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10. Graphite

IT: grafite

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24 aprile 2023
Monaco-Ville, Principato di Monaco

Quel giorno, gli impegni lavorativi ammontavano a zero. Decisi, quindi, di godermi lo stralcio di tempo libero che mi era stato concesso dagli Aubert.

Ne approfittai per dedicarmi alla mia sfera personale, che avevo ignorato da quando Desirée era piombata nella mia vita, all'improvviso e senza la possibilità di abituarmi. Fu così che mi ritrovai a bussare alla porta della stanza che Kira occupava nella suite, sperando di non disturbarla.

«Avanti» mormorò, consentendomi l'accesso alla camera da letto.

Quando spalancai l'uscio, la ritrovai seduta alla scrivania dinanzi al PC; i suoi capelli biondi erano perfettamente acconciati in uno chignon basso, il viso privo di difetti grazie al trucco fresco di applicazione. Discostò lo sguardo dallo schermo del portatile per rivolgermi un sorriso cordiale.

«Ciao, Kira» ricambiai il suo tacito saluto. «Disturbo?»

«Certo che no, entra pure» mi permesse.

Compii qualche passo all'interno della stanza, lasciando la porta aperta alle mie spalle. Per accomodarmi, mi appoggiai con la spalla alla parete chiara, poco distante da dove sedeva la giovane donna. Incrociai le braccia al petto.

«C'è qualcosa che devi dirmi?» mi domandò, riportando l'attenzione sul PC solo per chiudere una pagina web.

«Volevo solo comunicarti che puoi prenderti la giornata libera» la informai. «Non ho impegni, oggi, e pensavo di trascorrere la giornata con Erin. Tra poco andrò a prenderla all'asilo» proseguii, gettando un'occhiata alle lancette dell'orologio da polso. «Puoi riposarti, non ti disturberemo».

Mi rivolse un altro sorriso dolce, simbolo di gratitudine. «Se mi confermi che non avrete bisogno di me, ne approfitto per fare una passeggiata nei dintorni». Dalla voce trapelò una vena d'incertezza, e la sua affermazione assunse le sembianze di un dubbio.

«Certo, non preoccuparti» la rassicurai. «Torna quando vuoi, ci vediamo stasera». Raddrizzandomi, iniziai a indietreggiare. «Passa una bella giornata» le augurai, infine, afferrando la maniglia della porta.

«A stasera, Isaac» mi congedò, prima che la lasciassi sola nella sua stanza.

Ritiratomi nel silenzioso ingresso della suite, mi avvicinai allo specchio che sormontava l'unico mobile della stanza. Studiai il mio riflesso prima di uscire: sistemai al meglio il colletto della camicia celeste che indossavo, sbottonata all'altezza del petto e con le maniche arrotolate. Sugli avambracci scoperti, il reticolo di tatuaggi scuri era ben evidente fino ai dorsi delle mani.

Prelevai quindi i miei occhiali da sole e le chiavi dell'auto prestata dagli Aubert, entrambi adagiati nello svuotatasche; infilai tutto nelle tasche del pantalone comodo e mi affrettai a uscire dalla suite.

Erin non aveva idea del fatto che avessi il giorno libero, pensai avviandomi in direzione dell'ascensore. Non dubitavo della sua felicità non appena mi avrebbe visto fuori all'asilo, così come ero certo della gioia che avrebbe provato nel sapere che avremmo trascorso l'intera giornata insieme. La bellezza del nostro rapporto era l'unica ovvietà di cui ancora facevo tesoro.

In ascensore, selezionai il piano sotterraneo, nonché il parcheggio custodito dell'hotel dove avrei trovato il SUV. L'idea di guidare un'auto così costosa, e per giunta non di mia proprietà, mi terrorizzava, e non solo perché non avrei avuto il volante a destra come in Inghilterra. Temevo di causare anche il minimo graffio a una vettura di tal valore.

Non impiegai troppo tempo a individuare il veicolo, una volta giunto al parcheggio. La carrozzeria nera lucida sottolineava la sua imponenza, tanto quanto la sua altezza dal suolo conferitagli dagli pneumatici importanti e la sua forma squadrata. Avvicinandomi, sbloccai le portiere con la chiave elettronica e le luci dei fari anteriori mi comunicarono l'apertura.

Entrare in quell'auto fu meglio di qualsiasi accoglienza ricevuta nel Principato. Gli interni in pregiata pelle marrone mi abbracciarono con il loro profumo di nuovo - probabilmente, la macchina non era mai stata utilizzata, abbandonata nel parcheggio insieme ad altre auto appartenenti agli Aubert. Quindi chiusi la portiera dopo essermi accomodato davanti al volante, anch'esso in pelle, e regolai l'inclinazione dello specchietto retrovisore. Infine, per evitare ogni sorta di fastidio dopo essere uscito dal parcheggio, mi infilai gli occhiali da sole. Il rombo del motore mi soddisfò, non appena lo avviai.

Uscii dal piano sotterraneo con lo sguardo ben focalizzato sulla strada che mi condusse all'esterno. Abituarmi a guidare dal lato opposto non fu arduo, così, prima di procedere per le strade sconosciute del Principato, mi accostai al marciapiede più vicino per impostare il navigatore in direzione dell'École Saint-Charles. Il computer di bordo indicò un tragitto di poco più di ottocento metri, che iniziai a percorrere allontanandomi dal concentrato di edifici che accerchiava piazza Beaumarchais. Lasciai alle mie spalle il complesso del One Monte-Carlo, seguendo le istruzioni del display lungo un rettilineo.

L'aria della Costa Azzurra era respirabile solo studiando le palazzine che fiancheggiavano la strada, con i loro colori chiari e gli infissi eleganti, benché non esagerati rispetto al quartiere di Montecarlo in cui soggiornavo. Mancava un'ultima curva a dividermi dall'asilo che Erin avrebbe frequentato per quel periodo limitato di tempo, in cui svoltai per poi percorrere una salita per qualche metro.

L'edificio che ospitava l'École Saint-Charles sapeva distinguersi dal resto dei palazzi della cittadina. Era un concentrato di cemento e vetri oscurati, il cui piano terra era adibito a parcheggio. Vi entrai per piazzare il SUV in attesa dell'uscita di Erin e, una volta spento il motore del veicolo, mi recai all'esterno. L'ingresso dell'asilo era poco distante, raggiungibile in pochi passi. Una volta arrivato, sostai nella piazzetta che divideva la scuola da una chiesa, in compagnia dei genitori degli altri bambini.

Non avevo ancora avuto il tempo di chiedere a Erin come si trovasse all'asilo, o se avesse avuto occasione di stringere amicizia con i suoi compagni. Non ne escludevo la difficoltà: sapeva spiccicare alcune parole in francese, formando le frasi necessarie per intrattenere una conversazione frivola a portata di bambino, ma era ciò a cui le sue conoscenze si limitavano.

I miei timori, tuttavia, presero forma quando la campanella suonò e i bambini cominciarono a uscire, spargendosi per la piazzetta in cerca dei genitori. Non impiegai troppo tempo a distinguere le treccine rosse di Erin che si guardava intorno spaesata, probabilmente in cerca di Kira, con le spalle scosse dai singhiozzi e il visino inumidito dalle lacrime. Preoccupato, le indirizzai un cenno per farmi notare e lei mi corse incontro. Non mi rivolse una singola parola, limitandosi a stringermi all'altezza delle ginocchia. Per facilitare la nostra comunicazione, quindi, la presi in braccio.

«Amore, hey, che succede?» mormorai con tono calmo. Ero certo che si trattasse di una diatriba superficiale tipica dell'infanzia, ma decisi di indagare.

La bambina, continuando a piagnucolare, nascose la testolina nell'incavo del mio collo e mi strinse forte.

«Erin» la richiamai, indurendo la voce con una nota di serietà. Con un lieve sforzo, la invitai a guardarmi. Mi scrutò con gli occhietti azzurri colmi di lacrime, senza privarmi del suo abbraccio. Le asciugai le gote con il pollice. «Cos'è successo?» insistetti.

«U-Un bambino mi ha...» singhiozzò. «M-Mi ha preso in giro perché non so bene il f-francese. Ha detto che non dovrei essere qui» spiegò.

La sua ammissione scaturì una scintilla di rabbia che provai a debellare attraverso un sospiro sommesso. Contrassi la mascella, ma non lasciai che lei intravedesse la mia seccatura.

Quell'asilo era frequentato, per la maggior parte, da bambini nati nel privilegio o nel benessere economico. Avevano diritto a tutto, pur obliandosi, molto spesso, di lavorare sul valore dell'educazione. Le famiglie adottavano un atteggiamento superficiale che puntava alla perfezione di ogni aspetto, fatta eccezione per il comportamento dei propri figli.

Di conseguenza, decisi di non tenere la lingua al suo posto.

«Chi è stato?» le chiesi, setacciando i dintorni con lo sguardo. Parte dei bambini popolava ancora la piazzetta, intenta a chiacchierare con i genitori tra una risata e una domanda sulla mattinata trascorsa.

Erin studiò i suoi compagni e ne indicò uno, che sostava dinanzi alla porta d'ingresso della scuola con la madre. Erano entrambi seduti su un muretto in pietra, intenti a chiacchierare: il bambino lasciava dondolare le gambe corte e la donna, dall'aspetto curato e ordinato, ascoltava le sue parole mentre era intenta a cullare il secondo figlio in una carrozzina.

Stringendo Erin a me, avanzai nella loro direzione e arrestai i miei passi dinanzi alla donna. Incuriosita dalla mia presenza, alzò lo sguardo e la confusione trapelò dalle sue iridi scure.

«Mi scusi» esordii, ostentando la mia migliore pronuncia francese. «Disturbo?» domandai con cortesia.

Riuscii a rapire la sua attenzione, a tal punto da farmi guardare con le labbra schiuse. Mi rispose solo quando si ridestò dalla trance: «No, certo che no» tentennò.

«Posso immaginare che lei sia la madre di questi due bambini, sbaglio?» Annuì in risposta, quindi proseguii: «Si dà il caso che suo figlio abbia preso in giro la mia perché non parla bene il francese» esplicai. «Non sono qui per litigare» premisi, «ma gradirei che un episodio del genere non si ripetesse più».

La donna gettò un'occhiata al bambino che la fiancheggiava, torva abbastanza da significare un rimprovero. «M-Mi dispiace, non ne avevo idea» si mortificò, incerta di come reagire.

Non era la prima volta che mi capitava di difendere mia figlia. Ero protettivo anche in caso di avvenimenti futili, ma al contempo ero l'unico a prendersi cura di lei.

Tuttavia, non fu nemmeno la prima occasione in cui gli occhi di una madre sembravano liquefarsi davanti a me. Sposate o meno, mi affibbiavano l'etichetta di uomo attraente senza alcun pudore.

«La ringrazio» conclusi dopo la sua affermazione. Con Erin ancora stretta tra le braccia, iniziai a indietreggiare di un paio di passi. «Le auguro una buona giornata e che suo figlio impari l'educazione, oltre alla cultura dell'estremo perfezionismo».

Fu così che tacque, la voce spenta da un augurio tagliente elargito con finta cortesia. Accompagnato dal suo silenzio, girai sui tacchi e, riappoggiando Erin al suolo per afferrarle la manina, camminai fino al parcheggio dell'edificio.

Raggiungemmo l'auto dopo pochi minuti; i fari lampeggiarono all'apertura da remoto. Accompagnai Erin fino alla portiera posteriore, che aprii per aiutarla ad accomodarsi sul seggiolino che gli Aubert avevano aggiunto al veicolo. Mi assicurai che la cintura di sicurezza fosse ben allacciata, dopodiché occupai il posto alla guida.

«Questa macchina è più grande di quella che hai a Londra» osservò la bambina, mentre mi accingevo a mettere in moto l'auto. Quando udii il rombo del motore, premetti l'acceleratore e tornai a circolare per le strade del Principato. Erin, ancora reduce del pianto, tiro su con il naso e si passò la manina sul viso. «Papà» mi richiamò, quando lasciai il suo commento privo di risposta.

«Dimmi, amore» la attenzionai infilando, al contempo, gli occhiali da sole per fronteggiare gli insistenti raggi primaverili.

«Sono ancora triste» farfugliò. La voce risultò impastata, a causa dell'espressione imbronciata che assunse e che io intravidi dallo specchietto retrovisore.

«E va bene» mi rassegnai con un sorriso dilettato, davanti a tanta tenerezza. «Papà ti porta al McDonald's, sei d'accordo?»

Alla sola idea di ingurgitare del fast food scadente, un sorriso radioso le colorò il volto. Cercavo di farle seguire un regime alimentare salutare, ma concederle qualche sfizio era fondamentale per bilanciare. La accontentava in ogni occasione e, a dirla tutta, non mi dispiaceva l'idea di condividere un momento di serena normalità con lei.

Senza deconcentrarmi dalla strada, impostai il ristorante come destinazione sul navigatore. Sulla mappa comparvero le indicazioni per raggiungere il quartiere di Fontvieille, posto oltre la Rocca e, stando a quanto riportato, raggiungibile attraverso un tunnel.

Impiegai una decina di minuti a percorrere il tragitto. Il traffico non era intenso, elemento che mi permise di raggiungere il centro commerciale del quartiere, in cui era ubicato il fast food. Approfittando di un parcheggio libero, accostai l'auto al marciapiede e spensi il motore.

Prima di scendere dal veicolo, mi sfilai le lenti scure e le adagiai nel vano portaoggetti. Quindi uscii, recandomi alla portiera posteriore per liberare Erin dal seggiolino. La aiutai a scendere dal veicolo e ne serrai gli accessi con la chiave elettronica, quindi la presi per mano e ci avviammo in direzione del centro commerciale.

A differenza degli edifici del quartiere di Montecarlo, che sprizzavano lusso da ogni elemento decorativo, Fontvieille richiamava l'umiltà. La struttura colma di negozi, benché non affollata, era un insieme di vetrate ad arco e terrazze; le pareti chiare lo rendevano un luogo accogliente e privo di esagerazioni.

Io ed Erin camminammo sulle mattonelle rosse fino a raggiungere la scalinata che ci collegò alla terrazza del McDonald's. Entrammo una volta raggiunto l'ingresso del ristorante, che per nostra fortuna trovammo semivuoto.

«Aspetta un secondo» dissi alla bambina, lasciandole la mano. Lei, obbediente, rimase al mio fianco.

Munendomi degli schermi e della possibilità di servizio al tavolo, ordinai solo un Happy Meal per Erin. Io, al contrario, decisi di saltare il pranzo, a causa di un nodo allo stomaco, simbolo dello stress accumulato nei giorni precedenti. Scrollando il capo per sfuggire alle distrazioni momentanee, conclusi l'ordinazione e pagai. Io ed Erin ci accomodammo a un libero vuoto accanto a una finestra, dopo aver prelevato un segnaposto. Ci sedemmo l'uno di fronte all'altra; lei curiosava intorno a sé, le treccine che dondolavano a ogni movimento del capo.

Nell'attesa, cedetti a un'altra distrazione ed estrassi il cellulare dalla tasca del pantalone. Controllai l'ora e, mentre lo abbandonai sulla superficie del tavolo, la voce di Erin mi ridestò.

«Papà» mi chiamò, inchiodando lo sguardo dolce su di me. Io le dedicai tutta la mia attenzione. «Mi manca la mamma» proferì, il tono ora rattristato. Il mio cuore perse un battito, dinanzi all'impossibilità di rimpiazzare la sua nostalgia con un gesto concreto. «Quando possiamo chiamarla?»

«Non lo so» mi affrettai a rispondere, pur tentando di farlo con dolcezza. «Ha tanti impegni al lavoro e...» Mi sentivo in colpa a rivelarle la totalità della situazione, ma la sincerità doveva essere alla base del nostro rapporto. Trovai il coraggio attraverso un sospiro. «Ora c'è un'altra persona nella vita della mamma, lo sai? Per questo, ha bisogno dei suoi spazi» le spiegai.

Le sclere mi si inumidirono proprio mentre una cameriera servì l'Happy Meal alla bambina, ma repressi l'istinto e ringraziai in francese. Erin aprì la scatola per gustarsi il suo pranzo, ma non si esimette dal continuare la conversazione.

«Una nuova persona come te, papà?» mi domandò, con quell'ingenuità tipica dell'infanzia. «Una persona che fa fare tum-tum al suo cuoricino?»

Ridacchiai mestamente, ascoltando la tua teoria veritiera, anche se spiegata con tenerezza. L'amore, visto dagli occhi dei bambini, era la più lieta delle favole. Pregai affinché Erin in futuro potesse sperimentare solo quel sentimento fiabesco, senza le sue insidie.

«Sì, esatto» mi sforzai di replicare con un sorriso. «Si chiama Nash» aggiunsi.

Ignorando quell'informazione, addentò il panino e si gustò il primo boccone. Per farla ridere con un dispetto, le rubai una patatina fritta e ne presi un morso.

«Quella era mia!» esclamò, infastidita.

«Troppo tardi» risi, in una scherzosa presa in giro. Lei, cogliendo l'ironia, riconquistò il sorriso. «Chi trova, tiene» dichiarai soddisfatto.

Rimase in silenzio per prendere un sorso della sua bibita gassata, ma la sua natura di bambina loquace riaffiorò l'immediato istante successivo.

«E tu, papà?» mi domandò, riportando a galla la curiosità. «Tu hai una persona che ti fa battere il cuore?»

I suoi quesiti erano spontanei, frutto della sana sete di conoscenza che nutrivano i bambini. Non voleva spingermi a raccontarle aneddoti che tenevo nascosti affinché si godesse l'infanzia con spensieratezza, ma la situazione la induceva a indagare con ingenuità - era un atteggiamento comprensibile, vista l'assenza pressoché totale della madre e la mia, a causa dei numerosi impegni lavorativi.

Concentrandomi sulle persone che passeggiavano oltre la finestra, mi schiarii la gola e mi sforzai di rispondere al suo innocente interrogatorio.

«No, tesoro» negai, indorando la pillola con un sorriso finto. «Non ho nessuno, ma non importa». Feci spallucce, scrollando via quella responsabilità. Quindi mi concentrai su di lei, toccandole il nasino con un dito in un gesto scherzoso che la distraesse. «Sei tu, il mio amore più grande».

«E se quella bella ragazza ti porta via da me?» continuò. «Sei sempre con lei» osservò, incupendosi.

«Chi, Desirée?» ridacchiai, chinando il capo all'indietro per il diletto. «Non può portarmi via da te. Devo solo lavorarci, con lei» spiegai. «E poi, non la conosco nemmeno» aggiunsi.

Erin non indagò oltre e decise di gustarsi gli ultimi bocconi del suo pranzo in silenzio. Io, esimendomi dall'utilizzare il cellulare e isolarmi dal mondo, mi focalizzai sull'esterno del ristorante, oltre la grande vetrata. La mia concentrazione, però, aumentò quando fu una scena ad attrarmi.

Le figure famigliari di Erika e Valentin occupavano uno dei tavoli della terrazza, che offriva un'ottima vista sul porto di Fontvieille - impossibile confondere i capelli rosa della ragazza. I due erano intenti a consumare un pasto che ben si discostava dal loro tenore di vita, ma l'aspetto più bizzarro erano le risate che si scambiavano, intervallate da carezze sporadiche sulle mani. Arginai il primo dubbio circa il loro rapporto ricordandomi che non li conoscevo e che, soprattutto, erano amici. O meglio, Desirée li presentava come tali. Ogni altra opzione non era concepibile.

«Finito!» esclamò mia figlia, riportandomi alla realtà con la sua voce gioviale. Mi strappò un sorriso attraverso il suo, le labbra contornate da una macchia di salsa che pulii con il dito. «Ora puoi montare la sorpresina?» domandò, impaziente, spingendo la scatola rossa dell'Happy Meal nella mia direzione.

Quella era un'abitudine, per noi; una metafora per spiegarle, anche se attraverso delle futilità, che i piaceri dovevano essere conquistati con l'impegno. Al fast food, per esempio, il giocattolino era il suo premio per aver finito il pasto.

«Brava, amore» mi complimentai.

Contenta, attese che io estrassi i componenti della sorpresa dalla loro bustina. Seguendo le istruzioni riportare su un foglietto colorato, quindi, li assemblai. Il risultato fu una principessa in miniatura, che le passai non appena terminai di unire i pezzi.

«È la principessa Peach, la conosci?» le chiesi. Lei scosse il capo, facendo ondeggiare le treccine. «Fa parte di Super Mario. Io e lo zio Michael ci giocavamo sempre, da piccoli» rammentai, e una nota di malinconia mi colorò la voce. Scacciai la vulnerabilità e tergiversai: «Torniamo in hotel?»

Annuì in risposta, distratta dalla sua nuova bambolina, così mi alzai in piedi. Lei mi imitò e, prima di recarci fuori dal ristorante, gettai la scatola del pranzo in uno dei cestini della spazzatura. Dopodiché uscimmo e, investiti dal tepore del clima mediterraneo, ci avviammo in direzione dell'auto.

Nulla, però, mi impedì di accorgermi dell'occhiata che ricevetti da Valentin prima di scendere i gradini della terrazza. Mi guardò dal suo tavolo, in un misto tra l'irritazione e lo sconcerto, ma non proferì parola a riguardo. Seccato dalla mia figura, impaurito dalla mia presenza nella vita della sua ragazza e dalla possibilità che io spifferassi ciò che avevo visto, pur non conoscendone i dettagli.

Il mio inconscio mi suggerì di giocare quella carta a mio favore, con il fine di sollecitare le insicurezze di Desirée. Fu un pensiero così meschino, tuttavia, che lo accantonai nell'immediato: solo Michael e mio padre avrebbero agito secondo quell'impulso. Io, al contrario, mi sarei impegnato per trovare particolari veritieri a cui appoggiarmi per persuaderla, e non mi sarei accontentato di una potenziale voce di corridoio non verificata.

Con quel pensiero vagante per la mente, raggiunsi il SUV e, dopo aver sbloccato le portiere, aiutai mia figlia a sistemarsi sul seggiolino. Io tornai al volante nel silenzio ormai calato e percorsi la strada a ritroso in direzione dell'Hermitage. La semplicità di Fontvieille era stata una boccata d'aria fresca, ma era giunto il momento di ritornare a sentirmi soffocato dalla sontuosità di Montecarlo.

Impiegai una scarsa decina di minuti a raggiungere l'hotel. Erin si era appisolata, cullata dal solo rombo del motore, ragion per cui la presi in braccio una volta parcheggiato il veicolo. Lasciando che dormisse serenamente con la testa accomodata sulla mia spalla, entrai nell'ascensore e raggiunsi il piano delle suite. Anch'esso silenzioso, sembrava deserto, a eccezione di qualche addetto alle pulizie che effettuava un controllo del corridoio. Ne salutai uno con un cenno educato, prima di trincerarmi nella tranquillità della stanza.

Abbandonate le cianfrusaglie nello svuotatasche dell'ingresso, mi diressi nella camera da letto. Adagiai Erin con cautela, sistemandole la testolina sul cuscino. Lei non perse la sua tranquillità.

Nella stanza non era presente alcun rumore, indice dell'assenza di Kira, che meritava il tempo libero concesso. Anch'io, in mancanza di impegni, decisi di godermelo, e andai a sedermi alla scrivania che fronteggiava il letto.

Sulla sua superficie, l'hotel aveva messo a disposizione un plico di fogli e la cancelleria indispensabile, che consisteva in un paio di penne e matite. Era, tuttavia, l'occorrente sufficiente per dedicarmi all'unica attività che poteva rilassarmi e districare il fascio di nervi che ero diventato nei giorni precedenti: disegnare. Qualsiasi cosa mi circondasse, il solo pensiero di trasformarlo da realtà a sfumature color grafite era un toccasana per lo stress.

Quel giorno, il soggetto della mia arte amatoriale fu Erin, calata in un sonno profondo sul letto a qualche metro da me. Iniziai quindi a delineare le fattezze dolci del suo viso e sfumai la grafite con le dita, vista l'assenza degli strumenti specifici che utilizzavo nel tempo libero a Londra. Passai dalla curva delle sue guance paffute a quella del suo naso, quindi ritrassi le ciglia che le adombravano gli zigomi.

Mia figlia era oggettivamente una bella bambina, frutto della somiglianza impeccabile con Giselle, ma non era solo il suo aspetto a costituire l'insieme di meraviglie che lei rappresentava nella mia vita. A ogni tratto di matita, ogni volta che la punta grigia incontrava la carta ruvida, realizzai il modo in cui lei aveva significato un'effettiva rinascita, per me. Non ero una fenice risorta dalle ceneri in cui mi ero sgretolato anni prima della sua nascita, ma lei mi aveva donato un paio d'ali per uscirne.

Calato ormai in una calma bizzarra, che non provavo da quando ero atterrato a Nizza, fui distratto solo dallo squillo del cellulare. Gettai un'occhiata allo schermo per capire chi mi stesse chiamando e, malgrado l'interruzione, sorrisi. Fu inaspettato, ma accettai la telefonata senza pensarci.

«Mamma, ciao» salutai la donna dall'altro capo della cornetta, emozionato. «Come stai?»

Lei, però, ignorò la mia domanda, e tirò fuori il lato ironico che Michael aveva ereditato al posto mio. «Non mi hai nemmeno avvisato della tua partenza!» ridacchiò. «Sono andata a South Kensington per stare un po' con te e la bambina, ma ho trovato solo tuo padre» mi raccontò. La sua loquacità mi strappò un altro sorriso, tra il divertito e il nostalgico. Con lo sguardo, mi persi nel cielo limpido all'esterno delle finestre, continuando ad ascoltarla. «Mi ha detto che sei andato a Monaco per affari e che Michael ti ha raggiunto, ma lo sai che è di poche parole, soprattutto se si tratta di me» spiegò, l'accento britannico colorato dalla sua cadenza francese che, nonostante gli anni trascorsi nel Regno Unito, non aveva perso.

Era raro che mia madre lasciasse Hackney, un quartiere periferico e degradato a nord di Londra in cui lei aveva sempre vissuto e che faceva inevitabilmente parte della mia infanzia. Ancora più di rado si muoveva fino a South Kensington, bloccata dall'assente voglia di rivedere mio padre dopo il divorzio e di immergersi in quel mondo di ricchezze e frivolezze.

«Sai com'è fatto papà: vuole tutto e subito» replicai, ridacchiando per sdrammatizzare. «Ha avviato alcune trattative con una società monegasca e devo vedermela io, vista la sua urgenza di capire se lasciare il suo posto a me o a Michael» proseguii. «Ed eccomi qui» proclamai con tono teatrale, «a lavorare con il futuro capo di quest'azienda».

Il solo parlarne mi infastidiva, quindi pregai che mia madre tergiversasse, mossa anche dalle scarse conoscenze nell'ambito.

Lei non aveva mai voluto immischiarsi nel mondo aziendale ed economico, nemmeno quando mio padre compì l'azzardo di investire sulla realtà di cui era diventato l'amministratore delegato, arricchendosi oltre i limiti dell'immaginazione. I miei genitori, allora, avevano già divorziato, ma mia madre rimase una donna umile focalizzata sulla sua famiglia, senza ricevere un solo centesimo dall'uomo che aveva amato in passato.

Solo l'ennesimo esempio dell'egoismo di Damian Woodward.

«Immaginavo che ti avesse immischiato in uno dei suoi tentativi di arricchirsi» ridacchiò. In seguito sorvolò sulla questione, e la gratitudine mi investì quando lei proferì un semplice quesito: «Erin è lì con te?»

«Grazie a Dio, sì. Va all'asilo, anche se ha qualche difficoltà con i bambini a causa del francese, ma se la cava» la informai. «Sarebbe stato tutto più insopportabile se lei non ci fosse stata».

Mi scappò un sospiro stanco, frutto dell'incapacità di nascondere il mio lato vulnerabile con mia madre. Era l'unica persona con cui mi confidavo su tutto, l'unica che ascoltava per aiutare e non per sputare giudizi non richiesti.

Insieme a Erin, era la mia boccata d'aria fresca.

Lei, però, sembrò notare quell'accenno di squilibrio emotivo e, come sempre, ne afferrò le redini. «Stai bene?» mi domandò. «C'è qualcosa che non va?» insistette.

Per evitare di svegliare Erin con le mie chiacchiere, mi alzai dalla sedia e camminai in direzione del salottino centrale della suite. Avevo bisogno di una distrazione per evitare un crollo totale, risultato del nervosismo combinato agli eventi più recenti, che in parte trovai varcando la porta finestra. Sul balcone, il sole mi abbracciò e l'odore del salino riuscì a rilassarmi, seppur non del tutto.

«Isaac, ci sei?» mi incalzò mia madre, confusa dal mio silenzio repentino.

«Sì, scusami, non volevo svegliare Erin» risposi, e alla mia replica seguì un ulteriore sospiro sommesso.

«È successo qualcosa?» indagò ancora.

Deglutii un groppo alla gola che intrappolava le parole nella sua morsa dolorosa. Pregai che la voce non uscisse spezzata, quando mi sforzai di riferirle l'episodio che più mi aveva scosso da quando l'avventura monegasca era iniziata. «Giselle si sposerà, mamma» confessai. «L'ho saputo qualche giorno fa».

Trascorse qualche minuto trincerata in un mutismo interdetto, durante cui cercò di elaborare l'informazione appena recepita. Era una novità anche per lei, e in me si consolidò il pensiero che la vita di Giselle fosse un mistero, ormai. Condividevamo solo nostra figlia.

«Aspetta, Isaac, non credo di aver capito bene» mormorò incerta. «Giselle è fidanzata? E da quando?»

«Non ne ho idea, me l'ha presentato solo un paio di giorni fa. Non le ho chiesto spiegazioni, sono affari suoi» feci spallucce.

«E chi sarebbe il fortunato?» curiosò.

Strinsi un pugno lungo il fianco, nel sentire quell'appellativo affibbiato a Nash. Se non avessi commesso degli errori durante la relazione, sarei stato al suo posto e non avrei sentito un peso gravarmi sul cuore come in quel momento.

«Un bastardo della Marina» farfugliai, digrignando i denti.

«Isaac» mi rimproverò, perentoria, per la mia inaspettata mancanza di maturità. Non potevo darle torto: avevo ventisette anni e non riuscivo a superare una relazione senza provare rancore, illudendomi di un ritorno. «Lo sai che lei ha tutto il diritto di andare avanti, e ce l'hai anche tu. Devi solo lasciarti quella relazione alle spalle» consigliò. «Sei forte e intelligente, non ho dubbi sul fatto che tu possa riuscirci».

«Ma come posso dimenticarmi di lei se è la madre di nostra figlia?» Il nervosismo mi tradì, a quel quesito, palesandosi in un graffio nella voce e una lacrima che mi solcò il volto; la scacciai via impedendole di raggiungere l'angolo delle labbra. «La vedo ogni volta che guardo Erin, mamma. Sono identiche, Cristo...»

«Isaac, ascoltami» s'infiltrò per l'ennesima volta, guidata dall'istinto materno che la induceva a spargere perle di saggezza ovunque ce ne fosse il bisogno. «Hai mille cose a cui pensare, ma devi far sì che Giselle non sia più tra quelle» sentenziò. «So che sei mangiato dal senso di colpa perché hai rovinato un rapporto a cui tenevi, ma non posso nemmeno biasimarti. Quello è stato il periodo peggiore per tutti noi». Quando riportò a galla i ricordi di quei momenti, sentii il cuore ridursi a brandelli; non avrei mai immaginato che la mia vita potesse andare così in declino. «Posso dirti, però, che è il momento di accettare e di cercare un nuovo inizio» proseguì con dolcezza. Con la sua empatia riuscì a distendere i miei nervi. «E il tuo potrebbe essere proprio lì a Monaco, chissà» ipotizzò.

Apprezzai la pazienza, una delle sue doti migliori, sebbene il mio cinismo non le permettesse di convincermi. Scrollai le spalle, dubbioso: quante possibilità c'erano che la mia occasione di andare avanti si nascondesse in quel paio di chilometri quadrati? Meno di zero, probabilmente.

«Ho forti dubbi a riguardo» commentai, l'arrendevolezza tinse il tono basso. «Spero solo che tutto questo finisca presto».

Quando mia madre si apprestò a rispondere, tuttavia, la sua voce fu sovrastata da uno squillo che si sovrappose alla telefonata in corso. Allontanando il cellulare dall'orecchio, notai il nome di Jules Aubert che attendeva una risposta. Mi sarebbe piaciuto negargliela e distaccarmi dal suo mondo ma, insieme a lui, era il dovere a chiamare.

Riportai il telefono all'orecchio e mi schiarii la voce.

«Scusa, mamma, devo lasciarti» le dissi a malincuore. «Il capo mi sta chiamando. Impegno inderogabile» ironizzai.

«Tranquillo, ti richiamerò» mi promise. «E, quando tornerai a Londra, ti dimenticherai di tutto questo. Parola di mamma». Non potei vederla, ma immaginai il suo sorriso nella maniera più nitida possibile. «A presto, amore».

Anche se il nomignolo dolce mi fece stringere il cuore, sfogai la nostalgia stringendo le dita attorno alla ringhiera del balcone. «A presto» la congedai.

In una manciata di secondi, attaccai e risposi alla telefonata del signor Aubert, ignaro di quali novità avrebbe proferito di lì a breve. Dopo gli squilli infiniti che gli avevano tenuto compagnia in mia attesa, egli palesò il sollievo per mezzo di un saluto cordiale.

«Signor Woodward, buon pomeriggio» esordì, il tono pacato. «Disturbo?»

«Certo che no» lo rassicurai. Se c'era un fattore a distinguerlo dalla figlia, quello era sicuramente la gentilezza e l'assenza di arroganza. In fondo, l'ostentazione era inutile per un uomo consapevole di trovarsi al vertice della piramide.

«Spero che all'Hermitage stia procedendo tutto per il meglio, così come nell'intero Principato» si augurò. «Nel caso si presentasse un benché minimo problema, conti su di me» aggiunse.

Annuii con un cenno del capo, corredato da un semplice: «Sarà fatto». Mi separai dalla ringhiera del balcone e, dopo un paio di passi, raggiunsi una delle poltroncine da esterno baciate dal sole. Mi accomodai sui cuscini morbidi, le pupille ancora incagliate all'immobilità che regnava su Port Hercule. «Nessun problema, comunque. La sua struttura svolge il suo lavoro in maniera eccelsa».

«Sono lieto di sapere che l'hotel è ancora uno dei migliori in circolazione» commentò. «In ogni caso, non l'ho chiamata solo per chiederle come stesse andando, ma per comunicarle che la Société Aubert e la Woodward Entertainments hanno organizzato la prima riunione per discutere faccia a faccia delle trattative e delle proprietà».

Ottimo, pensai. Sarebbe stata l'ennesima occasione per parlare di un mondo che non mi interessava. Quando la seccatura prendeva il sopravvento, però, rammentavo che quella posizione era necessaria per garantire il meglio a Erin e rappresentare un ausilio per mia madre. Senza sbilanciarmi, quindi, mandai avanti la conversazione.

Con i nervi a fior di pelle, avevo dannatamente bisogno di una delle sigarette di mio fratello. Alloggiava nello stesso hotel, ma l'idea di andare da lui per chiedergliela era l'ennesimo tassello della mia agitazione. Mi ripromisi di comprarle in un secondo momento.

«Perfetto» mi sforzai di dichiarare. «Quando si terrà?»

«Dopodomani» mi informò. «Sarà un pranzo offerto completamente dalla nostra società. Come ristorante abbiamo scelto il Louis XV dell'Hotel de Paris, senza dubbio il migliore del Principato» proseguì con la sua spiegazione. «Ne potrà approfittare per approfondire alcune questioni con mia figlia, dato che io e Damian abbiamo deciso di mettervi alla prova con questo piccolo compito» propose. La sola idea mi chiudeva lo stomaco per la riluttanza, portandomi a dubitare su quanto mi sarei goduto l'imminente pranzo stellato. «A proposito di Damian» riprese, «si è già organizzato per raggiungerci. Sarà a Monaco domattina».

Una scarica di brividi mi attraversò la spina dorsale e si diramò in tutto il corpo, nel ricevere quella notizia inaspettata.

Mio padre stava per giungere nel Principato. Era questione di ore.

Non avevo mai temuto la sua figura poiché, come Jules, si era sempre dimostrato pacato nella tua motivazione e voglia di lavorare al meglio. A distaccarmi da lui, però, era il modo in cui ci aveva abbandonati nella miseria nel bel mezzo della nostra crescita, senza alcun tipo di sostegno. In più, le sue aspettative nei miei confronti erano alte e, ora che lui era nella mia vita come desideravo da bambino, non volevo rischiare di deluderlo e allontanarlo a causa dei miei errori.

Fu così che realizzai che lì a Monaco avrei dovuto dare il meglio di me. Portare a casa il bottino a cui tanto anelava, costituito da un plico di contratti che mettessero quelle proprietà sotto il suo nome.

«Va bene, signor Aubert. Non mancherò» gli assicurai.

«Ah» rammentò, «Desirée non ha perso tempo nell'avvisarmi circa la presenza di suo fratello nel Principato. Essendo anche lui coinvolto nella Woodward Entertainments, non sarebbe un problema renderlo partecipe della riunione. Più siamo, più spunti di riflessione possiamo trovare».

Un'altra proposta, un altro ostacolo nel mio cammino già dissestato. In presenza di nostro padre, l'indole competitiva di Michael diventava la protagonista e non c'era modo di controllarla: voleva dimostrare che, nelle sue mani, il colosso aziendale avrebbe maturato un profitto ancora più alto. E, anche se a primo impatto poteva non sembrare, lui aveva un ottimo fiuto per gli affari e le strategie.

«Sono d'accordo» proferii, invece, perché era più conveniente preservare la maschera che impossibilitava la benché minima scalfittura. «Glielo riferirò, non si preoccupi».

«Grazie, signor Woodward. Apprezzo molto la sua collaborazione» si complimentò.

«Grazie a lei per l'invito» rilanciai. «Se non deve riferirmi altro, ci vediamo al Louis XV tra pochi giorni» iniziai a congedarlo.

«No, è tutto» confermò. «A dopodomani» ricambiò il saluto.

Non feci in tempo a replicare, che il suono della chiamata terminata mi echeggiò nei timpani. Abbassai il cellulare, adagiandomelo in grembo, e reclinai il capo per godermi il sole. Pregai che un po' di quella luce potesse rilassarmi, liberandomi da quegli obblighi stretti.

Se mia madre era riuscita a scongiurare parte dello stress accumulato, la telefonata con Jules aveva avuto la capacità di ristabilire l'esagitazione. Avrei dovuto fronteggiare mio padre, Michael e Desirée nello stesso istante, tutti accomunati dall'arroganza e dall'impellente necessità di nutrirsi dell'inferiorità altrui.

Erano tante le volte in cui mi interrogavo sul perché perseverassi invece di arrendermi, sulla ragione dietro la mia decisione di restare intrappolato in quel mondo, piuttosto di dedicarmi a un'occupazione più umile, benché più limitante.

La motivazione, quel giorno, si palesò proprio nel momento del bisogno. Con i capelli rossi spettinati in modo adorabile e i vestiti stropicciati dopo il riposino pomeridiano, fece capolino oltre la portafinestra e mormorò, con estrema dolcezza e la voce impastata, la parola "papà".

Due sillabe bastarono a farmi capire che ne sarebbe valsa la pena.

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Nota dell'autrice
Ciao a tutti e buon sabato, amici, come state? <3
Eccoci qui con il decimo capitolo! Siamo già a un decimo della storia, che paura. E ricordatevi che sarà uno slow...
Oggi un capitolo di passaggio per avvicinarci alla prossima scena che vedrà protagonista una sfida tra Isaac e Desirée. Abbiamo visto Isaac con sua figlia, oltre a indagare circa il suo rapporto con sua madre, che in seguito approfondiremo per una piccola (piccolissima) tragedia che non posso non inserire. Inoltre, abbiamo scoperto che Isaac ha una passione per il disegno.
Ebbene, vi consiglio di tenere a mente tutti questi piccoli dettagli sparsi, perché culmineranno in un unico punto che cambierà la vita del nostro Woodward.
E che ne pensate della questione Valentin ed Erika? Agli occhi di voi lettori sarà già ovvio, ma ci sono tante persone che ancora non sanno nulla... Ne vedremo delle belle, anche per quanto riguarda il tema della vendetta 👀
Alla fine di questa breve nota ci tengo a ricordarvi che sabato prossimo, 16 marzo, sarò impegnata con il Festival del Romance Italiano al Forum di Assago. Se qualcuno di voi ci sarà e vorrà fare due chiacchiere, mi troverete di tanto in tanto al tavolo 5 del corridoio 1. Pertanto, non aggiornerò sabato, bensì venerdì o domenica (ho il capitolo pronto? No. Sarà un capitolo importante? Ovviamente. Ce la farò? Figuriamoci). Spero di accontentarvi :')
Vi aspetto! <3

IG & TikTok: zaystories_

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Note informative
Centro commerciale di Fontvieille, Monaco

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