17. Oppression
IT: oppressione
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10 maggio 2023
Roquebrune-Cap-Martin, Francia
Lo scocco della pallina verde era l'unica fonte di intrattenimento mentre Valentin, come accadeva spesso nelle sue giornate libere dagli impegni, si dilettava con una partita amichevole di tennis in compagnia di un ragazzo conosciuto proprio al Country Club. Mi aveva invogliato a fargli compagnia, nonostante sapesse quanto quello sport mi annoiasse, ma ne avevo approfittato per godermi il sole rovente di inizio maggio prima del pranzo con i nostri rispettivi padri.
La polvere della terra rossa si innalzava a ogni movimento che compiva, tra dritti e rovesci, e la bravura maturata negli anni di allenamento – giocava da quando si era trasferito nel Principato – mise in difficoltà il suo avversario. Decisi quindi di immortalarlo, rendendo pubblica la nostra giornata insieme per mettere a tacere le malelingue che mi avevano tormentata nell'ultimo periodo.
Proprio in quel momento, i rimbalzi della pallina sfumarono nel silenzio e Valentin si avvicinò al parapetto che separava il campo e gli spalti vuoti, indossando un sorriso glorioso e rigirandosi il manico della racchetta tra le mani. Si asciugò la fronte dal sudore sfruttando il polsino bianco e mi raggiunse in un paio di passi.
«Ne ho appena vinta un'altra» commentò raggiante, passandosi le dita tra i capelli per ravviare il ciuffo biondo. «Théodore non mi sopporta più» ridacchiò, e si voltò verso il suo amico quando questo si avvicinò a noi, salutandoci con gentilezza.
Non avevo mai avuto l'occasione di conoscerlo, ma dal modo in cui il suo sorriso gli colmava gli occhi di luce sembrava un ragazzo gioioso e solare, un'ottima compagnia per i giorni liberi di Valentin.
«Vinci solo perché hai il giusto supporto» rilanciò Théodore, scherzoso, facendo un chiaro riferimento alla mia presenza. Chinando la testa e proteggendosi dalla luce insistente, controllò il suo orologio. «Vi lascio soli, ragazzi. Ci vediamo» ci congedò, e noi ricambiammo.
Io e Valentin rimanemmo nella quiete del campo; a tenerci compagnia, solo i cinguettii degli uccellini che popolavano la riviera francese. Il mio fidanzato compì un ulteriore passo per accorciare la distanza che ci separava, mi carezzò la guancia con il pollice e mi stampò un bacio sulla fronte, ma ignorai il brivido che serpeggiò lungo il mio corpo a quel gesto.
«Mi accompagni alla Club House?» mi domandò, senza allontanare la mano dal mio viso. «Ho bisogno di una doccia prima che arrivi mio padre, così possiamo goderci il pranzo in tutta tranquillità».
Annuii con un mero cenno e mi sforzai di non trincerarmi in un silenzio teso: «Credo che papà sia già qui, quindi ti aspetto con lui» lo informai.
Preso alla sprovvista dall'arrivo anticipato di mio padre, corrucciò lo sguardo e studiò il mio volto. Mi strinse il mento tra il pollice e l'indice e mi manovrò appena il capo, concentrandosi sulla tempia segnata dall'ematoma che stava lentamente scomparendo. Forse non voleva che gli altri lo vedessero per non sentirsi in colpa, e io non faticavo a inventarmi scuse credibili per difenderlo.
Non potevo mettere tutto a repentaglio solo per rivelare la verità.
«Scusami» proferì all'improvviso, in maniera inaspettata. «Spero che Jules non si faccia strane idee» si augurò, poi, e l'intento altruistico svanì nella salvaguardia della sua reputazione.
Tuttavia, decisi di rassicurarlo anche quella volta. «Non fa niente» mormorai. «Se dovesse avere dei dubbi, gli dirò che sono caduta a casa».
L'unica dimostrazione di riconoscenza fu il suo sorriso appena accennato, a cui seguì il suo invito ad allontanarci dall'area del campo per raggiungere la Club House.
Per tutto il tragitto che percorremmo per arrivare all'edificio principale del Country Club, i pensieri furono martellanti e mi resero incapace di intavolare persino la più superficiale delle conversazioni con Valentin. Riflettevo sui suoi cambi di atteggiamento repentini, sulla diffamazione pubblica che stava piovendo sulla mia vita, sull'ipotetica vicinanza di papà e Céline e sulle pressioni che quest'ultima esercitava su di me. E, come se ciò non fosse bastato a farmi impazzire, avevo in mano le attività più importanti della Société Aubert e dovevo difenderle dai Woodward.
«Vado a sistemarmi, ci metterò poco» mi informò Valentin all'improvviso, ridestandomi dalle mie riflessioni. Mi lasciò la mano – non mi ero nemmeno accorta che l'avesse afferrata, o che fossimo saliti alla Club House – e mi guardò con apprensione. «Stai bene?» indagò.
Annuii, avvalendomi di un sorriso convincente. «Ero sovrappensiero, perdonami. Va' pure, ti aspetto al ristorante. Papà dovrebbe essere qui nei paraggi» lo rassicurai, studiando i dintorni con lo sguardo per cercare mio padre e rifugiarmi nella sua compagnia.
Si accomiatò con un bacio stampato sulle labbra, una carezza tanto dolce quanto falsa, e si girò per approcciare lo spogliatoio del Country Club. La solitudine in cui mi lasciò, tuttavia, non durò a lungo, interrotta da un richiamo famigliare.
«Ma belle» mi salutò la voce di mio padre, verso cui mi voltai.
Più lo guardavo, più il suo modo di essere si trasformava nella mia aspirazione primaria. Sempre sorridente e ottimista, tra idee imprenditoriali geniali e un'ottima leadership; era così perfetto da farmi chiedere se, di lì a qualche anno, io avrei tenuto le redini della Société Aubert nella stessa maniera.
La sicurezza iniziava a calare, minata dalla presenza dei Woodward e dai tentativi velati di sminuirmi compiuti da Valentin.
Ciononostante, ricambiai il sorriso di mio padre e mi avvicinai a lui, che mi cinse le spalle con un braccio e iniziò a camminare in direzione del ristorante in cui avremmo pranzato con il mio futuro suocero.
«Com'è andata la mattinata? Ti sei divertita?» curiosò.
Feci spallucce, indifferente. «Il tennis non sarà mai il mio passatempo preferito, ma Valentin ha vinto la partita, anche se era un'amichevole» elogiai quest'ultimo. «Antoine è già qui?»
Scosse il capo in segno di diniego, accingendosi a spostare una sedia in vimini di un tavolo del ristorante. Fece lo stesso con quella su cui mi accomodai io, godendomi la vista panoramica del Mediterraneo che rifletteva i raggi del sole.
«Arriverà tra poco» aggiunse alla negazione. «È atterrato a Nizza nella tarda mattinata, ora dovrebbe essere in macchina per venire qui».
Interruppe la nostra conversazione per ordinare un bicchiere di scotch ghiacciato in attesa del pranzo. Riportò l'attenzione su di me pochi secondi dopo, quando il cameriere si allontanò.
Pensierosa, inchiodai il gomito al tavolo e sfruttai il braccio come sostegno per il capo, continuando a scrutare il mare poco distante. Nemmeno la compagnia di mio padre riuscì a distrarmi, ma per lui ero un libro aperto: non impiegò troppo tempo a notare il mio silenzio protratto a lungo.
«Va tutto bene, Desi?» mi domandò, sfilandosi gli occhiali da sole. Richiuse le astine, li appoggiò dinanzi a sé e io lo imitai adagiando il mio cellulare, tenuto in mano fino a quel momento.
Non avevo motivo di mentirgli circa i dubbi che lo riguardavano, a differenza di ciò che aveva a che fare con me. Quindi, abbattendo ogni barriera innalzata fino a quel momento, mi sforzai di andare dritta al sodo.
«In realtà, avrei una cosa da chiederti...» mormorai incerta. «Ma se non vuoi parlarne, lo capisco».
Lui rise bonariamente per il mio tentennamento. «Amore, sono papà. Puoi chiedermi tutto quello che vuoi» mi giurò, afferrandomi l'altra mano per stringerla con intento rassicurante. Fu l'unico gesto della giornata a sollevarmi. «Lo facevi anche quando eri piccola, ricordi?»
Rammentare l'infanzia trascorsa quasi solo con lui, soprattutto dopo il divorzio da mia madre, originò un tenero sorriso che si ampliò sul mio volto. Provavo nostalgia verso gli anni in cui ero davvero trasparente con lui, ma l'età adulta comportava anche l'obbligo di non deluderlo e soddisfare le sue aspettative.
Qualsiasi esse fossero.
Mi sforzai di abbandonare quell'ulteriore pensiero e mi concentrai su di lui, approfittando del nostro attimo di solitudine.
«Riguarda Céline» esordii. «Voi due... Vi ho visti piuttosto affiatati l'ultima volta. Mi domandavo se vi foste avvicinati o se il rapporto fosse sempre lo stesso» sputai, diretta.
Seppur non lo stessi dimostrando, avevo paura della verità che ne sarebbe derivata. Céline stava aumentando il peso delle pressioni che mi gravavano sulle spalle, e l'ipotesi che mio padre intrattenesse con lei una relazione non più limitata al lavoro mi spaventava, perché avrebbe comportato maggior tempo in sua compagnia.
Lui non si accorse del mio nervosismo e non tardò a confessare: «Diciamo che... ci stiamo frequentando, ecco. Siamo entrambi pieni di impegni e non ci vediamo spesso in privato, ma quando riusciamo ne approfittiamo» spiegò, confermando ogni mio dubbio e timore. Incapace di sostenere il suo sguardo premuroso, distolsi il mio. Lui, però, continuò ad accarezzarmi il dorso della mano per tranquillizzarmi e attutire il colpo. «Non ti dà fastidio, vero?»
Ci misi qualche secondo per formulare una risposta nella mia mente, ma non ero certa delle sensazioni che provavo a riguardo. Oltre alla paura di condividere la mia quotidianità con Céline, mi terrorizzava l'idea di spartire il tempo libero di mio padre con un'altra persona. Non era un atteggiamento possessivo, ma la mancanza di abitudine.
Eravamo sempre stati io e lui in una bolla protetta, chiusa agli estranei. Eppure, bastava un mero soffio di corrente perché il vento cambiasse direzione.
Nel silenzio, un cameriere gli consegnò il bicchiere, adagiandolo sul tavolo quando io mi preparai a replicare. Lui ne prese un sorso.
«No, no» lo rassicurai. «È solo che... non credevo che stessi cercando una frequentazione o una relazione» ammisi. «Non dopo il divorzio dalla mamma, perlomeno».
Prima di rispondere, si schiarì la gola e dall'espressione corrucciata, unita al modo in cui si sistemò il colletto della camicia, trapelò il fastidio che provava. Mi insospettii, ricordandomi del brutto attacco di tosse avuto durante la nostra discussione, ma decisi di sorvolare.
«Ma la mamma sarà sempre una parte fondamentale della mia vita, amore» ribatté nell'immediato. Interruppe le carezze per far intrecciare le nostre dita, a simboleggiare l'ennesimo tentativo di rilassarmi. «Mi ha dato te, che sei insostituibile. Céline non potrà mai rimpiazzarti» giurò.
La sua promessa fu più efficace di qualsiasi altra parola o gesto di conforto, motivo per cui i primi nodi dello stress si sciolsero. Rimanevano tante questioni irrisolte e punti interrogativi che mi terrorizzavano, ma avere papà accanto a me era una solida certezza.
Con lui, almeno, le acque sembravano tranquille. Non aveva nemmeno risollevato l'argomento social, che generava un'insostenibile tensione, ed ero certa che se ne stesse prendendo cura affiancato dalla sua squadra di persone fidate. Tra noi filava tutto liscio, e mi bastava quella convinzione per affrontare meglio tutto il resto.
All'improvviso, venne distratto da una voce profonda che lo chiamò per salutarlo. Voltandomi, potei notare la figura imponente di Antoine Lamothe, il padre di Valentin, che si avvicinava a noi in tutta serenità.
La somiglianza con il figlio mi stupiva ogni volta che lo incontravo. I capelli erano ancora biondi e curati nonostante la mezza età, il corpo vestito di abiti semplici che, tuttavia, emanavano la sua autorevolezza. Solo l'accenno di barba lo distingueva dal mio fidanzato, che preferiva il viso pulito.
Come mio padre, Antoine era una personalità di estrema importanza sul territorio. Parigino dalla nascita, dirigeva i tre musei più importanti della capitale francese – il Louvre, il Musée d'Orsay e de l'Orangerie – ed era uno dei principali azionisti della Société Aubert. Un genio artistico e finanziario che gli Aubert conoscevano da anni, e che aveva portato l'unione di me e Valentin a costituire un vantaggio per entrambe le famiglie.
«Antoine, quanto tempo». Alzandosi per abbracciarlo come un amico di vecchia data, papà ricambiò il suo saluto iniziale. «Vieni, accomodati con noi. Tuo figlio è ancora negli spogliatoi, dovrebbe arrivare a breve» lo invitò.
Antoine obbedì alle sue indicazioni e si sedette. Fu allora che i suoi occhi scuri incrociarono i miei, e mi sorrise con gentilezza. Che questa fosse sincera o meno, non riuscivo a discostare le sue espressioni da quelle pregne di falsità di suo figlio.
«Ciao, Desi» mi salutò raggiante. «Come stai?»
«Bene» annuii, la sicurezza aumentata rispetto a qualche minuto prima. «Com'è andato il viaggio?» curiosai per non cadere nel silenzio.
«Non posso lamentarmi» commentò. «L'aereo non era tranquillo come il vostro jet, ma non sono un uomo di mille pretese».
Mi sarebbe piaciuto dire lo stesso, se solo non fossi stata cresciuta alla stregua di una principessa in un castello.
La chiacchierata continuò grazie a mio padre, che intavolò una conversazione frivola con l'uomo di fronte a me. Intorno al tavolo rimaneva il posto vacante di Valentin, ma quest'ultimo non tardò ad arrivare: la stanchezza della partita sembrava essere svanita, rimpiazzata da un sorriso sereno che ostentò avvicinandosi al gruppo.
Suo padre lo notò subito, alzandosi per abbracciarlo. Capitava spesso che i due si vedessero, a Monaco o a Parigi che fosse, ma non perdevano mai l'occasione di dimostrarsi affetto l'un l'altro. Era comprensibile, vista l'assenza di una madre nella vita del ragazzo, scomparsa poco dopo la sua nascita.
Terminato il loro saluto, Valentin si sedette al mio fianco e scoccò un'occhiata a mio padre. «Jules» lo salutò.
Lui ricambiò con un sorriso cortese prima di concentrarsi sull'intero quartetto. Ci negò la sua attenzione solo per controllare l'orologio da polso, quindi tornò a focalizzarsi su di noi.
«Suppongo che voi vogliate già pranzare» dedusse, considerando l'orario letto poco prima sul suo Patek Philippe che non passava inosservato. «Cosa desiderate?»
«Ti lascio carta bianca, Jules. Sei il capo, conosci le specialità» gli concesse Antoine.
Mio padre, accettando con piacere l'invito, ordinò un corposo brunch a base di pesce e carne, affiancandolo a una portata vegetariana per la sottoscritta. Il personale fu impeccabile nel soddisfare la sua richiesta, servendo le pietanze dopo una scarsa ventina di minuti. A me furono consegnati una serie di stuzzichini che, per quanto invitanti, non assaggiai nell'immediato.
Tutti iniziarono a servirsi, gustando le prelibatezze immancabili nei nostri ristoranti, e mi sentii esclusa dal banchetto quando, dinanzi al piatto pieno, mi bloccai. L'ostacolo era la voce ossessiva di Céline, un tormento che serpeggiava in ogni anfratto della mia mente.
Dieci chili. Devi perdere dieci chili.
«Allora, Jules?» esordì all'improvviso Antoine, alle prese con il guscio di un'ostrica. «Qual era la questione di cui dovevi parlarci?»
Mi voltai immediatamente verso l'interessato, confusa. Credevo che avesse organizzato il pranzo in compagnia solo per ritrovarci come non facevamo da tempo ma, come sempre, c'era qualcosa sotto. E la paura che c'entrasse con me si fece viva.
«Di che questione stiamo parlando?» indagai.
Valentin, al contrario di me, non si dimostrò interessato. Si limitò a stare in silenzio, condendo alcune cozze con il succo di limone per poi gustarle.
«Ci tenevo che fossimo tutti insieme per discutere di un aspetto che mi preme parecchio, soprattutto in questi giorni» premise, pulendosi le labbra con il tovagliolo di stoffa. Prima di riprendere la parola, si rinfrescò con un sorso d'acqua. «Riguarda voi due, ragazzi» comunicò a me e a Valentin, indicandoci con lo sguardo.
Io e il biondo ci scambiammo un'occhiata, ma io abbassai il capo pochi istanti dopo. Fu lui a prendere in mano le redini della conversazione.
«Ti ascoltiamo» proferì.
Mi sforzai di prestare a mio padre l'attenzione che meritava, anche se ero divorata dal terrore di diventare la pedina del suo ennesimo gioco di potere. Non lo faceva per cattiveria, ma per il bene di un'azienda che sarebbe stata mia, di lì a poco.
«So che vi sto dando questa notizia con poco preavviso, ma è bene anticipare i tempi e sfruttare le giuste occasioni» continuò a divagare, senza andare dritto al punto. «Ho invitato Antoine qui a Monaco per renderlo partecipe all'ufficializzazione delle vostre nozze».
La fitta che sentii al petto fu paragonabile a una stilettata, a una lama aguzza conficcata con forza.
Papà voleva che bruciassimo le tappe, che accelerassimo l'intero passaggio, ma a che scopo?
Io non volevo sposarmi, perlomeno non in quel momento, pur sapendo che sarei stata costretta a farlo. Da quel matrimonio poteva essere ricavato il massimo potenziale della Société Aubert e mio padre non l'avrebbe sprecato.
«Di già?» sbottai all'improvviso, ammonita dall'occhiata torva di Valentin. Schiarendomi la gola, quindi, finsi di calmarmi. «Intendo che devo ancora laurearmi, credevo che avessi il tempo di finire gli studi... E il master?»
«Si tratta solo di fare la proposta, così che le persone sappiano che questo matrimonio tanto atteso si celebrerà. Non dovrete sposarvi subito ma, visti gli scandali dell'ultimo periodo», e mi dedicò uno sguardo eloquente, «è bene far capire che la vostra relazione viaggia su un binario senza ostacoli» spiegò. «Antoine, sei d'accordo?» si rivolse all'amico.
«Come sempre, hai le idee giuste al momento giusto» assentì. «La proposta è ciò che serve per ripulire le macchie con cui si è sporcata la vostra reputazione di recente. Soprattutto la tua, Desirée» disse, schietto.
La maniera diretta con cui fece riferimento alle ultime vicende mi spiazzò, ma riuscii a contenermi senza sbilanciarmi. Non proferii verbo a riguardo, limitandomi ad ascoltare la replica di mio padre.
«E, inoltre, la vostra unione può giocare all'immagine dell'azienda. Ora che i Woodward sono qui e vogliono comprare alcune attività, rafforzare la nostra credibilità è fondamentale. Francamente, non vedo modo migliore di farlo».
La sicurezza con cui lo affermò si scontrava con la mia determinazione nel ribattere, che iniziava a vacillare. Sapevo che, se avessi provato a rispondere a tono, la mia voce sarebbe stata scossa dai tremolii e non sarei apparsa forte come lui apprezzava. Tuttavia, non ero capace di tenermi dentro il disappunto.
«Pensi che io non possa bastare ad allontanare i Woodward dall'azienda? È per questo che vuoi accelerare le cose?» gli chiesi, allarmata. «Anche secondo te ho bisogno di un uomo per essere credibile? Per far sì che gli altri si fidino di me?»
Si ritrovò dardeggiato dalle mie domande, che costituirono l'unico modo di esternare i miei sentimenti. Ero tanto delusa quanto affranta dalla piega che quella conversazione aveva preso, ma mi stavo sforzando di reagire con la razionalità, e non con l'istinto.
«Non dico questo, ma belle. Sai anche tu che è l'unico modo di zittire le malelingue e portare ogni rivale in affari ad arrendersi» tentò di rassicurarmi. «Saresti perfettamente in grado di fare tutto da sola, ma l'immagine, a volte, conta più di questo».
Mi scansai quando provò ad afferrarmi la mano, infastidita dal suo discorso. Ero convinta che almeno lui credesse in me, che vedesse le capacità che mi aveva trasmesso per tutta la vita.
L'amarezza mi fece trincerare in un mutismo punitivo nei suoi confronti. Forse sembravano i capricci infantili di una bambina, ma chinai il capo per non guardare tre degli uomini della giungla in cui stavo cercando di sopravvivere.
Cosa mi aspettavo? Che mio padre la pensasse diversamente dagli altri? Proprio lui, il capo?
In un ulteriore segno di protesta, allontanai il piatto da me. Un gesto che attirò l'attenzione, ma evidentemente indegno di alcun commento.
«Quindi, a che hai pensato?» si interessò Valentin, senza concedermi la minima considerazione.
Era ovvio che a lui importasse: il matrimonio sarebbe stata l'ennesima giustificazione alla sua possessività.
«Una cena al Pavyllon, questo venerdì. Inviteremo anche i Woodward, e... chiunque vogliate voi, purché ci aiuti a raggiungere il nostro obiettivo» esplicò. «Sono certo che, dopo quella sera, si parlerà solo del matrimonio e non spunteranno altre foto o frasi compromettenti» asserì.
La scelta del Pavyllon, tra tutti i ristoranti da lui posseduti, non mi stupì. Era uno dei migliori in tutta Montecarlo per qualità e bellezza e, per giunta, sempre gremito poiché facente parte dell'Hermitage.
«Allora? Vorreste invitare qualcun altro?» chiese principalmente a me e Valentin.
Il ragazzo fece spallucce, indifferente a chi sarebbe stato presente. «Erika, perché no?» propose. «È amica di entrambi, sarebbe ben contenta di assistere».
Glissai sulla sua scelta, intromettendomi subito. Se c'era una sola persona che avrebbe potuto alleggerirmi il carico di pressione a cui mi sentivo sottoposta, quella era mia madre.
«Invitiamo anche mamma» ordinai, ritrovando il coraggio di guardare mio padre dritto negli occhi.
«Desi, non...» tentò di dissuadermi, ma mi infiltrai nuovamente.
«Mamma verrà, fine della discussione» sentenziai, autoritaria. Con altrettanta durezza afferrai il cellulare che campeggiava sul tavolo, lasciando intatta la pietanza dinanzi a me. «Ora, se non vi dispiace, vado a dare una sistemata al trucco» dichiarai. Finsi di aver recuperato il mio contegno, sperando di servire quell'illusione su un piatto di credibilità per tutti. «Torno tra poco».
«Desirée» ritentò mio padre, ora più stentoreo, ma gli davo già le spalle.
«Lasciala sola» gli consigliò Valentin, capendo, per la prima volta, le mie necessità.
Raro, da parte sua.
Li liquidai con il mio ticchettio. Se fossi rimasta lì, probabilmente non avrei mantenuto la mia facciata di pazienza e tolleranza che stava iniziando a sgretolarsi. Al contrario, tutte le sensazioni negative che stavo provando avrebbero preso il sopravvento: delusione nei confronti di mio padre, che aveva preso l'ennesima decisione per me senza interpellarmi, e rabbia contro Valentin e Antoine, che lo avevano assecondato senza curarsi del mio parere.
Ignara di come comportarmi, percorsi la via del conforto per sfuggire al problema: mi rifugiai in un angolo ombreggiato del Country Club, lontana da occhi indiscreti e, con il telefono ben saldo tra le dita, composi il numero di mia madre. Sarebbe stata l'unica in grado di calmarmi in quel momento, a partire dagli squilli che mi echeggiarono nei timpani.
Pregai che rispondesse, attorcigliandomi una ciocca di capelli al dito per il nervosismo. Ero consapevole che si trovasse al lavoro, ma anche che, nel momento del bisogno, lei fosse sempre presente per me. Non esisteva un impegno più importante dei suoi figli, indipendentemente da dove essi si trovassero.
La sua voce che fece capolino dall'altro lato della cornetta ne fu la conferma.
«Desi, hey» mormorò, tra i rumori in sottofondo. «È successo qualcosa?» indagò subito, vista la telefonata inaspettata.
La sua premura dipinse un sorriso sincero sul mio volto, ma non tardai a rassicurarla: «No, mamma, è tutto okay» affermai. Seguì tuttavia un sospiro che mi riportò alla realtà. «Più o meno» aggiunsi, incapace di mentirle. «Sei al lavoro?»
«Sì, amore, ma non importa» asserì. La voce metallizzata lasciò spazio allo scricchiolio di una sedia, su cui si accomodò per parlarmi. «Allora, che succede? Altri problemi con quel mitomane che è tuo padre?» ridacchiò.
Mi rasserenava sapere che il loro rapporto non era cambiato. Anche se l'amore era scemato, rimpiazzato da un'ambizione troppo forte da essere ignorata, si volevano bene. Ironizzare sull'altro era frequente, tra di loro.
«Diciamo che ha preso una decisione per me senza chiedermi nulla a riguardo». Incatenai lo sguardo al mare cristallino, le onde che si infrangevano sotto il promontorio. «Non fraintendermi, sapevo che l'avrebbe fatto, ma...» riflettei, distratta dalle increspature dell'acqua. «Non così presto, ecco».
Anche mia madre emise un sospiro, non sorpresa. Conosceva gli atteggiamenti del suo ex marito, ci aveva convissuto per tanti anni e non aveva dubbi sul fatto che, in assenza di un'altra figura famigliare, essi sarebbero stati riversati su di me.
Attendendo una sua risposta, iniziai a muovere piccoli passi nella zona in cui mi ero ritirata. Aspettavo solo che la sua voce mi tenesse compagnia, distendendo i miei nervi aggrovigliati.
«Di che si tratta?» mi chiese, sconfitta dall'idea che fosse un circolo senza inizio né fine. Mio padre aveva tanti pregi quanti difetti, molti di questi regalati dal potere che era conscio di avere tra le mani.
«Sono successe diverse cose spiacevoli negli ultimi giorni, e...» Feci una pausa, presi fiato: lei era ben distante dalle faccende che riguardavano l'azienda, quindi omisi l'intera storia. «Ha deciso di organizzare il fidanzamento ufficiale di me e Valentin prima del previsto, così da "sistemare tutto", a detta sua» virgolettai a mezz'aria.
«Desirée» mi chiamò, il tono pregno di serietà. «Prima che tu mi dica altro, voglio farti una domanda molto semplice» premise. Sentii i battiti accelerare alla consapevolezza che, di lì a poco, avrei dovuto compiere lo sforzo di mentirle: era facile con chiunque, ma non con i miei genitori. «Tu vuoi davvero sposarlo? Vuoi farlo a breve?»
Mamma, la sola a colpire nel centro. Il suo quesito fu come una pugnalata e il dolore si manifestò nelle mie sclere, quando un velo lucido vi si depositò. Sfarfallai le ciglia per sfuggire all'istinto di cedere.
«Sì» confermai nell'immediato, per non destare sospetti. «Sì, mamma, ovvio. Io lo amo, sarebbe strano il contrario».
«Mh» tentennò, non convinta della mia affermazione. «Sai che non sei costretta a obbedire a tutti gli ordini di papà, vero? Se qualcosa non ti piacesse e glielo dicessi, lo capirebbe. Ne sono certa» asserì.
«Io no» ridacchiai per sdrammatizzare. «Ma non importa, non è questo il caso. Io voglio farlo, solo che... non mi aspettavo che accadesse così presto. Devo ancora laurearmi, capisci che intendo?»
«Capisco benissimo, amore» replicò. «Ma la decisione spetta a te. Se vuoi fare questo passo, sei libera. Hai ventidue anni, sei perfettamente in grado di scegliere per te stessa senza farti sottomettere da nessuno» mi incoraggiò.
Le sue erano parole di cui avevo il disperato bisogno, ma non abbastanza forti da cambiare la realtà. Mio padre avrebbe deciso per me a prescindere dalla mia volontà. E, se serviva una voce a lottare per un cambiamento, doveva essere la mia, non quella di mia madre.
Avevo le parole, ma mi mancava la forza.
«Quindi?» rese il tono gioviale, in mancanza di una mia risposta. Tentò di risollevarmi con quel gesto, che scaturì l'accenno di un sorriso. «Quando avverrà tutto ciò?»
«A proposito di questo...» iniziai a risponderle, trovando l'occasione giusta per invitarla e averla come sostegno. «Papà ha organizzato una cena dopodomani al Pavyllon, qui a Montecarlo. Mi chiedevo se... se potessi venire» ammisi.
«Una cena in uno dei luoghi più chic del mondo dopo tanti anni... mi stai tentando» commentò, sarcastica. Prima che continuasse, udii un fruscio di carte che sfogliò dinanzi a sé. «Sei fortunata: venerdì è il mio giorno libero. Verrò sicuramente, Desi. Voglio approfittarne per vederti e... tornare un po' lì».
Le calò il tono nel pronunciare l'ultima affermazione, in una dimostrazione di profonda nostalgia che provava nei confronti del Principato. Vi era nata e cresciuta prima del divorzio e del trasferimento a Méribel e, anche per lei, era pari a un caldo abbraccio.
Ero certa che le mancasse l'odore del salino durante le camminate sul lungomare di Larvotto, gli edifici del quartiere centrale che sembravano brillare di luce propria, il fermento della primavera ricca di eventi di ogni tipo.
Tornare le avrebbe giovato, e ciò mi rallegrò. Se io non potevo essere totalmente felice, ero contenta che lei lo sarebbe stata ritornando a casa.
«Allora ci vediamo, mamma» iniziai a congedarla. Mio padre, Valentin e Antoine mi stavano sicuramente aspettando, e non potevo farli preoccupare o insospettire. «Grazie» aggiunsi, in un sussurro più dolce e sincero.
«Di niente, Desi» mi rassicurò. «Ci vediamo venerdì».
La sua tenera voce fu sostituita dagli squilli che segnalarono il termine della telefonata, ma le sue parole non cessarono di vorticarmi nella mente.
Lei mi garantiva la libertà di scelta, ma io non ero abbastanza coraggiosa per avvalermene. Stringendo il telefono al petto, potei solo ringraziarla ancora per essere sempre presente, anche quando la mia immancabile sicurezza si riduceva in cenere.
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Nota dell'autrice
Buongiorno a tutti e buon sabato amici, come state? <3
Ecco qui il diciassettesimo capitolo di AD, spero vi sia piaciuto! Ma, prima di concludere, ricapitoliamo gli avvenimenti principali: pur trattandosi di un capitolo di passaggio, scopriamo cosa dovremo affrontare a breve. Tra l'imminente fidanzamento ufficiale di Valentin e Desirée e lo scoop della frequentazione tra Jules e Céline, si prospettano tanti problemi all'orizzonte che non possiamo ignorare...
Lo so, lo so: in questo capitolo abbiamo sofferto l'assenza di una tanto amata presenza britannica, ma giuro che tornerà nel prossimo capitolo e, ancora una volta, sarà alle prese con Desirée. Tra poco la loro vicinanza raggiungerà l'apice...
Fatemi sapere cosa ne pensate del capitolo e le vostre speculazioni sul futuro di AD, vi aspetto!
Detto ciò, ci vediamo al prossimo capitolo, sabato prossimo.
A presto! <3
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