38. Addio, te lo giuro.
L'unica cosa a cui penso adesso è correre. Non so per salvare chi, non so per salvare cosa, ma volo cercando di raggiungere il più velocemente possibile sia Levi che il resto della squadra antiuomo. Di certo il sibilo dei proiettili che volano attorno non aiuta a ragionare ed io sono sempre più nel panico. Buoni, cattivi, buoni, cattivi...
Levi e la mia squadra, che lottano per sovvertire un regime che ha costruito un castello di menzogne. Il mio papà e il suo capo, che sono spuntati dal nulla per collaborare con la gendarmeria.
Il fischio del vento si insinua nelle mie orecchie, unendosi al frastuono del ronzio metallico. Riesco a percepire il turbinio dei corpi attorno a me che cercano di uccidere Levi. Frammenti di proiettili, aria, sospiri, urla, ronzii... si mischiano in un unico vortice di confusione, che fa battere il mio cuore all'impazzata e mi provoca vertigini che non ho mai avuto mentre volavo. Sento che il mio corpo fende l'aria, ma non mi percepisco veramente qui. Come una morsa, tutto quello che ho fatto in questi anni e che avrei potuto evitare mi si stringe attorno alla mente, avvolgendomi in un nero tunnel di dubbi e paure. Mi sento sola come non mai, abbandonata da Erwin, da papà, da tutti quelli che mi dicevano sarebbero stati al mio fianco.
Forse è l'istinto, forse gli anni passati ad identificare quei mantelli verdi come amici, nei brevi momenti in cui riesco a concentrarmi sulla realtà mi accorgo di star proteggendo Levi. Con i miei rampini non posso fare nulla per uccidere la squadra antiuomo, ma cerco di rallentarli il più possibile. Fisso lo sguardo sulla nuca rasata di Heichou, notando che si muove tra le case e i palazzi con disinvoltura: scivola nell'aria come una piccola rondine che fugge, che scappa, che cerca di salvarsi la vita.
È la prima volta che il mio cuore perde un battito pensando che lui possa seriamente morire.
Mentre mi paro davanti ad una donna nemica, vedo di sfuggita il suolo ricoperto da cadaveri di entrambe le fazioni: il sangue, rosso e brillante alla luce del sole, forma un'unica strada di morte, che si estende man mano che proseguiamo per le vie, come un mostruoso corteo dell'orrore. Mi chiedo se tra quei corpi dagli occhi vuoti ci sia quello di Moblit. O di Shojiro.
O di mio padre.
L'aria è diventata un teatro di guerra, con i corpi dei vivi e dei morti che vengono catapultati da una parte all'altra da quei dispositivi di manovra tridimensionale che da piccola mi attirarono tanto e che ora mi sembrano delle piccole bare ferrose, che straziano i corpi senza vita dei loro padroni. In lontananza vedo tanti, troppi soldati nemici che ci accerchiano, cosa che mi fa pensare di lasciarmi cadere a terra, schizzata del sangue di qualcuno, e rimanere adagiata lì fino alla fine. E tutto per seguire un carro con una regina ribelle e un mezzo gigante, che procedono noncuranti del tanfo di morte che si stanno lasciando dietro.
Tutto questo non è giusto. Mi hanno addestrata per combattere giganti, non umani. Mi hanno cresciuta per difendere la stessa gente che poco più avanti Levi sta trucidando, mandandola in un inferno che lui non ha il diritto di riempire. Jean aveva ragione: il sangue umano non è uguale a quello dei giganti. Ogni goccia, ogni piccola ferita inferta ad un uomo è come un colpo che mi trafigge il cuore. Colpi che adesso si stanno accumulando, riempendomi di dolorose fitte che quasi mi fanno cadere al suolo. La Sumire che si beccò uno schiaffo per aver interferito in un processo per giustiziare degli ignari cittadini, la Sumire che venne spedita in una squadra speciale per difendere i suoi compagni contravvenendo agli ordini, la Sumire che promise di usare le sue visioni a fin di bene... quella Sumire non voleva questo. Non voleva diventare un'assassina rivoltosa. Entrambe le nostre fazioni stanno versando sangue, entrambe le nostre fazioni hanno fatto cose di cui non essere orgogliose.
Ma se noi del Corpo di Ricerca non avessimo iniziato questo piano folle, la rivolta e l'uscire dalle mura... ora dove saremmo tutti noi? Dove sarebbe Petra? Dove Nifa, Nanaba, Mike? Quante centinaia di tombe, di famiglie spezzate, ci sarebbero in meno oggi?
Ormai si è formato uno sciame di nemici attorno a Levi, che combatte con tutte le sue forze e se ne libera come se si trattasse di fogli di carta, abbattendoli con le sue spade senza pensarci un attimo. Ha una ferita sanguinante alla testa, ma non so dire se sia il suo o quello delle sue vittime il sangue che ha sulla giacca. Ormai spaccata in due parti di me, schierate entrambe in una fazione diversa, mi butto in mezzo al nugolo che è sospeso in aria, simile a delle api che si ammassano attorno al loro alveare.
Non uccido nessuno. Anche se innumerevoli proiettili mi lambiscono le braccia, anche se potrei sbriciolarmi sotto a tutti quei colpi che rischiano di porre fine alla mia vita da un momento all'altro, il mio unico obbiettivo rimane quello di recuperare Levi, scappare con lui e implorarlo di tornare alla vita di prima. Persino nello stato in cui mi trovo comprendo che è una trovata stupida, ma è tutto ciò che mi rimane, ormai.
Sento un fruscio tanto, troppo vicino, che mi raggiunge quasi al rallentatore: vedo un proiettile che si avvicina sempre di più alla mia fronte, ma non capisco da chi sia stato sparato. Non potrei riuscire, in queste condizioni, ad effettuare uno scatto rapido dei miei per allontanarmi, specie con il gas che a malapena mi basterebbe per continuare a volare per una decina di minuti. Sono schiacciata tra il muro di una casa nobiliare e quel piccolo, grande ostacolo. È come se il destino mi stesse inchiodando a quella parete per dirmi di arrendermi.
È finita.
Conscia di non avere più vie d'uscita, mi preparo a lasciare questa vita, con un veloce frammento di ricordo che mi passa in mente: Levi mi aveva avvisata... per fare questo servono gas e lame. Devi cambiarle spesso: se finissero ti troveresti nei guai. Era stato il suo primo, inconsapevole insegnamento. Uno spezzone della conversazione che ha spedito la mia vita su una rotta che non avrei mai voluto prendere, quella conversazione che mi ha convinta a fidarmi della stessa gente che ora potrei rinnegare al minimo errore. Mentre i rumori della battaglia che ancora infuria attorno a me si affievoliscono, chiusi fuori dalla mia mente, cerco un unico frammento di positività da conservare negli occhi, poiché non voglio che l'ultima immagine impressa nella mia memoria sia tutta quella distruzione, tutto quel dolore che si sta ancora spostando per le vie della città, lasciandomi indietro. Con uno scatto involontario mi porto la mano al cuore, dove la spilla continua a rimanere imperterrita: forse l'unico elemento costante della mia vita. Abbasso lo sguardo per rimirarla, cullata dal movimento tridimensionale che si sta pian piano fermando, non guidato più dalla sua proprietaria.
Nel nanosecondo in cui chiudo gli occhi, sento un corpo che mi si schianta addosso, spingendomi via da lì. Il proiettile che doveva porre fine alla mia vita giace conficcato nel muro della villa. Piccole crepe si sono irradiate dal punto che è stato colpito e, tra quelle, noto il mio rampino destro che pende, ormai patetico e inutile. Nei pochi minuti che ci metto a riprendermi, sento delle voci: "Ottimo lavoro, Nigel! Aveva ordinato di non ucciderla", grida una. L'altra si limita ad incitare il compagno. I due uomini se ne vanno.
Uomini nemici. Che, stando alla situazione, hanno salvato me.
Ormai troppo confusa per dar retta anche solo ad un istinto di protezione di qualcuno, seguo meccanicamente gli uomini, mantenendomi dietro di loro per evitare equivoci, ma sembra che siano seriamente disinteressati alla mia presenza. Ora che sono costretta a volare con un solo rampino, ogni cosa attorno a me si è trasformata in un ostacolo. L'aria, da sempre stata la mia culla, il mio rifugio, il mio elemento, ora sembra voler adempiere al compito che il proiettile ha mancato di terminare: mi frusta, mi sbatte da una parte all'altra, cercando di rallentarmi.
Proprio quando gli uomini si sono appostati su tutti i tetti disponibili, accerchiando una locanda dall'aria putrida (sarà quella in cui abbiamo lasciato Eren e Historia prima che succedesse tutto questo?), sento anche l'altro rampino che si rompe con uno schiocco sinistro, mandandomi a schiantare in un vicolo buio alle spalle dell'edificio. Non mi concedo il tempo per riprendermi dallo schianto: mi affaccio sulla piazzola di fronte alla locanda, mantenendomi nascosta alla vista degli altri soldati. Percorro il tratto che mi separa dal luogo con le ossa che urlano di dolore, come se il mio corpo maltrattato stesse andando a fuoco.
Osservando le espressioni concentrate e aggrottate di tutti quelli che dovrebbero essere i miei nemici, mi rendo conto che Ackerman e Levi devono essere là dentro. Magari impegnati in uno scontro finale che decreterà la vittoria dell'Armata o della Squadra Antiuomo. E io sono qui, ad un tiro di schioppo dalla porta del locale, che potrei armarmi anche del tronco scartato che qualcuno ha abbandonato qui e mettere fine a tutto, avendo anche il lusso di poter scegliere la fazione vincitrice: potrei ammazzare Levi e allontanarmi dalla squadra, rifiutando quelle Ali della Libertà che ho giurato di non rinnegare mai. O bastonare il minaccioso Ackerman, con il rischio di uscire con il caporale che, per farci fuggire illesi, potrebbe uccidere tutti i soldati attorno a noi, ponendo quasi sicuramente fine anche alla vita di mio padre.
Forse è proprio per questo che rimango qui, immobile, a fare da spettatrice passiva: per evitare di decidere quale delle mie due famiglie tradire. Il ronzio, insieme al coro di voci che intonano buono, cattivo nella mia testa, si fa sempre più forte, come ad intimarmi di scegliere.
È tutto in mano alla solita quindicenne su cui nessuno, anni fa, avrebbe scommesso un centesimo. La piega che prenderebbe il mondo dipenderebbe da me, se soltanto non mi facesse tanto male pensare di dovermi ritrovare davanti alla testa mozzata del mio vero padre Duran o del mio genitore adottivo Erwin, al centro di una piazza che incita il boia a giustiziare i traditori.
Scruto la folla di soldati, che aumentano sempre di più, all'angosciosa ricerca di un volto conosciuto, che sia quello dei membri della mia squadra o quello di mio padre. Ma i primi erano troppo lontani dal punto di osservazione di Levi per potersi accorgere degli spari, mentre mio padre sarebbe impossibile da distinguere in questa massa di persone con il medesimo abbigliamento.
Nonostante questo, cerco con tutta la disperazione che ho in corpo di trovarlo: scruto le facce accigliate di tutti gli uomini e le donne attorno a me, armate di un congegno simile al movimento tridimensionale, ma con delle pistole a sostituire le spade. Man mano che li guardo, la mia determinazione vacilla per un pensiero che si fa strada nella mia mente: tutti loro sono criminali. Gente che ha visto l'essere un bandito come unica ancora di salvezza contro gli stenti, gente che lo ha fatto pensando di agire nel bene, gente che ha scelto questo come stile di vita, che non aveva scelta.
Cos'è che li rende diversi dal nostro corpo di polizia militare?
Loro agiscono per vendetta. Noi agiamo per vendetta.
Loro seguono un ideale. Anche noi.
Loro cercano di fuggire da un mondo che li rifiuta. Anche noi.
Loro uccidono. Noi uccidiamo.
Buoni, cattivi, buoni, cattivi...
Vedendo quei volti senza guardarli, la mia vista comincia ad offuscarsi. La spilla brilla. Ancora. Ancora. Ancora. Il cuore comincia a rallentare la sua corsa sfrenata, anche se dovrei essere inquietata da quello che mi succede. Come guidata da qualcosa di strano, lascio che tutto accada senza fare nulla.
Mi giro, uscendo allo scoperto, in trance. Non mi curo di quello che potrebbe succedermi, faccio solo quello che una forza ignota mi ordina di fare. La spilla sembra trascinarmi verso un punto che solo lei conosce.
E assecondarla è stato, tra i tanti, il mio più grande errore.
Un paio di occhi, gli stessi occhi che vidi, dopo anni, nascosti in una visione e accerchiati dal sangue, mi trovano in mezzo alla folla. Un sorriso increspa gli angoli della bocca dell'uomo, illuminandogli il volto solcato dalle rughe. Una ciocca di lucidi capelli neri gli ricade sulla fronte, riportandomi alla mente tutta la mia infanzia prima delle mura.
Lo avevo già visto, ma ora è diverso: ora voglio vederlo. Voglio correre da lui, arrampicarmi su quel palazzo fino a farmi sanguinare le mani e stringerlo forte dopo secoli, farmi raccontare un sacco di cose, piangere sulla sua camicia e trascinarlo via, lontano da qui, nella casa che credevo di aver perso per sempre, per leggere un libro che giace dimenticato tra le lenzuola del mio letto da bambina.
Fisso impietrita la figura che scende dal tetto senza essere fermata da nessuno, mentre si avvicina a me con dei piccoli passi claudicanti. Ci separano pochi centimetri, ormai. Il mondo si colora di tinte vivaci mentre sento la distanza che diminuisce.
Ma evidentemente, non sono quelli i piani che la bastarda vita ha per me.
Alle mie spalle, la porta della locanda si apre.
Una saetta ne esce, fiondandosi via e facendo risuonare dei sibili nella piazza.
Sento un nome che viene urlato, seguito da uno schianto.
E poi, da tanti altri strilli.
Da una pioggia di sangue.
Da una massa di cadaveri.
Dallo sciame di superstiti che dà nuovamente inizio alla battaglia.
Non credo troverò mai le parole per descrivere quello che mi sta succedendo ora. Mentre piccole crepe, simili a quelle del proiettile nel muro, si allargano nel mio cuore, la spilla si raffredda, portando via con sé i suoni, i colori, il tempo, le mie certezze. Un passo dopo l'altro, colmo la distanza che ci separava. Crollo in ginocchio dinnanzi al cadavere di mio padre, troppo sconvolta per piangere o per fare qualsiasi altra cosa.
Mi soffermo ad osservare i suoi occhi scuri, ancora spalancati ma spenti come non ne ho mai visti. Sul volto ha ancora impresso lo spettro dell'ultimo sorriso che mi ha rivolto, che stava per dirmi tante di quelle cose che ora non riuscirò mai più a sentire.
Frammento di visione. Tre quaderni davanti ai miei occhi.
Con gli occhi sgranati, noncurante dei pezzi di cose future e passate che mi riempiono la vista a scatti, scorgo di tanto in tanto la macchia di sangue che continua a sgorgare dalla ferita che gli è stata provocata: la carne macellata e rossa ha ancora impressa la forma del rampino che ha posto fine alla sua vita.
Frammento di visione. Una chiave che pende.
Sento un qualcosa di caldo che mi bagna la mano: senza accorgermene, ho posato il mio palmo sulla ferita di mio padre, come a coprirla. Il sangue mi scorre tra le dita, regalandomi una sensazione di orribile e soffocante calore... anche gli altri cadaveri, che ora ricoprono la piazza come un grande tappeto, appesantiscono l'aria.
Rimango a fissarmi il corpo ricoperto del sangue altrui per un po'. Non mi importa della battaglia che si sposta sempre di più verso la porta del distretto: l'unica cosa che conta in questo momento è il cadavere di mio padre. Una cosa che non avrei mai voluto vedere, una cosa che non avrei mai meritato di vedere. Non riesco a piangere, non sento il tempo che scorre attorno a me e neanche il dolore fisico che mi ha accompagnata per tutto il giorno. Riesco solo a pensare a quanto questo niente possa somigliare a quello che ho provato di fianco a Petra, quando l'ho vista trafitta dai rami di quell'albero.
Ma poi la consapevolezza arriva.
Papà è morto.
Papà è stato assassinato da Levi.
La mia vecchia famiglia è morta.
Tutto per colpa mia, mia. Di me che mi sono fidata di questi maledetti.
Al diavolo Erwin, che ha causato tutto questo.
Al diavolo Hanje, che ha lasciato morire la sua squadra.
Al diavolo Armin e i miei soldati, troppo scemi per distinguere la reale giustizia.
Al diavolo la Sumire bambina, quell'idiota che ha aiutato gli assassini di suo padre.
E al diavolo Levi. Lo ucciderò con le mie stesse mani, lo crivellerò di pallottole, finché il suo corpo non sarà straziato con il doppio delle ferite che ha inferto agli altri.
Oggi non so ancora quale sia il bene, ma di una cosa sono certa: non starò mai dalla parte di chi ha ucciso mio padre. Ma solo l'assassino deve perire: non voglio diventare come il mio nemico, una cinica mietitrice di anime innocenti.
In preda ad una cieca sete di vendetta, che mi riempie così tanto da non lasciar spazio ad altre emozioni che la contrastino, mi allontano dal corpo di mio padre, chiudendogli gli occhi e giurando di vendicarlo. Non sono riluttante quando strappo di dosso ad uno dei cadaveri che circondano la piazza un dispositivo della Squadra Antiuomo. Mi alzo in volo, priva di ostacoli. Le visioni che prima mi turbavano non mi straziano più l'animo: mi sento una candela spenta, come se l'interruttore che mi limitava si fosse disattivato lasciando alla mia follia omicida la libertà di prendere il sopravvento.
Riesco a raggiungere la lotta in breve tempo, seguendo la scia di cadaveri che prosegue e si perde all'orizzonte. Centinaia di miei nuovi compagni mi fanno spazio senza troppe domande. Non mi domando se è quello che si aspettavano facessi. I volti attorno a me potrebbero essere delle semplici sagome, per quel che mi importa l'unica persona che merita attenzione è Levi. Che, inconsapevole del mio voltafaccia, continua a scappare e a trucidare gente, con la freddezza che lo ha sempre caratterizzato. I cadaveri che si lascia dietro mi finiscono addosso, ma li schivo senza problemi avvicinandomi sempre più. Quando, nelle visioni distorte, mi appaiono i miei compagni di squadra, cerco di non badarvi e di tenere fuori il dolore come quando mi esercitavo in quelle che mi paiono ere fa.
Dagli sprazzi di realtà che riescono a spezzare, di tanto in tanto, il mio mondo distorto, riesco a vedere la porta principale di Stohess che si erge sempre più vicina a noi. È spalancata, il che mi fa pensare che abbiamo intenzione di uscire da lì insieme al carro con Eren e Historia, che ora è stato quasi raggiunto da Levi.
Non posso andarmene senza vendicare il mio papà.
Con un ultimo scatto, raggiungo il mio ex capitano, pronta a fare quello che mi ero ripromessa. Estraggo una delle pistole che ho alla cintola, troppo concentrata per curarmi del loro peso. Sono ad un metro da lui.
Prendo un lungo respiro.
Il mio indice preme il grilletto.
E la pallottola si schianta contro il cielo, maledizione! Levi si gira, stupito quanto me di vedere i soldati della sua squadra che arrivano in soccorso. Con i rinforzi, sono costretta ad allontanarmi nuovamente dalla mia vittima... no, no, no!
Jean è riuscito a salire sul carro e ora non sa cosa fare. Una soldatessa riesce a scattarmi davanti e a raggiungere il carro.
Vedo la sua pistola puntata contro Jean, Mikasa dietro di lei che si fionda con le spade pronte a colpirla. E quello che succede dopo è tutto un turbinio di confusione.
Pescando un barlume di ragione dal fondo della mia anima mutilata, riesco a sparare una pallottola contro la quasi assassina di Kirschtein, schiantandola al suolo. Non ho il tempo per lanciare l'urlo di rabbia che ho in gola, per maledire la parte di me forzatamente reclusa che sta ancora con Levi. Perché, prima di arrivare a lei, la pallottola ha quasi colpito anche Mikasa, che si è voltata di scatto. Non appena mi ha inquadrata, il primo, piccolo cenno di emozione che abbia mai visto da lei la fa partire dritta verso il mio cuore. Sta per uccidermi e non sarò mai abbastanza veloce da evitarla, per la seconda volta in un giorno. Lei è la soldatessa più forte del centoquattresimo Corpo Cadetti, forse anche più forte di me.
E poi accade il miracolo. Questa volta vengo colpita al fianco, con un taglio che mi fa bruciare le costole, ma quasi immediatamente vengo avvolta in un abbraccio che mi ricorda quello di Levi della mia infanzia: quando stavo per cadere dopo aver salvato Erwin, mi raccolse al volo per evitare che cadessi.
Il pensiero che Levi possa avermi salvata anche adesso, in confronto a quello che sta succedendo in realtà, è molto meno confusionario.
Davanti al mio viso, che mi trascina in volo tenendomi per mano, c'è un paio di occhi verdi come smeraldi. Shojiro è vivo.
Ed è un ribelle anche lui.
Tutte le domande che vorrei fargli vengono soffocate dalle parole che mi grida, mentre ci trasciniamo via dalla lotta, fuori dal cancello con gli altri nostri compagni: "Sumire, non adesso. Ti aiuterò io, ma ora vieni con me. Non sei nelle condizioni di combattere. Andiamo?"
Quella domanda mi fa credere di avere la possibilità di scegliere, ma non è così. Ha ragione: non ce la posso fare, soprattutto ora che la squadra antiuomo si sta ritirando con il bottino sperato. Annuisco.
Mentre lascio che Shojiro mi trascini via con sé, mi accorgo di aver brutalmente troncato con tutte le persone che mi sono state accanto negli ultimi anni. Ho voltato le spalle al mondo senza pormi troppe domande, affidandomi allo stesso istinto che mi guidò quando mi fidai di loro. Una delle ultime immagini che ricordo è quella della squadra di Levi, atterrata davanti al portone con la consapevolezza di aver perso. Non so se si sono già resi conto della mia mancanza, ma una persona certamente l'ha fatto. Anche a questa distanza riesco a vedere Levi, con gli occhi puntati verso di me. Non è arrabbiato: nel suo sguardo passa qualcosa di diverso. Dolore.
Mi chiamo Sumire Inochiki. Ho quindici anni. Sono nelle mura. Sono nel passato. Sono in un posto che si è trasformato in un inferno.
Ho scelto mio padre e Shojiro.
Ho abbandonato Erwin e Levi.
Spero solo di non aver sbagliato anche questa volta.
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