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32. Soin

IT: cura

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5 giugno 2023
Parigi, Francia

Qualche ora dopo essere arrivati a Parigi, io e Desirée lasciammo la suite del Ritz che ci era stata assegnata. Il sole splendeva sulla capitale, vestendo di un manto dorato gli eleganti edifici in stile liberty di Place Vendôme. La raffinatezza di quella città mi era mancata come l'aria: negli ultimi anni avevo avuto poche occasioni di tornarci con mia madre e, nonostante il degrado del quartiere in cui viveva il lato francese della mia famiglia, ero innamorato della Ville Lumière. Un concentrato di arte e vitalità che mi lasciava senza parole ogni volta.

Accanto a me, Desirée mi seguiva in un silenzio sereno. Nonostante l'episodio della sera precedente sull'Orient Express, nessuna tensione si era instaurata tra noi. Al contrario, la sentivo più vicina: l'atto in grado di unirci aveva distrutto tutte le barriere che separavano i nostri corpi, sedi di un desiderio ardente che era sfociato in un vero e proprio incendio di intimità. Era stato destabilizzante, benché bellissimo: affondare le dita nella sua carne, tracciare solchi invisibili sulla sua pelle olivastra e memorizzare le sue curve sinuose mi avevano suscitato sensazioni simili a quelle provate solo con Giselle.

La prossimità, la libido e il segreto. Il legame inscindibile di due corpi bisognosi l'uno dell'altro.

La nostra era un'attrazione magnetica che aveva finalmente superato l'ostacolo della relazione professionale. Anche se eravamo costretti a nasconderla per il bene di entrambi, e malgrado la breve durata che avrebbe avuto, era scalpitante e bramava di essere sfogata.

Ogni cosa bella è limitata nel tempo, mi ripetei. Anche quelle che vorresti si protraessero in eterno.

Era andata in quel modo con Giselle, e lo stesso sarebbe accaduto con Desirée. Un desiderio caduco, una soddisfazione effimera.

«Dove stiamo andando?» mi domandò proprio quest'ultima, curiosa. Sfruttava il suo mutismo per vagare con lo sguardo, alla scoperta di una città mozzafiato che non aveva mai visto. I suoi occhi erano catturati da ogni dettaglio, e ancora non aveva visitato i monumenti principali. «Isaac?» mi incalzò, notando la mia distrazione.

Scossi il capo per ridestarmi dalle riflessioni e mi schiarii la voce. «A pochi minuti da qui c'è un negozio chiamato Au Nain Bleu» replicai, riprendendo subito la parola per darle una spiegazione: «È una giocheria di cui mi ha sempre parlato mia madre, pur non potendo permettersi di comprare alcun regalo, lì. Si tratta di giocattoli artigianali dal valore inestimabile» le raccontai. «E vorrei regalare qualcosa a Erin per il suo...»

Per il suo compleanno, fu il pensiero fulminante che mi attraversò la mente e arrestò il mio passo. Quel viaggio, fin dal momento in cui eravamo partiti da Nizza, si era rivelato un concatenamento di eventi sconcertanti che mi aveva fatto perdere la cognizione del tempo. Fu così che estrassi il telefono con la mano tremante per la paura di aver compiuto un errore madornale. Un timore che si concretizzò nel momento in cui vidi la data sul display.

Era il suo compleanno e io, come un imbecille, mi ero distratto troppo per ricordarmene.

Il mio atteggiamento era pari a quello di un padre assente, che si dimenticava persino dei giorni più importanti. Proprio come aveva fatto Damian con me e i miei fratelli, avevo lasciato mia figlia da sola. Quel giorno avrebbe compiuto cinque anni senza di me.

Mi augurai una tacita maledizione, stringendo un pugno lungo il fianco, e sbloccai il cellulare con l'altra mano.

«Porca puttana» ringhiai a denti stretti, stimolando la curiosità di Desirée che, nel frattempo, mi guardava interrogativa.

«Che succede, Isaac?» mi chiese, avvicinandosi di qualche passo. Sul suo viso, un misto di preoccupazione e sincero interesse.

«Il compleanno di Erin» risposi, «è oggi».

Le labbra di Desirée si schiusero, lo sconcerto derivato dalla notizia repentina. Persino per lei era bizzarro che io avessi obliato una data tanto importante ma, invece di alimentare il senso di colpa con un'altra serie di quesiti, si avvicinò di un altra decina di centimetri, fino a fronteggiarmi. La sua presenza emanava un calore rassicurante, nonché la sensazione che lei non avrebbe giudicato il mio errore.

«Chiama Kira, dai» mi consigliò, il tono pacato. Uno strano conforto serpeggiò in ogni anfratto della mia mente, e io recuperai un respiro perduto. «Le chiedi se può farti parlare con Erin e le fai gli auguri. Vedrai che lei non ti odierà per questo» continuò a tranquillizzarmi.

Armeggiando nervosamente con il cellulare, i miei movimenti furono automatici e fecero fede al suo suggerimento. «So che a stento si ricorderà di questa cosa, ma mi odio per essermi distratto a tal punto» confessai, scorrendo tra i contatti per poi selezionare quello della babysitter. Feci partire la telefonata. «Era la stessa cosa che faceva mio padre» ammisi ancora, con la voce tremolante e un velo lucido disteso sulle sclere.

Desirée tacque, quando notò che ero impegnato nella chiamata, e ne approfittò per guardarsi intorno. Io, squillo dopo squillo, attesi la risposta di Kira che non tardò ad arrivare. La sua voce squillante mi riempì i timpani, il suo saluto raggiante mi rallegrò appena.

«Ciao, Kira» esordii, cordiale. Non immaginavo quanto potesse sentirsi stanca e sopraffatta dal lavoro, nei giorni in cui ero assente, e un altro senso di colpa mi strinse nella sua morsa. Mi obbligai a sorvolare su quelle paranoie. «Come stai?» mi premurai di domandarle.

«Bene» replicò nell'immediato. «Non preoccuparti» aggiunse, poi, notando il cruccio che colorava il mio timbro. «Hai bisogno di qualcosa?» indagò.

«In realtà, sì» confessai in un sospiro. «Vorrei parlare con Erin. Oggi è il suo compleanno e mi sono completamente dimenticato di contattarvi prima...»

Kira, per l'ennesima volta, non obiettò alla mia richiesta. Udii la sua voce morbida intenta a chiamare la bambina, quindi un fruscio quando passò il cellulare a quest'ultima, avvisandola della mia volontà di parlarle.

«Papà!» esclamò con gioia.

«Amore mio» ricambiai il saluto, mentre lo strato di lacrime si fece più spesso e mi offuscò la vista. Compiendo qualche passo distratto, mi voltai affinché Desirée non scorgesse l'accenno di vulnerabilità. «Tanti auguri!» le dissi subito, sforzandomi di apparire entusiasta nonostante il mio errore costituisse un pensiero ossessivo.

«Sono grande ora!» celebrò, causandomi un sorriso spontaneo. Era stato irreale vederla crescere con me, benché all'inizio l'idea di essere padre non mi allettasse; ora pianificavo di donarle la vita migliore possibile, ma era stata lei a farmi il regalo più bello della mia esistenza. Aveva fatto rinascere un ricordo e, da dolore, l'aveva trasformato in cura. «Ho cinque anni, papà! Posso trovare un fidanzatino!» continuò.

Ridacchiai per la sua affermazione e la sua dolce ingenuità, ma una lacrima sfuggì al mio controllo e mi solcò la guancia. Era ancora piccola, ma i passi che stava muovendo erano rapidi e io non mi sentivo ancora pronto ad affrontarli.

«No, piccola, a questo ci penseremo più avanti» ironizzai. «Come sta andando la giornata?»

«Kira mi ha fatto mangiare una torta buonissima! Poi mi ha regalato un vestitino nuovo, è bellissimo» mi raccontò, la giovialità che non si esaurì.

«Che bello, amore, ne sono felicissimo» commentai, sincero. «Quando tornerò, ti porterò un regalo stupendo, promesso» le giurai, ancora attanagliato dal senso di colpa.

«Sei il papà migliore del mondo!» esultò, per poi riconquistare la quiete. «Vorrei che ci fosse anche la mamma. Mi mancate». Il suo tono si intristì, incupendo anche me.

«La mamma viene a trovarci presto, amore» la rassicurai, rammentando le parole di Giselle circa il suo viaggio in Costa Azzurra. Recuperando un minimo di lucidità, mi riconcentrai sulle vie parigine che mi circondavano e mi ricordai della presenza di Desirée, a pochi metri da me. «Ora devo andare, Erin. Ti voglio tanto bene» le ricordai.

«Anch'io, papino. Tanto» ricambiò, e il mio cuore si sciolse per la troppa tenerezza.

«Passami Kira» le chiesi, infine, e attesi finché il cellulare non fu nelle mani della babysitter. «Kira, posso chiederti un altro favore?»

«Quello che vuoi».

«Riusciresti a metterti in contatto con Giselle? Erin ci tiene tanto» le domandai, sperando che il mio desiderio non rappresentasse un problema per lei.

«Sarà fatto, non preoccuparti» mi assicurò.

Lasciai andare un sospiro, quindi il mio petto si alleggerì. La consapevolezza che Erin avrebbe avuto modo di parlare con sua madre debellò il peso gravoso che percepivo all'altezza del petto, come un'inquietudine perenne.

«Grazie, Kira, davvero» mi profusi nella miglior dimostrazione della mia gratitudine. «Ci sentiamo» iniziai, poi, a congedarla.

«A presto, Isaac» ricambiò lei, e mi lasciò della solitudine del suono della chiamata terminata.

Con nonchalance, e immune allo sguardo curioso di Desirée, riposi il cellulare nella tasca. La ragazza non smise un solo secondo di fissarmi, in attesa che io rompessi il silenzio che si era creato fra noi, così mi schiarii la gola per scongiurare l'ennesimo strato di fredda tensione.

«Direi che possiamo andare» tentennai, ancora scossa dalla mia imperdonabile dimenticanza. Deglutii il nodo che mi impediva di respirare regolarmente.

«Isaac» mormorò lei, affiancandomi. Insieme, riprendemmo a camminare verso la nostra meta.

La sua volontà di conversare, però, si bloccò, e io la attenzionai con un'occhiata confusa. «Dimmi» la incalzai.

«Nulla, in realtà...» farfugliò. «Volevo solo dirti che hai fatto il tuo dovere. Puoi stare tranquillo».

Il nervosismo non accennava a placarsi, motivo per cui mi torturai il labbro inferiore con i denti. Come se fosse abbastanza per nascondermi e rinchiudermi nella solitudine, infilai entrambe le mani nelle tasche e proseguii distogliendo lo sguardo dal suo viso. «Lo spero» mi limitai a commentare, accelerando il passo. Lei stette alla mia andatura.

Un paio di minuti dopo raggiungemmo il negozio che avevo scelto. Au Nain Bleu sorgeva in una strada tipicamente parigina: ai piedi degli edifici spiccavano piccole caffetterie dai dehors suggestivi, mentre i davanzali di ogni finestra erano decorati dal verde di rigogliose piante ornamentali. I muri chiari erano abbracciati dai raggi dorati del sole, il cielo terso impreziosiva la città con le sue sfumature celesti. Anche se avrei sempre scelto l'Inghilterra contro ogni altro Paese, Parigi aveva il sapore di una casa in cui non avevo mai vissuto. C'erano le mie radici, lì; tra le vie, la vita di mia madre.

Quando misi piede nel negozio, i cui angoli erano curati nei minimi dettagli, Desirée mi seguì senza mormorare una singola parola. Si limitò a perdersi nella miriade di giocattoli artigianali in esposizione, il suo sguardo catturato dalla magia dell'infanzia che impregnava lo spazio.

Sapevo già cosa avrei voluto regalare a mia figlia e, con l'aiuto di una commessa, trovati il giusto compromesso: optai per una casa delle bambole in legno, con cui lei avrebbe potuto dare vita alla sua immaginazione, e un peluche a forma di orsetto che, più di un mero giocattolo, avrebbe rappresentato un ricordo in comune tra noi due. Un cimelio per suggellare il nostro dolce legame.

Desirée si era dimostrata pienamente d'accordo con le mie scelte e, dopo una ventina di minuti, uscimmo dal negozio per tornare all'hotel e prepararci per l'evento di beneficenza che si sarebbe tenuto nel tardo pomeriggio. Stringevo le grandi buste di carta tra le mani, un accenno di sorriso sul volto e il cuore più sereno: forse, nonostante la mia distrazione, avrei potuto rendere Erin felice con un piccolo gesto.

Io e la ragazza, quindi, iniziammo a percorrere la strada a ritroso. Il centro di Parigi era trafficato, ma nel suo frastuono ritrovai un barlume di quiete interiore. Era una città movimentata, di una frenesia che divenne statica quando intercettai lo sguardo di Desirée. Mi scrutò il volto e accennò un sorriso sincero, ma chinò il capo nel momento in cui si accorse dell'occhiata ricambiata.

«Che c'è?» le chiesi, divertito, continuando a guardarla dall'alto e senza arrestare i passi.

Lei scosse la testa, poco propensa a fornirmi una spiegazione. «No, nulla» dichiarò, le parole che sfumarono in una risatina nervosa. Il sole, però, illuminò un luccichio che sovrastava le sue iridi nocciola.

Sul suo viso brillava un'emozione a me sconosciuta, ma senza dubbio positiva. Le scintillava negli occhi e, per una volta, lei non si premurò di celarla. Cominciava a concedersi una certa libertà in mia presenza, che per me era motivo di fierezza.

«Dai, dimmi» la invogliai, in procinto di attraversare la strada. «Ti credevo più brava a mentire, sai?» scherzai.

Il suo sorriso si allargò, diventando una calamita potente per la mia attenzione. La sua spensieratezza era aumentata gradualmente durante quella fuga di qualche giorno, tanto da indurmi a sperare che durasse più del tempo che avevamo a disposizione.

«È che...» rifletté, ancora in balia dell'incertezza. Poi raddrizzò il capo e, con mia sorpresa, tornò a guardarmi. «Sei un padre fantastico, Isaac» si complimentò, lasciandomi interdetto e soggiogato dalla sua affermazione repentina. «Continuerai a criticarti, ma l'amore che provi per Erin è raro. Dovresti avere meno paura di essere genitore, perché sei portato per farlo» aggiunse.

La mia risposta non arrivò nell'immediato. I suoi lemmi vorticarono nella mia testa in una spirale inarrestabile, una tempesta confortante che sollevò persino uno sciame di farfalle in visibilio nel mio stomaco. Desirée, che mi conosceva da poche settimane, aveva asserito che ero un buon padre. Ciò dimostrò che aveva sempre avuto ragione, quando sosteneva che avrebbe imparato a leggermi dentro: l'aveva fatto, ma si era avventurata tra le mie peggiori insicurezze come io stavo facendo con le sue. La differenza, tuttavia, era che non stavamo più protraendo quel gioco per distruggerci, ma per aiutarci a vicenda.

Sei l'imprevisto di cui non mi dimenticherò, Daisy. Nemmeno se il destino si rivelasse avverso. Un'incisione inaspettata nella mia memoria.

Parlare era difficile; la voce, ormai, intrappolata nei grovigli delle corde vocali. Mi aveva lasciato senza parole perché solo Giselle, fino ad allora, mi aveva rivolto una lode di quel tipo. Sentirla da un'altra persona che aveva imparato a conoscermi era rincuorante. Un balsamo benefico che aveva curato diverse ferite, dalla paura di non essere all'altezza a quella di fallire.

Desirée, impaziente, non attese una risposta. Rimandò quel momento quando si imbatté nella vetrina di una boutique Vuitton, quindi si voltò verso di me; nello sguardo, di nuovo quel brillio.

«Dammi cinque minuti» quasi mi implorò, indietreggiando sui tacchi verso l'ingresso del negozio. «Prometto che potrai giudicarmi, dopo, ma è importante».

Schiusi le labbra per replicare, divertito dal cambiamento improvviso della conversazione, ma non feci in tempo a proferire alcun vocabolo, perché lei scomparve oltre l'immensa porta di vetro della boutique.

Approfittai di quella decina di minuti di solitudine per fumare una sigaretta e sfogare lo stress della prima parte della giornata. Tutte le sensazioni negative, dalla rabbia alla delusione, si trasformarono in un nugolo di fumo che si dissipò nell'aria. Forse Desirée aveva ragione: dovevo essere meno duro con me stesso, e accettare che gli errori e i fallimenti fossero un'ineluttabile parte della vita. Un insieme di riflessioni che concentrai negli ultimi tiri, fin quando non rimase solo il mozzicone che gettai in un cestino della spazzatura posto nelle vicinanze.

Fu allora che la ragazza uscì dal negozio, tra le mani una busta marrone del marchio che mi porse, allungando il braccio nella mia direzione. Il suo sorriso generò una serie di interrogativi che esternai pochi istanti dopo.

«Muori dalla voglia di mostrarmi il tuo nuovo acquisto?» ridacchiai.

«No, Woodward» negò, alzando gli occhi al cielo con fare scherzoso. «È per Erin. Mi andava di comprare un piccolo pensierino per lei» confessò.

Per la seconda volta, mi lasciò incapace di formulare una frase di senso compiuto. Quando l'avevo conosciuta, non mi sarei mai aspettato di vederla intenta ad acquistare un regalo per il compleanno di mia figlia. Sembrava il ritratto di una ragazza cresciuta nell'agio, vanitosa ed egoista, ma aveva un cuore che si stava rubando il mio e il trambusto interiore che provai ne fu la conferma.

Desirée non era più solo la mia rivale in affari, ma ora giocava un ruolo indecifrabile che mi stava mandando fuori di testa.

Con la mano scossa da un leggero tremolio per l'emozione del gesto inaspettato, afferrai la busta e la strinsi tra le dita, insieme a quella della giocheria. Nelle mie sclere, un velo di commozione su cui si ancorò il suo sguardo attento.

Quel gesto generoso mi aveva spiazzato, ma mi aveva anche portato a capire che non potevo più ignorare la vicinanza che sentivo nei confronti di Desirée. I giorni trascorsi insieme ci avevano unito, era innegabile, ma non ero pronto ad ammetterlo a parole. Avevo bisogno di accentuare la nostra prossimità, quindi azzerai la distanza che ci separava con un paio di passi. Torreggiare su di lei, essere petto contro petto e viverla da vicino era ancora più appagante.

I nostri respiri si sincronizzarono, quando la mia mano entrò in contatto con la sua nuca. Le mie pupille viaggiarono dalle sue labbra, ora schiuse per decifrare le mie intenzioni, ai suoi occhi che ricambiarono la mia attenzione e bramavano quel passo che io non avevo ancora compiuto e che, però, non mossi nemmeno quel giorno. Troppo codardo per farmi avanti, spaventato dall'idea e rovinare un'intimità che apparteneva a un'altra persona, mi limitai ad avvicinarla a me e scoccarle un tenero bacio sulla fronte. Un tacito ringraziamento che lei ricambiò con il silenzio, l'impronta della sua pelle bollente indelebile sulle mie labbra.

«Grazie» le sussurrai, incapace di spingermi oltre.

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Nel pomeriggio, io e Desirée uscimmo dall'hotel per prendere parte all'evento di beneficenza di cui mi aveva informato Alyssa. Per l'incolumità di entrambi, ci saremmo recati alla banlieue in taxi, e non vedevo l'ora di raggiungerla per aiutare le famiglie in difficoltà, che conducevano lo stesso tipo di vita che aveva segnato mia madre.

Era un modo per ripagare anche lei di ogni sforzo, pensai.

Desirée, al mio fianco nell'abitacolo silenzioso, era concentrata sul reticolo di strade parigine. Le ammirava, attenta a non perdersi un singolo dettaglio; io, d'altro canto, non ero in grado di distogliere lo sguardo di lei. Il tempo trascorso insieme durante quel viaggio mi aveva stregato, soggiogato a tal punto da rendere il suo corpo un magnete, per me. Le sue linee fasciate dal tailleur bordeaux, slanciate dall'immancabile paio di décolleté che portava ai piedi, erano ancora più belle dell'architettura della capitale, che lei fotografava nella sua memoria.

«Non credo che quello sia il completo ideale da indossare nel luogo in cui stiamo andando, sai?» le domandai, retorico, solo per attirare la sua attenzione. La ottenni quando si voltò, i capelli scuri e ondulati che ricaddero sulla spalla.

Riusciva ad avere classe anche nel più semplice dei capi, tra gesti e movenze. Era il mio completo opposto, che quel pomeriggio, davanti a lei, sedevo vestito di un paio di jeans e una maglietta nera.

«Diciamo che ho sorvolato sul fatto di non vederti con una camicia e, come sempre, ho fatto di testa mia» ribatté sarcastica, un ghigno a colorarle il volto finché non riacquisì un briciolo di serietà. «E poi, non l'ho messo per apparire superiore a quelle famiglie, ma perché mi piace» ammise. «A proposito, dove stiamo andando di preciso?»

«Ad Aulnay-sous-Bois, a nord di Parigi. È lì che l'organizzazione Restos du Cœur ha organizzato l'evento di beneficenza» soddisfai la sua curiosità. «I volontari serviranno pasti caldi e altri beni di prima necessità alle famiglie in condizioni precarie» aggiunsi.

Le labbra della ragazza, a quella frase, si assottigliarono e non lasciarono scappare alcun lemma. Forse non era abituata ad aiutare il prossimo, cresciuta in una bolla che la costringeva a prendersi cura solo di sé e della sua immagine, ma non avevo dubbi sulla sua bontà. Era nascosta in un angolo remoto e difficile da raggiungere, un posto dimenticato che sapevo avrei raggiunto presto.

Ero certo che Desirée fosse un diamante grezzo. Oggettivamente bello, ma era necessario dargli le giuste attenzioni affinché brillasse il più possibile, vantandosi della sua luce.

Così, dopo la mia spiegazione, lei rimase in silenzio e osservò il cambiamento del paesaggio dal centro di Parigi alle zone più periferiche. Nonostante il sole estivo, che regalava un manto dorato all'intera città, il cupo grigiore degli edifici popolari rimpiazzò l'architettura raffinata. Il taxista ci lasciò all'indirizzo indicato, sul limitare di Parc Gainville.

Quel parco grazioso era il cuore pulsante di una zona degradata e quasi perita come quella di Aulnay-sous-Bois; intorno a esso, tante abitazioni fatiscenti e strutture bisognose di ristrutturazione. Era proprio lì che Restos du Cœur aveva organizzato l'evento: alcuni stand temporanei sorgevano al centro di una piazzetta raggiungibile tramite dei sentieri sterrati, che conducevano persino a uno specchio d'acqua su cui si riflettevano i raggi solari.

L'iniziativa aveva attirato un copioso numero di persone, un gruppo di benefattori altruisti che donavano alimenti, materiale di prima necessità e capi d'abbigliamento in cambio di sorrisi e ringraziamenti; le risate gioiose dei bambini erano il sottofondo perfetto. Lì si concentrava una piccola parte di una società non pretenziosa, che lottava ogni giorno contro un fato avverso per ottenere il minimo indispensabile utile a sopravvivere.

Era una verità dura che mi teneva ancorato alla mia umiltà e alle mie radici, a una condizione da cui ero scappato solo per necessità. La medesima realtà che si espresse sul mio viso sotto forma di una lacrima solitaria, che soppressi non appena solcò la gota.

Desirée, tuttavia, la notò e si avvicinò di un passo.

«Va tutto bene?» mi domandò, sfiorandomi il braccio all'altezza del gomito in un intento rassicurante.

Mi limitai ad annuire con un cenno del capo, ma il mio corpo aveva bisogno di un ulteriore stimolo per sradicarsi da quella posizione. Bramavo un barlume di sicurezza che mi spingesse ad affrontare l'evento senza cedere all'emotività, un baluginio che conquistai solo intrecciando le mie dita a quelle di Desirée. Il suo sguardo saettò dalle nostre mani al mio viso, quindi si incatenò al mio. Sorriderle fu spontaneo, la dimostrazione sincera del piacere di averla accanto in un momento arduo.

«È tutto perfetto» la rassicurai, tornando a guardare il sentiero che conduceva all'interno del parco. «Andiamo, dai» conclusi, poi, e insieme ci avviammo verso il luogo dell'evento.

Arrivati nella zona popolata da stand e famiglie, dove i raggi del sole creavano dei fantastici giochi di luce trapassando le foglie degli alberi animate dalla brezza, io e Desirée comunicammo i nostri nomi agli organizzatori. Una volta trovati nell'elenco dei volontari registrati all'evento, ci spiegarono lo svolgimento di quest'ultimo e ci diedero alcuni consigli sul modo corretto di approcciare le famiglie bisognose.

Io decisi di occuparmi dei pasti caldi, che servii con immenso piacere a ogni persona che si presentava, mentre Desirée, senza sorprendermi, optò per la distribuzione dei capi d'abbigliamento.

Per tutta la durata dell'evento, i miei occhi la cercarono tra una donazione e l'altra, catturati dall'altruismo che traspariva da ogni sorriso che elargiva alle persone. Il suo amore per la moda di cui mi aveva raccontato settimane prima si trasformò in un'occasione per far sentire speciali adulti e bambini, regalando loro dei capi che li mettessero in luce anche nei giorni più bui. Era una forza della natura che, per poco più di due ore, non smise di dimostrarsi generosa.

«Questo ti sta benissimo. Guardati, sei una principessa!» esclamò la ragazza, chinata a terra per guardare in faccia una bambina che, entusiasta, sfoggiava un abitino rosa. Nel compiere una piroetta per la contentezza, le treccine bionde le ricaddero sulle spalle.

«Mi piacerebbe tanto essere una principessa come te» commentò lei, gli occhietti chiari rapiti dall'eleganza della monegasca.

«Ma tu lo sei già» la rassicurò con un sorriso contagioso, che generò anche il mio. «Sei persino più bella di me, sai?»

Non avevo mai dubitato della bontà insita nel suo cuore. Oppressa dalle costrizioni e cresciuta per credere che l'egoismo fosse l'unica chiave per il successo, però, lei non aveva mai compreso di possedere tanto altruismo. Adorava le persone, si nutriva di gentilezza, ma doveva acquisire consapevolezza di quel lato che, ero sicuro, avrebbe elevato l'immagine che aveva di se stessa.

E io, forse, mi nutrivo un po' di lei. Del suo vero carattere, della sua bellezza che trascendeva la perfezione e di ogni particolare che teneva nascosto da quando era solo una bambina.

Stava curando la sua infanzia e il suo presente, durante quel viaggio. Una serie di passi avanti che stavamo compiendo insieme.

Un percorso di cui non mi sarei pentito, né dimenticato facilmente.

Gli operatori dell'organizzazione iniziarono a ritirare gli stand quando il cielo si tinse delle sfumature variopinte del tramonto. Le fronde degli alberi lasciavano intravedere un caldo colorito aranciato, le risate dei bambini ormai rincasati echeggiavano ancora nel silenzio e il cuore batteva felice, soddisfatto del bene diffuso quel giorno.

Il pomeriggio sfociò così nella sera, e nel parco rimasero solo i volontari e il personale di Restos du Cœur. Su uno stand, alcuni piatti caldi avanzati dalla giornata erano a disposizione per noi e, prima di allontanarmi dal gruppo per godermi un frangente di solitudine, afferrai una porzione di raclette.

L'evento aveva portato con sé un gravoso carico emotivo e la mia mente aveva bisogno di un po' di quiete. Nella testa, si rincorrevano solo le immagini di decine di famiglie in difficoltà che quasi si commuovevano alla vista del cibo, qualcosa che chiunque dava per scontato.

Sapere che quella avrebbe potuto essere la mia vita mi toglieva il fiato. Ancora di più, la consapevolezza che era stata quella di mia madre, prima che io decidessi di imprigionarmi in un ambiente che non amavo solo per ripagarla di ogni sforzo.

E, nonostante i sacrifici personali, quello era anche il modo in cui stavo concedendo a mia figlia un'esistenza degna. Non le avrei mai fatto mancare nulla, né l'avrei fatta vivere come i bambini che avevo conosciuto quel pomeriggio. Mi sarei persino privato del cuore, se lei ne avesse avuto bisogno.

Fu una riflessione profonda che mi tenne compagnia mentre, distratto, mi sedetti sul prato a qualche metro dagli stand. Il chiacchiericcio degli altri volontari diventò un sottofondo ovattato, io contemplai il tramonto e mi feci rapire dai pensieri.

«Disturbo?» chiese, all'improvviso, una voce famigliare. Accanto a me, i tacchi di Desirée furono la prima cosa che vidi.

Forzai un sorriso e chinai il capo all'indietro per guardarla. «Assolutamente no».

«Stavo chiacchierando con gli altri, ma mancava qualcuno» commentò, e compì un altro passo per giungere dinanzi a me. «Ti sembra il caso di startene qui, da solo, seduto sull'erba?» ridacchiò.

Nei suoi occhi baluginava una luce diversa, più accesa e sincera, che le illuminava lo sguardo, abbelliva il sorriso e tingeva le guance di un'adorabile sfumatura rosea. Aveva il colore della vita che, dopo anni di finzione, aveva tornato a impossessarsi di lei.

«Avevo bisogno di qualche minuto di tranquillità» ammisi, portando alla bocca un assaggio di raclette. «Vieni qui» la invitai, quindi, indicando lo spazio vuoto al mio fianco.

Lei, in risposta, arricciò le labbra in una manifestazione di contrarietà e incrociò le braccia al petto. «Sono stata con te su una spiaggia, accontentarti sul prato mi sembra eccessivo» ribatté.

Consapevole che non avrebbe ceduto alla mia volontà, decisi di trarla in un inganno scherzoso e tesi il braccio libero nella sua direzione. «Aiutami ad alzarmi, allora».

Ignara delle mie intenzioni, mi afferrò la mano e io contrapposi la mia forza alla sua, trascinandola al mio fianco. Così finì a terra senza farsi del male e rise, limitando la mia punizione a un pugno innocuo assestato all'altezza del bicipite.

«Maledizione, Woodward!» finse un ringhio. «Chi ti ha detto di ridurre il mio tailleur a uno zerbino?!»

Feci spallucce, divertito dalla sua reazione iperbolica. «I miei pensieri intrusivi» mi giustificai, ironico. «Vuoi?» le domandai, poi, avvicinando il piatto di raclette fumante al suo viso.

«No, grazie» declinò cordiale, il tono riacquisì dolcezza. «Sono solo stanca. Non vedo l'ora di essere in hotel per riposarmi».

La sua affermazione fu confermata da uno sbadiglio e, con un movimento lento, adagiò il capo sulla mia spalla. Il suo calore lenì ogni ferita aperta dalle mie riflessioni.

Fermi in quella posizione, trascorremmo alcuni minuti in un silenzio confortante. Nel parco aveva iniziato a riecheggiare il frinire delle cicale annidate nei cespugli circostanti, un perfetto condimento per una rilassante serata estiva.

«È stato bello» mormorò Desirée, dando voce a un'asserzione repentina. «Aiutare quelle persone, intendo. Non pensavo che potesse essere così... soddisfacente. Forse più dei miei successi personali» continuò.

Dopo l'ultimo boccone, appoggiai il piatto vuoto al mio fianco, tra i fili d'erba, e le dedicai tutta la mia attenzione. «Credo che alleggerire le difficoltà di una persona sia la dimostrazione d'amore più pura e sincera che esista» confessai. «Ognuno di noi combatte così tante battaglie in solitudine, e spesso serve solo una mano da stringere per sentirne meno la fatica».

Desirée si separò da me, per un attimo, e proferì un altro quesito sarcastico accompagnato da un sorrisetto dilettato: «Da quando sei così filosofico?»

«Non è filosofia, Daisy» replicai. «È solo il mio punto di vista».

«Ed è ammirevole» convenne lei. Il suo volto, poi, si rabbuiò, e chinò il capo prima di esprimere un'insicurezza. «Mi dispiace solo di non essermi mai comportata così. Mi hanno sempre fatto credere che il menefreghismo fosse il modo migliore di vivere, ma si sbagliavano tutti» rifletté.

Parlava di sé come se vivesse fuori dal suo corpo e lo ammirasse da lontano, attraverso un filtro che ne mostrava solo l'esteriorità. Non aveva mai esplorato i meandri della persona che era, tanto da convincersi di essere identica al ritratto che gli altri avevano realizzato di lei.

Prigioniera di confini di grafite invalicabili, non era mai uscita da quelle barriere di egoismo ed egocentrismo entro cui l'avevano segregata.

Ma se nemmeno Desirée conosceva la sua realtà, come potevano farlo gli altri?

Per dimostrarle la mia vicinanza, che da qualche giorno non si limitava più alla sfera fisica, avvolsi il braccio intorno alle sue spalle e la attirai a me; lei ne approfittò per riaccoccolarsi al mio corpo.

«Non sono gli unici. Anch'io mi sono sbagliato con te fin dall'inizio» mi colpevolizzai, conscio del modo in cui io medesimo l'avevo disegnata nella mia mente.

«Che intendi?» domandò, chinando appena il capo per guardarmi negli occhi. Un incontro di iridi nocciola e celesti che mi destabilizzò, nonostante lo sforzo di rimanere concentrato sulla conversazione.

«Quando ti ho conosciuta, credevo che tu fossi una ragazzina viziata e capricciosa, in grado di pensare solo a se stessa e a come far sentire gli altri inferiori» esordii, addolcendo il tono per attutire la dura verità. «Ma in questi giorni ho visto oltre, Daisy. Oltre tutte le maschere che indossi, dove si cela una bontà rara. Che tu sia bella e intelligente è una verità assodata, ma sei anche... buona». Nel dirglielo, un sorriso comparve sul mio volto e azzerai la distanza tra i nostri visi; le punte dei nostri nasi si sfiorarono, il fiato caldo dei respiri ci carezzava le labbra. Anche la sua espressione cupa mutò in una più serena, un sorriso che non contenne. «Ami prenderti cura delle altre persone, oggi ne ho avuto la conferma» sussurrai, mentre lei socchiuse le palpebre. «Ma dovresti farlo anche con te stessa».

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Nota dell'autrice
Ciao a tutti amici, come state? <3
Dopo praticamente un mese, eccoci qui con l'aggiornamento di AD. Non è il primo capitolo di questa storia che mi manda in blocco, ma questo in particolare – che, avrete notato, è di passaggio e contiene poche scene – ha contribuito non poco. Ma vi prometto che ci rifaremo nel prossimo con un tocco di romanticismo in più nella città dell'amore...
Ad ogni modo, oggi abbiamo l'occasione di conoscere un lato più buono e affabile di Desirée. Un evento di beneficenza che cura le ferite dei nostri protagonisti e li avvicina ancora di più, rivelando lati dei loro caratteri che avevamo solo accennato, senza conoscerli davvero. E avete visto quanto è dolce la nostra Desi nei confronti di Erin?
Ebbene, tutta questa quiete finirà tra poco. Il prossimo capitolo chiuderà il nostro viaggio a cavallo di Italia e Francia e torneranno i problemi legati al Principato di Monaco. Torneremo da Valentin, da Jules, da Erika... Preparatevi, ci saranno parecchie verità da scoprire e tante scene da vivere.
Nel frattempo, vi prometto che non passerà più così tanto tempo tra un capitolo e l'altro. Nonostante la sessione universitaria imminente, voglio recuperare un ritmo (che non sia questo 💀). Ci vediamo, quindi, al prossimo aggiornamento!

IG & TikTok: zaystories_

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Restos du Cœur
Restos du Cœur è un'organizzazione di volontariato creata nel 1985 contro la povertà e l'esclusione di ogni sorta. Si impegna a fornire cibo, beni di prima necessità e materiale utile alle famiglie francesi in condizioni economiche precarie, soprattutto nelle zone periferiche più degradate.

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