20. Transparence
IT: trasparenza
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16 maggio 2023
La Condamine, Monaco-Ville
Sferrai un pugno dritto dinanzi a me, colpendo la dura plastica del sacco da boxe che dondolò per il colpo accusato. Ne seguì un altro paio, pregno di tutta la rabbia che, quella mattina, mi aveva allontanato dall'Hermitage e da mio fratello mi aveva portato a rifugiarmi nella palestra di un altro complesso residenziale.
Approfittai della mattinata libera – nessun impegno con gli Aubert, mentre Erin era all'asilo – per staccare la spina e isolarmi, scaricando il nervosismo a ritmo di pugni. Affinare le tecniche di autodifesa, per me, era diventato fondamentale durante gli anni trascorsi a Hackney.
Quel giorno, tuttavia, pensavo al mio presente; la mia mente era incagliata alla rigida tensione che intercorreva tra me e Giselle dopo la scoperta della sua relazione, ai momenti di estrema vicinanza con Desirée e, soprattutto, al modo in cui il mio corpo reagiva a lei. Mi immobilizzava, rendendomi freddo come il marmo pur facendomi bruciare di una brama proibita.
Ovunque mettesse piede, la sua presenza corrispondeva a un mio errore. Rappresentava un comportamento o un pensiero fuori luogo, che ben si distaccava dalle mansioni lavorative per cui ero lì: erano le sue curve attraenti, la sua motivazione, ma anche il desiderio – trasformatosi in un'impellente necessità – di scoprire ogni segreto celato sotto la sua maschera irremovibile.
Frustrato dal peso di quelle riflessioni di cui avrei voluto solo liberarmi, sferrai un ultimo e forte pugno al sacco, che dondolò costringendomi a spostarmi per non essere colpito. Il fiatone mi gonfiava i polmoni; il sudore rivolava dalla fronte, al collo, ai pettorali. Dallo specchio che ricopriva l'intera parete, scorsi i miei muscoli tesi.
Il Principato, benché si stesse rivelando intrigante, era anche il perfetto connubio di tentazione e peccato. E Desirée, mio malgrado, li incarnava entrambi.
Slacciai e sfilai i guanti con gesti bruschi, lasciandoli cadere sul pavimento ligneo, ai piedi del sacco. Ancora scosso dai respiri affannosi, quindi, mi recai nella sala adiacente della palestra. Tra i tapis roulant e le panche regnava il silenzio: nessuno era lì a utilizzare gli attrezzi, in pieno orario lavorativo, concedendomi la solitudine di cui avevo bisogno per schiarirmi le idee.
Mi beai della quiete e scelsi i pesi da apporre al bilanciere, poi mi distesi sulla panca, la schiena nuda a contatto con l'imbottitura fresca. Sollevai l'asta metallica avvalendomi della sola forza di bicipiti e spalle, mettendomi alla prova con qualche chilo in più rispetto alle mie abitudini.
Procedetti in quella maniera per un paio di serie, esercitando la mia resistenza ai carichi più gravosi, finché un fruscio proveniente da un altro angolo della stanza non mi distrasse. Riabbassai il bilanciere, appoggiandolo agli appositi sostegni.
«La freddezza britannica che percepivo nell'aria non era solo una sensazione» constatò acidamente la voce femminile che mi perseguitava dal momento del mio arrivo.
Mettendomi a sedere sulla panca, asciugai un rivolo di sudore che mi bagnava la fronte. Ritrovare Desirée lì, all'improvviso, non fu che la conferma di tutte le ragioni dietro al mio nervosismo: staccarle gli occhi di dosso era impossibile. Tra le curve sinuose evidenziate dal completino bianco aderente da allenamento e la bassa statura dovuta alle scarpe da ginnastica, raggiunse il rischioso culmine dell'attrazione quando legò i capelli in una coda alta. Regolò i parametri di un tapis roulant dinanzi alla vetrata della palestra.
«O sei tu che vieni attirata dai luoghi in cui sono io?» rilanciai con un ghigno.
«Finora è accaduto il contrario, Woodward» mi zittì, rimpiazzando le sue parole con il ronzio del nastro del macchinario che iniziò a scorrere. Cominciò con una camminata rilassata per riscaldarsi.
Decisi di cambiare attrezzo e affiancarla, quindi mi alzai dalla panca e approcciai il tapis roulant accanto al suo. Impostai la velocità, ma non feci in tempo a iniziare l'allenamento che lei, contrariata dalla mia presenza, mi scoccò un'occhiata torva.
Non sapevo perché avessi sentito la necessità di compiere quel gesto, ma starle vicino rendeva l'intera situazione – tra lavoro e altre responsabilità – meno noiosa. Gli scambi di battute e provocazioni erano dilettevoli, conditi dal suo fascino proibito.
«Ce ne sono almeno altri dieci, di tapis roulant liberi» sbottò, ma la sua attenzione era catturata da ciò che accadeva ai piedi dell'edificio, oltre la finestra. «Non che tu mi dia fastidio, Isaac, ma potresti lasciarmi lo spazio per respirare senza soffocarmi» quasi mi implorò. Accelerò il passo, visibilmente seccata, mentre io mi accinsi a percorrere i primi metri sul nastro. «Quando ti dico che sei uguale all'uomo medio, non ho torto: non sai stare tranquillo senza un corpo femminile su cui sbavare, mi pare evidente» mi sminuì.
Elaborando le sue parole, mi concentrai sulle persone che popolavano le vie di Montecarlo, tra frenesia e vetture imponenti il cui rombo riecheggiava anche a distanza. Fu una di queste, tuttavia, ad attirare la mia attenzione: un ragazzo, che da lontano assomigliava a Valentin, era appoggiato alla carrozzeria di una Ferrari fiammante accostata al marciapiede. Ebbi la certezza che si trattasse di lui nel momento in cui abbraccio una ragazza dagli inconfondibili capelli rosa, accogliendola nell'abitacolo dell'auto dopo aver aperto la portiera.
«Senza dubbio, sono un uomo medio migliore del tuo futuro marito, che dimostra la sua galanteria solo con le amiche» sottolineai sarcastico.
Stavo iniziando a comprendere quanto la situazione fosse grave e insidiosa, ma l'ironia era l'unico mezzo per indagare senza palesare alcun interesse.
Desirée assunse uno sguardo tra l'irritato e lo scoraggiato, puntato oltre la vetrata anche quando la macchina sfrecciò via. Si difese sfogando la tensione sul tapis roulant, aumentando la velocità, ma al contempo si sforzò di mantenere la calma.
«Valentin non farebbe mai una cosa del genere» asserì, cogliendo la mia allusione a un ipotetico tradimento. «Non avrebbe motivo di essere geloso di me, se avesse un'altra. E poi, Erika è la mia migliore amica. Non starebbe mai con il mio ragazzo» continuò.
Feci spallucce, la mia andatura ben più lenta e rilassata della sua. Ero tranquillo, convinto che lei conoscesse le dinamiche del suo gruppo meglio di me, finché non mi tornò in mente il particolare in cui ero incorso a Fontvieille. Valentin ed Erika insieme, in un ristorante più che scadente rispetto al loro tenore di vita.
«Non è la prima volta che li vedo insieme, in realtà» ammisi. «Un giorno ero a Fontvieille con Erin perché voleva pranzare al McDonald's e, anche se so che è difficile da credere, erano lì. Diciamo che i loro atteggiamenti erano tutto, tranne che amichevoli» raccontai.
Desirée scoppiò in una risata delicata ma forzata, poi scosse il capo mostrandosi diffidente alle mie dichiarazioni. Tuttavia, sfogò la tensione stringendo con forza i sostegni del tapis roulant.
«Impossibile» replicò nell'immediato. «Ti sarai confuso. Val e Rika non andrebbero mai in un posto del genere, neanche se dovessero nascondersi. Soprattutto lui, che è la persona più spocchiosa che conosca, dopo di me» affermò.
Si difese con uno scudo di sicurezza che usava per arginare ogni ipotesi negativa, incapace di affrontare la realtà. Anche se Valentin ed Erika non avessero avuto una vera e propria relazione clandestina, era chiaro che il loro rapporto andasse oltre l'amicizia. E forse Desirée l'aveva capito, ma si nascondeva dietro una finta ingenuità.
«Se ti fidi così tanto di loro, dovresti chiedere come stanno le cose» le consigliai, acquisendo una serietà rara in sua presenza. Non sapevo da dove nascesse quell'istinto premuroso – probabilmente, pensai, era a causa di tutti i piccoli dettagli che, uniti, erano assordanti come un allarme. «Ti raccontano delle loro uscite? Ti avvisano, perlomeno?» indagai.
«Smettila, Isaac!» sbraitò all'improvviso, cogliendomi alla sprovvista. Voltando appena il capo senza arrestare il passo, le bastò uno sguardo per ammonire la mia sete di informazioni. «Limitati alle cose per cui sei venuto qui. A te, della mia vita, non deve importare» sbottò, le parole si inseguirono in una raffica violenta che le affannò il respiro. «Conosco la mia relazione abbastanza bene da sapere come–» tentò di alzare il tono per rimarcare le sue certezze, ma un capogiro la destabilizzò e lei barcollò, perdendo l'equilibrio sul nastro.
Ebbi la prontezza di lasciare il mio tapis roulant e fiondarmi da lei, afferrandola per la vita e stringendola a me per offrirle sostegno. La costrinsi a cingermi le spalle con un braccio.
«Lasciami stare» provò a ribellarsi con un flebile ordine.
«Col cazzo, Desirée» sputai, la durezza sufficiente a farla cedere. «Non è normale rischiare di svenire solo perché hai alzato la voce».
Spensi il macchinario per evitare che si facesse del male e, caricandomi del suo peso, la feci avvicinare a una delle panche libere. Lei si sedette, divincolandosi ben presto dalla mia presa; il respiro affannoso, che tentò di regolarizzare, non le impedì di dimostrarsi infastidita dal mio intervento.
«Aiutami ancora una volta e giuro su Dio...» ringhiò, mozzando la frase perché incapace di continuarla. Il mio gesto l'aveva sorpresa tanto da lasciarla senza parole.
Ripercorrendo ogni momento della mia permanenza a Monaco, persino il più insignificante, mi resi conto che non erano state poche le occasioni in cui si era privata del cibo, sostituendolo con una dose nociva di nervosismo. Immaginai che la sua debolezza momentanea fosse dovuta a quello. Pronto a curiosare, mi rilassai contro una stazione multifunzione e incrociai le braccia al petto, senza distogliere lo sguardo dalla sua figura.
Mi sto preoccupando della sua salute?
«Hai fatto colazione prima di venire qui?» le domandai, fingendomi disinteressato.
Il mio gioco doveva avere le sue debolezze come premio solo per sfruttarle a mio vantaggio, ma stava prendendo una piega differente. Dopo averla vista in difficoltà per giorni, non potevo esimermi dallo scoprire quanti problemi stesse celando dietro i sorrisi più radiosi.
«Adesso sei un nutrizionista?» mi schernì, eludendo il quesito.
«Non sto scherzando, Daisy» insistetti, pronunciando il nomignolo per attirare la sua attenzione. «Te lo sto chiedendo per il tuo bene» le assicurai, lasciando attonito persino me stesso. «Hai mangiato qualcosa?»
Lei sospirò, sventolando bandiera bianca dinanzi alla mia ostinazione. «No» esalò.
Separandomi dall'attrezzo, mossi i primi passi in direzione di un frigorifero che metteva a disposizione barrette energetiche, integratori e bibite per i frequentanti della palestra. Fu un istinto a cui obbedii, senza domandarmene il motivo. Forse era una necessità del passato a cui dovevo supplire, o una banale propensione ad aiutare anche il mio peggior nemico.
«Non voglio niente, Isaac» continuò Desirée, il respiro ora regolare. «E, soprattutto, non zuccheri» aggiunse.
Non considerai la sua richiesta e prelevai una barretta e una bottiglietta d'acqua dal frigorifero, per poi tornare da lei. Ero ignaro di quale paranoia stesse artigliando la sua mente, allontanandola dai suoi bisogni primari, ma insistere senza proferire una singola parola era l'unico modo di prendermene cura.
La raggiunsi e, cauto, lasciai la bottiglia e la barretta al suo fianco, sulla panca. Prese solo un sorso della prima, ignorando la seconda come se assaggiarne un benché minimo boccone fosse stato un peccato.
«Mangia, dai» la incoraggiai, privandomi del mio solito sarcasmo. Nonostante fossi abituato a ricoprirla di scherzose prese in giro, riconobbi che quello non era il momento adatto. «Non ho davvero intenzione di impicciarmi nella tua vita, ma ti ho vista sia al Louis XV che al Pavyllon. Non hai toccato cibo» le ricordai, svelando la mia meticolosa attenzione ai dettagli. «Possiamo continuare a odiarci e a farci la guerra, ma la tua salute viene prima di questo».
Ritornai nella mia posizione precedente, le braccia conserte e gli occhi incapaci di separarsi dalla sua figura più... indifesa.
«Non l'ho deciso io» rispose senza tentennare, riavvitando il tappo della bottiglietta. «Ho degli impegni che richiedono questo sacrificio e non posso evitarli per i miei capricci» asserì, lo sguardo perso oltre la finestra e mai disposto a incontrare il mio. Irrequieta, si torturò il polso con le dita. «E comunque sto bene, è stato solo un calo di pressione» concluse.
«Farò finta di crederci». Feci spallucce per simulare indifferenza, nonostante la mia preoccupazione fosse in parte sincera. «Se posso chiedere, quali sarebbero questi impegni inderogabili che ti impediscono di vivere la tua vita normalmente?» continuai a interrogarla, fingendo di scrutare i dintorni.
«La sfilata della settimana prossima, il Festival di Cannes, i servizi fotografici...» elencò, pensierosa. «Ma non è questo il punto: la mia immagine dev'essere perfetta perché io sono il biglietto da visita dell'azienda di papà. Non posso permettermi un solo passo falso» confessò.
Era la prima volta che Desirée si dimostrava più trasparente, più esposta alla luce benché sempre nascosta nell'ombra delle sue bugie. Nelle settimane trascorse nel suo territorio l'avevo inquadrata come un'appassionata del mondo in cui viveva, nonostante le sue insidie, ma il tono sconsolato con cui ne enumerò i dettagli dava l'impressione opposta.
«E non credi che dovresti pensare al tuo bene, invece di lasciarti consumare da ciò che fa solo da contorno?» le chiesi ancora. La mia era mera curiosità nei riguardi dei suoi atteggiamenti completamente diversi dai miei: io, al contrario di lei, non ero capace di rimanere quieto tra le sbarre di un contesto rigido. «Forse qui, nei due chilometri quadrati di plastica in cui vivi, nessuno si rende conto del tuo nascondiglio, ma ti assicuro che basta un occhio esterno abituato alla vita vera per accorgersene».
Continuò a sorprendermi contro ogni aspettativa. Credevo che si sarebbe ribellata alle mie attenzioni, tuttavia liberò un sospiro scoraggiato prima di prendere la parola.
«L'importante è che nessuno lo veda. Non voglio causare problemi a nessuno» si giustificò, senza negare le mie deduzioni.
Quel paio di frasi veritiere, che rappresentavano una resa parziale nei confronti di una realtà da lei evitata, furono in grado di sottrarle ogni energia rimasta. Chinò il capo per non incontrare il mio sguardo, studiando il pavimento e l'incontrollato movimento del suo ginocchio dovuto all'agitazione, ma lo rialzò pochi istanti dopo per controllare un orologio da parete affisso nella sala.
«Si è fatto tardi» bisbigliò, flebile. Raccolse la bottiglia e la barretta abbandonate sulla panca e si alzò in piedi, senza uscire dal mio campo visivo che cercava di captare ogni stranezza. «A meno che mio padre non abbia bisogno di te, sei libero fino a venerdì. Niente schiavitù degli Aubert» ridacchiò per sdrammatizzare, utilizzando l'ironia per farmi obliare della conversazione. Bel tentativo, Daisy. «Ci vediamo alla sfilata» mi liquidò, iniziando a muovere dei passi in direzione dello spogliatoio femminile.
«A presto, Daisy» la congedai di rimando, dopodiché scomparve oltre la soglia.
Mi concessi un'altra manciata di minuti per godermi la solitudine e mi avvicinai al tapis roulant abbandonato in precedenza. Una breve corsa mi avrebbe aiutato a schiarirmi le idee, ancora più annebbiate di prima a causa della carrellata di novità di cui ero venuto a conoscenza. Regolai la velocità del nastro e iniziai ad affaticarmi; respiro dopo respiro, trovai una collocazione per ogni pensiero.
Che Desirée fingesse, ormai, era un'ovvietà. Non poteva crescere più falsa di così, tra lo sfarzo e l'oro di cui il Principato faceva tesoro e le pressioni alle quali era sottomessa. Ciò che emerse dal nostro scambio, tuttavia, cambiava le carte in tavola: quella ragazza non era solo perfezione, preziosità e lustrini, ma un insieme di crucci camuffati in banalità e ignorati per non coinvolgere chi, di quei problemi, non voleva saperne.
E, cosa ben peggiore, sembravo l'unico ad averlo compreso. Il mio fiatone non fu più dovuto alla fatica della corsa, ma alla dura realizzazione che la ricchezza aveva accecato l'intera cerchia della monegasca, rendendola indifferente alle sue macerie.
Capii, di conseguenza, che il mio compito sarebbe stato quello di non rispettare alcun divieto per guardarla da lontano, prendendomi cura dei suoi segreti con un semplice sguardo. Nessuna implicazione sentimentale, ma mero altruismo per non lasciare che quell'ambiente tossico la stringesse nella sua morsa tanto velenosa da essere letale.
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