistente e Giselle, puntandogli i palmi sul petto, lo allontanò ridacchiando per il diletto. Lo guardò dal basso per poi indicarmi con un dito.
«Guarda, lui è Isaac» mi presentò. «Il padre di Erin».
L'uomo si voltò nella mia direzione e mi guardò. Mi rivolse un sorriso di cortesia. «Nash, piacere».
Io accolsi la sua gentilezza con un mero cenno del capo, distendendo i lineamenti del viso per assumere una finta espressione cordiale, ma strinsi i pugni in grembo.
Giselle era andata oltre, annullando ogni ipotetica seconda chance. Aveva una nuova relazione.
«Nash è un tenente di vascello della Marina» spiegò Giselle, chiarendo ogni mio dubbio sulla divisa che non avevo inquadrato. «Ci siamo conosciuti un anno fa a una cerimonia a cui ha partecipato anche la ditta di papà».
Un anno di conoscenza, probabilmente un importante numero di mesi di relazione, e non mi aveva mai detto nulla. Avevo sperato, invano, di poterla riavere con me, senza sapere che apparteneva a qualcun altro. Qualcuno di migliore, che non l'avrebbe mai sfiorata per mero sfogo, ma coccolata per amore.
La mia Ellie...
«Isaac, va tutto bene?» domandò lei, stranita dal mio mutismo.
Annuii in fretta, impaurito dalla possibilità che la mia vulnerabilità si intravedesse, e mi schiarii la voce. «Sì, sì» risposi. «Sono solo stanco per via del viaggio, scusatemi». Inventando quella giustificazione, produssi un risolino per arginare i dubbi. Finsi, poi, di studiare le lancette del mio orologio da polso. «Ora dovrei andare, ho delle questioni di lavoro da sbrigare» glissai. «Ci sentiamo non appena entrambi avremo tempo, che ne dici?» chiesi alla ragazza.
«Certo, non preoccuparti» mi rassicurò. Nash stazionava ora alle sue spalle, chinato in avanti con le braccia possenti che la avvolgevano da dietro, imprigionando le ciocche della sua chioma ramata. Bastarono pochi secondi perché si dileguasse, sparendo in un'altra stanza. Lei gettò una rapida occhiata alla scrivania per scrutare gli oggetti che la abitavano. «Oddio...» quasi esclamò all'improvviso, portandosi la mano alle labbra.
«Tutto okay?» le domandai.
«Isaac, tra poco è il due giugno». Una pugnalata. «Come ti senti...?»
«La affronto, Ellie» mi affrettai a rispondere per non permettere ai ricordi di raffiorare. «Devo affrontarla».
«Sai che puoi chiamarmi, se ne hai bisogno» rammentò.
«Certo, non preoccuparti».
Sospirò, poco convinta dalla mia patina di insensibilità. «Ti lascio ai tuoi impegni, allora» mormorò. «Salutami Erin».
Guardai il letto oltre la scrivania: stringendo un cuscino morbido, mia figlia si era addormentata.
«Sta dormendo» la informai, accennando un sorriso.
Anche lei arrise, immaginandola. «Io vado a cenare» mi comunicò. Si sporse all'indietro sulla sedia, scoccando un'occhiata a una stanza da cui proveniva una luce calda. «Nash non si è nemmeno tolto la divisa, pur di mettersi subito ai fornelli» ridacchiò. «Ci sentiamo presto» mi salutò, di conseguenza.
«A presto, Ellie». Riattaccai dopo essermi accomiatato.
Mi alzai dalla sedia, infilando il cellulare nella tasca del pantalone, e camminai verso il salotto della suite. Lasciai che Erin dormisse in pace nel silenzio della camera da letto. Io, tormentato dall'idea che Giselle fosse amata da un altro uomo, decisi di distrarmi. Afferrai il contenitore dei sigari dal tavolino da caffè, estraendone uno di cui accesi l'estremità con una fiammella intensa dopo averlo portato alle labbra. Le foglie di tabacco impiegarono qualche decina di secondi a riscaldarsi, ma il primo tiro rilassò tutti i nervi. Onde evitare che il fumo intossicasse l'aria, poi, spalancai la portafinestra e mi recai sul balcone.
Il mare brillava, increspato alla luce del sole caldo. Gli yacht costosi scintillavano, affiancati alle barche di dimensioni minori attraccate ai moli di Port Hercule, e io osservai quel concentrato di lusso e denaro che non avrebbe soppresso i pensieri che mi artigliavano il cervello.
Un'importante parte di me era convinta che non avrei mai superato la mia relazione con Giselle. Nella mia testa vagava la certezza che sarebbe stato impossibile dimenticarmi delle sue carezze che contrastavano le lacrime, obliarmi dei sorrisi che dipingeva sfiorando le mie labbra prima di un bacio. Avrei conservato per sempre il ricordo dei capelli rossi che mi solleticavano la pelle, sparsi sul cuscino dopo estasi e pura intimità.
Avrei custodito un'immagine che ormai apparteneva a un altro, dilaniato da una gelosia logorante.
Inspirazione dopo inspirazione, il sigaro si consumò; le foglie di tabacco si ridussero in granelli di cenere che piovvero ai miei piedi, sulle piastrelle opache del balcone. Mi resi conto di non aver lasciato trascorrere un paio di minuti tra un tiro e l'altro solo quando sentii esplodere un'emicrania lancinante. Mi imprigionò le tempie, le schiacciò e le sfinì. Il fumo amaro si depositò all'inizio della mia gola e mi lasciò un cattivo sapore in bocca, motivo che mi spinse a spegnere il sigaro nel posacenere. Era stato sprecato, poiché il tabacco non avrebbe mai riacquisito il suo gusto e la sua umidità originari, ma non mi incagliai a quel pensiero.
Fu nel momento in cui lo abbandonai che il mio cellulare vibrò nella tasca. Il trillo indicò una telefonata in arrivo, che riaccese in me la speranza che si trattasse di Giselle, ma non appena mi concentrai sul display fui assalito dalla delusione. Il nome riportato era un altro.
A cercarmi senza un'apparente ragione era Jules Aubert. Rassegnato sotto il sole caldo, feci scorrere il pollice sullo schermo per accettare la chiamata. Mi portai il dispositivo all'orecchio, ascoltando la sua voce profonda che mi riverberò nei timpani.
«Signor Woodward, buon pomeriggio» mi salutò. «Disturbo?»
«Niente affatto» replicai cordiale.
«So che ha già finito la visita al casinò, è stata di suo gradimento?» continuò a interrogarmi. «Mia figlia conosce la storia di quel luogo come le sue tasche» mi comunicò, animato dalla fierezza. «Non c'è guida migliore di lei in circolazione».
«L'ho apprezzata molto» risposi con sincerità. «È stato incredibile scoprire che non si tratta di un posto caratterizzato solo dal gioco d'azzardo, ma da molto altro» commentai.
«È una delle proprietà migliori che abbiamo, non lo metto in dubbio» si vantò. «Cosa ne pensa della suite dell'hotel, invece? Ha bisogno di qualcosa in particolare?»
«È perfetta, non le manca niente» replicai. Per sfuggire al caldo eccessivo di fine primavera, sfilai i bottoni più alti della camicia. Una leggera brezza mi accarezzò il petto tatuato. «La vista è mozzafiato» aggiunsi, socchiudendo le palpebre per proteggere le mie iridi chiare dal sole. Il mare che si estendeva all'orizzonte e bagnava la riviera era uno spettacolo della natura.
«Ne approfitto per dirle che ho lasciato un paio di chiavi per lei alla reception» mi informò. «Ho immaginato che un mezzo avrebbe potuto tornarle utile, quindi le ho prestato un'auto delle nostre. Attualmente si trova nel parcheggio dell'hotel» proseguì. «Si tratta di una Rolls-Royce Cullinan, niente di speciale».
Niente di speciale. Quel SUV valeva solo qualche centinaio di migliaia di euro. Sospirai. Era ineluttabile che il mio lavoro e il mio status richiedessero una determinata immagine in pubblico, ma io ero nato e cresciuto nella semplicità. Il lusso era un vestito che calzava troppo stretto.
«Grazie» tentennai. «Credo... Credo che sarà utile, sì».
Il signor Aubert non si scompose dinanzi alla mia incertezza repentina. Con la sicurezza che tanto metteva in mostra, convinto che nel suo ambiente la decisione fosse l'elemento chiave, credetti che nemmeno se ne fosse accorto. Riprese la parola nell'immediato.
«So che suo padre è interessato a un cospicuo numero di proprietà» mi disse. «Fortuna vuole che domani, nel caso lei se la sentisse, ci sarà l'occasione di vederne un'altra, invece di aspettare che mia figlia se ne occupi» esplicò. «Sarà proprio lei a dare una festa al Jimmy'z, il locale più esclusivo di tutto il Principato» mi informò. «La lista degli invitati è molto ristretta, ma mi prendo la libertà di coinvolgerla».
La vita movimentata di musica, discoteche e drink non mi era mai appartenuta. Ciò formò un nodo nella mia gola, che subito ingerii; mi accomodai su una delle poltroncine presenti sul balcone, lo sguardo puntato sul metallo della ringhiera modellato per creare decorazioni floreali.
Una festa organizzata da Desirée e un intero locale chiuso al pubblico significava che sarebbe stata l'ennesima ostentazione di potere e prosperità economica, di cui lei faceva un vanto. E sarebbe stata, inoltre, un'altra dimostrazione di quanto suo padre la viziasse.
In cuor mio sapevo che lei, lì, non mi avrebbe mai voluto. Dedussi che quella discoteca fosse il suo regno, incedibile a chi era intenzionato a portarglielo via. Io avrei dovuto farlo solo per soddisfare papà e accontentare la versione di me ancorata all'infanzia.
Mi schiarii la voce, pronto ad accettare l'invito.
«A sua insaputa?» indagai, prima di assentire.
L'uomo si produsse in una sonora risata. «Il capo sono ancora io, fino a prova contraria» dichiarò. «Il locale è mio».
«Va bene, ci sarò» gli comunicai senza perdermi in inutili giri di parole. «A che ora?»
«Il solito orario è alle dieci di sera, ma...» cominciò. «Mia figlia è una che sa farsi aspettare, pur di fare la sua figura».
Non seppi come replicare alla sua affermazione. Avevo potuto gustare un assaggio della personalità della ragazza, scorgere frammenti di dettagli che mi lasciassero ipotizzare i lati del suo carattere che esternava di più, ma ero sicuro che quella festa sarebbe stata un modo di trarre ulteriori conclusioni. Forse affrettate, forse ingiustificate.
«Oh, il rispetto del tema è imprescindibile» aggiunse. «Domani sera, Desirée esige gli anni '20».
Repressi un risolino, scaturito dalla ridicolezza di quell'organizzazione. «Sarà fatto».
«Sarà un piacere averla con noi, signor Woodward» concluse.
«Anche per me» mormorai, impegnato nel mantenere salda la maschera.
Era tutto per papà.
Non feci in tempo ad accommiatarmi, però, che il signor Aubert riattaccò. Il suono della chiamata terminata mi risuonò nelle orecchie e io, perplesso, allontanai il cellulare per riporlo nella tasca.
Mi ritrovai muto e pietrificato, a contemplare gli alberi delle barche a vela che oscillavano sulla superficie increspata dell'acqua, in possesso di un invito per un'insulsa festicciola che simulava gli anni '20.
E capii che io, di quel mondo di capricci soddisfatti con beni materiali, non avrei mai voluto farne parte.
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Nota dell'autrice
Ciao a tutti amici, e buon sabato! <3 Come state?
Eccoci qui con il quarto capitolo di AD. Oggi scopriamo qualcosa di nuovo sulla vita di Isaac: il suo rapporto con Giselle dopo la nascita della figlia, la nuova vita della ragazza e, soprattutto, un avvenimento importante che ha avuto luogo il due giugno di qualche anno prima. Che cosa sarà? Do la voce alle vostre ipotesi!
Questo capitolo è, inoltre, un piccolo scorcio più dettagliato sul rapporto tra Erin e suo padre: la loro è una relazione famigliare costellata di tante assenze a causa del lavoro, ma non ha eguali. Scoprirete il perché di questo legame più avanti, quando verranno rivelati altri piccoli segreti.
Nel prossimo capitolo, come annunciato qui, vivremo insieme a Desirée la prima delle sue feste a tema, e potremmo ritrovarci davanti al primo scontro effettivo tra i nostri due protagonisti... Siete pronti?
Vi aspetto, ci vediamo sabato prossimo! <3
IG: zaystories_
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