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37. Dalla tua parte

"Papà! E questa farfalla? Come si chiama? È stupenda!"
La luce mi accecava, ma io cercavo di sfidare il sole per osservare quella meraviglia. Eravamo nel piccolo giardino sul retro di casa nostra: in quell'afosa giornata estiva, io camminavo per il prato incuriosita dai mille colori, dagli odori, dalla vita che brulicava intorno a me. Papà era seduto al riparo dal sole, sotto la tettoia di legno, con gli ipnotici occhi che scintillavano e un grosso sorriso stampato in volto. Nonostante sembrasse rilassato mentre leggeva un romanzo di quelli che, per me, erano ancora incomprensibili, dalla sediolina di legno controllava ogni mio movimento, come se fosse pronto a scattare non appena si fosse abbattuta chissà quale sciagura su di me.
Mi guardò sorpreso: "Sai Sumire, non la conosco neanche io..."
Solo quella tranquilla rivelazione mi fece girare un secondo: papà che non conosceva qualcosa? Era la prima volta che accadeva una cosa del genere... lui aveva sempre risposte. Per tutto. "Ma allora deve essere una farfalla super rara se non la conosci neanche tu!" commentai entusiasta. Non osai avvicinarmi troppo al piccolo insetto dalle ali fragili come carta di riso, poiché temetti che sarebbe volato via dal dente di leone vicino al muretto, dove si era poggiato. Ma ne seguii ogni movimento, rannicchiata a poca distanza con uno sguardo concentrato al massimo: ai miei occhi ingenui, ancora liberi di stupirsi per una situazione di assoluta irrilevanza come quella, era il tesoro più prezioso al mondo, quasi un'apparizione. "Beh, papà non può sempre conoscere tutto, no?" Improvvisamente, posò il libro e mi raggiunse, il sole che si rifletteva nei suoi capelli neri e lucenti. Avevo un aspetto abbastanza particolare per i canoni del mio paese: se mio padre mi aveva passato il naso all'insù e gli occhi grandi, avevo preso la carnagione e il colore di capelli dalla mia mamma. Lei, arrivata direttamente dalla Germania per un viaggio di lavoro, non aveva impiegato tanto a perdersi nello sguardo profondo e nell'animo intellettuale di lui, un disoccupato dal cervello sconfinato. Non avevo mai conosciuto i miei parenti tedeschi, non sapevo nemmeno se esistessero, in realtà: credo che mi avrebbero portata da loro, se zia Yui non si fosse offerta per ottenere la mia custodia. Ma, sinceramente, per quanto mi piacesse viaggiare non avevo mai sentito il desiderio di conoscere la mia quasi seconda patria.
Mi prese sulle spalle e corremmo lungo tutto il giardino, mentre io ridevo contenta. "Forse quella è una farfalla magica, venuta solo per conoscere te" mi sussurrò lui, misterioso. Rimasi molto stupita da quella supposizione. "Conoscere me? Ma sono abbastanza importante per avere in premio questa farfalla?"
"Oh, Sumire. Tu sei molto importante. Più speciale di quanto non creda..." Il suo tono si fece rammaricato. Ma non badai a lungo a quelle sue parole, in quanto il rumore della porta che si apriva mi fece saltare giù dalle sue braccia e precipitare nell'ingresso. Lì, con un sorriso stanco, c'era la mamma ad attendermi. Era tornata dall'ennesimo viaggio di lavoro in un qualche posto sperduto nel mondo, ma finalmente era di nuovo con me!

"Mamma! Sei tornata, che bello!" Presi a saltellare tutta eccitata in giro, mentre lei salutò mio padre togliendosi i tacchetti.
Io, come sempre ormai, presi la grossa valigia blu e la spinsi fino al salotto, dove iniziai a selezionare con cura i tailleur da lavare e le forcine per capelli da rimettere a posto. Mi piaceva tanto riordinare la valigia della mamma, specialmente quando tornava da posti molto lontani: volavo con la fantasia nei luoghi che aveva visitato lei, chiedendomi quali strade avesse calpestato con le scarpe alte e in quale hotel fosse stata parcheggiata la sua spazzola preferita, quella che le regalai con l'aiuto di papà all'età di sei anni. Inoltre, il bagaglio emanava un sottile profumo di vaniglia, quello che mamma si spruzzava sempre. In qualche modo, perdermi tra quell'odore quando riordinavo mi faceva credere di recuperare il tempo che avevamo perso.

Ma, quella volta, ci fu una cosa che attirò la mia attenzione: nascosta con cura tra l'accappatoio e lo spazzolino, c'era una piccola scatolina azzurra con un bel nastro in cima. "Oh! Sapevo che avrei dovuto nasconderla vicino a me..." si lamentò la mamma, appena entrata in salotto con papà al seguito. Si accomodarono accanto a me, intorno al tavolino basso, e lei mi prese la scatolina dalle mani con il bel sorriso che da tanto aspettavo di vedere stampato in faccia. "Sumire," esordì "ti sei comportata bene durante la mia assenza?". Ecco, lo sapevo che mi avrebbe chiesto una cosa del genere. Conosceva benissimo il mio disagio verso quel tipo di domande: chi ero io, per giudicare il mio comportamento? Non avrebbe dovuto chiederlo a papà, a cui mi aveva affidata? Non me la sentivo di esprimere un parere su me stessa che con molta probabilità sarebbe stato sbagliato. Solitamente chiedevo al papà se ero una brava figlia: della sua opinione sì che mi fidavo. Furono questi i pensieri che le riferii, con sguardo confuso. "Ho capito..." si arrese lei. Forse sperava che, continuando a farmi quella domanda ogni volta che rincasava, le avrei dato finalmente una risposta concreta.

Poi, dopo una rapida occhiata con papà, mi porse di nuovo la scatola. Con mani tremanti, cercai di aprirla: indubbiamente era per me. Lì, appoggiata su un cuscinetto di velluto morbido, c'era una spilla mozzafiato: era totalmente diversa da quelle che avevo in una scatola di latta nella mia stanza, accanto al libro di Felicity. Quelle erano tutte raccolte dai mercatini, fatte di uno scadente alluminio che si ossidava subito. Il gioiello che mi stavo rigirando tra le dita in un silenzio stupefatto aveva un bordino di puro argento che riluceva, facendo risaltare ancora più la gemma che contornava. Ma, per quanto l'insieme fosse stupendo, ci fu una cosa a colpirmi in particolare...

"Mamma... te l'ha data la farfalla magica?"
"Cosa?" disse. Era evidente che non aveva la minima idea di cosa stessi parlando. Presa dall'euforia e dall'emozione, non riuscii a spiegarmi per bene, così fu papà a riassumere la situazione avvenuta poco fa. Lei, un po' più tranquilla, mi rispose: "No, nessuna farfalla magica. Volevo solo scusarmi con te se sono così tanto assente... capisci? Ho pensato di portarti un regalino, dato che il mese scorso ho perso il tuo compleanno."
La guardai con le lacrime agli occhi, estasiata. Avvolsi, per quello che le mie braccine mi consentivano all'epoca, la mamma e il papà in un abbraccio che non sarebbe mai bastato ad esprimere la mia gratitudine. "Ma mamma! Non dovevi portarmi un regalo... sai, il mio regalo sei tu! Avevo chiesto alla farfalla di riportarti a casa e finalmente il mio desiderio si è realizzato" confessai, con la voce soffocata dal tessuto ruvido della sua giacca.
Il pomeriggio passò tranquillamente e fu uno dei migliori della mia infanzia, da quel che ricordo: papà preparò il mio tè preferito, quello con le foglie di limone, e rimanemmo tutti e tre seduti in giardino a parlare e a raccontare storie.

Solo la mattina dopo mi tornò in mente la farfalla, mentre rimiravo la spilla che aveva la gemma dello stesso colore delle sue ali. Le inviai un muto ringraziamento prima di andare a scuola. La immaginavo lì, a volteggiare libera nel cielo, che passava da un capo all'altro del mondo a regalare gioia a chi, come me, la desiderava. Per molto, molto tempo, mi ritornò in mente ogni volta che toccavo la spilla.

Proprio come sto facendo ora. A dire il vero, è da un po' che non ricordo quell'episodio. Non so perché mi sia tornato in mente proprio adesso che sono appoggiata allo scadente cancelletto di legno del box di una stalla. Nascosta dalla penombra di questo vicolo agli occhi di tutto il resto del mondo, che proprio in questo momento sta iniziando a rendersi conto di ciò che accade e a darci la caccia. Ci siamo rifugiati qui mentre cercavamo di seguire il carro che ci ha rubato Eren e Historia, insieme ad un ipotetico parente di Levi e al mio papà. Papà, papà, papà... è questa la parola che è fissa dentro di me, come se fosse un sassolino lanciato nel mio cuore che fa riecheggiare un misto di nostalgia, dolore, rabbia e speranza per tutto il mio corpo. Ormai è ufficiale che io sia la figlia di un assassino. Un assassino che, per giunta, ora fa anche parte della squadra dei miei nemici giurati. Mi chiedo cosa ne penserebbero gli altri se sapessero della mia parentela con Duran Inochiki e al contempo, ogni volta che immagino di riferirlo alla mia squadra, le parole "mio padre" e "assassino" non coesistono bene nella stessa frase, suonano totalmente sbagliate. Il Duran che ricordo io non concepiva il male, in ogni sua forma. Il Duran che ricordo io era un padre amorevole, un uomo modello, una persona dalla così profonda intelligenza che non avrebbe mai osato entrare in una squadra di corrotti criminali. Il Duran che ricordo io non avrebbe mai ucciso due bambini di nove anni. Oppure sono io che lo vedevo come una divinità, con gli occhi da bambina che fungevano da filtro contro la vera natura di mio padre?

Fa così male pensarlo tra quella gente. Eppure non riesco a togliermi dalla mente il suo sorriso tranquillizzante, quello che mi ha rivolto nel bosco poco prima di partire con gli altri. E se fosse tutto un grosso equivoco? Potrebbe essere entrato nella squadra antiuomo per ricavare informazioni da dare al Corpo di Ricerca oppure per riuscire a trovarmi più in fretta... dallo scambio avuto con Ackerman, sembra che sia a conoscenza del fatto che io sia qui.
Ma il principale argomento di conversazione, tra i soldati che sono con me, non è certo un qualsiasi soldato della squadra rivale: parlano delle nostre sorti.

Siamo appostati in questo vicolo putrido del distretto di Stohess da quando la notizia della morte di Reebs si è sparsa a macchia d'olio in una buona parte del Wall Rose. Dalle fonti che siamo riusciti a ricavare (e cioè giornali di ogni tipo... uno scandalo del genere è troppo succoso per non guadagnarci sopra), sembra che Reebs sia stato scaricato nel bel mezzo di una delle principali strade di Trost, da una squadra di Gendarmi che non aspettava altro che una buona prova per incastrarci tutti, a mio parere. Tre sono stati i protagonisti dell'azione, distinti in mezzo alla grande folla: la moglie di Reebs, il capitano di una delle squadre di Gendarmeria e il comandante di divisione Erwin Smith. Ho fissato a lungo il ritratto di Erwin, così serio e impassibile, quasi crudele, davanti alla donna in lacrime che un tempo era la consorte di Reebs e al gendarme che ha accusato lui e tutto il Corpo di Ricerca di omicidio. Stando al resoconto giornalistico, Erwin è stato portato via: ora siamo tutti ricercati per un qualche interrogatorio fissato dalla gendarmeria che, oltre tutto, ha anche ordinato la cessazione immediata di ogni nostra attività. A nulla sono servite le contestazioni di Erwin, poiché secondo alcune "attente" analisi della ferita mortale sul corpo di Reebs e dei suoi due assistenti i colpi sono stati inflitti da "un coltello molto affilato, opera di gente addestrata". Sinceramente, l'unica cosa che vorrei ora è ritornare al castello, fare un giro con Mamoru e uscire da questa situazione contorta. Non mi importa di questo colpo di stato, nemmeno se serve per il bene superiore: se potessi tornare indietro e cancellare la notizia di mio padre dalla mente, lo farei senza esitare. A quest'ora, i dubbi che mi divorano l'anima non esisterebbero.
Un colpo di stato... Armin ha ragione. Noi non siamo più i buoni. Siamo solo un gruppo di ragazzini ribelli che cercano di imporre il loro pensiero su una popolazione allo sbaraglio. Per la prima volta, mi chiedo se veramente sono io quella dalla parte giusta. E se mio padre avesse ragione, come sempre da quando ero piccola? E se fidarmi di Erwin fosse stato un errore madornale? Tutta questa gente che ho intorno, Levi che osserva le mosse di coloro che ora inizio a vedere sotto una nuova luce... faccio bene a stare con loro? E Shojiro, quel ragazzo che non vedo da tanto, troppo tempo, quello che mi ha consolata davanti alla tomba di Petra, dove si è cacciato? Da che parte starebbe? Tutti quelli che sono morti... era giusto che andasse così? Certo che sono proprio stupida: sono pronta a mettere in discussione tutta la mia vita non appena arriva qualcuno di importante. Mi odio per questo.

Trattengo a stento l'impulso di vomitare la razione da campo che ho ingollato poco fa, chiudendo gli occhi. Questi anni potrebbero essere stati una menzogna. Una vuota adolescenza che ho sprecato per compiacere quelli che potrebbero essere dei veri e propri criminali, dei ribelli. E la cosa mi fa dare di matto.
Così, per evitare di estrarre le mie lame e sgozzare tutti i miei compagni in preda ad una crisi, mi costringo a concentrarmi sulle loro parole.
"Forse potremmo scappare da quella strada", dice Jean, lasciandosi ricadere pesantemente contro il muro. "Ero certo che sarei morto divorato da un gigante... e invece sarò odiato dalla gente e finirò impiccato."
"Non è ancora detto," inizia Armin, "Il comandante non lascerà che l'Armata venga sciolta così. Se solo riuscissimo a catturare Lord Reiss... ci dovranno per forza essere dei documenti contenenti informazioni sulla costruzione delle mura e sulla tecnologia usata per farlo! Dobbiamo trovare il modo di far indurire la pelle da gigante di Eren... solo così potremo richiudere il Wall Maria e tornare ad essere quelli di sempre!"
Porta avanti il suo discorso con enfasi, cosa che è molto rara dato che la maggior parte delle volte è semplicemente un silenzioso ragazzo timido. Ma le sue parole non sembrano convincere Jean: "Se si presentasse la circostanza, non credo che sarei in grado di uccidere qualcuno, mi dispiace... anche se si trattasse di riottenere la mia vecchia vita". La sua affermazione, proclamata a testa bassa, ha subito trovato l'assenso di Connie e Sasha. "Da che parte stai, Jean? Non potete vacillare in un momento come questo", osserva Armin: forse per il loro attaccamento ad Eren, lui e Mikasa si dichiarano pronti ad obbedire agli ordini, qualsiasi essi siano.
Queste affermazioni, così diverse tra loro, fanno nascere un nuovo conflitto nella mia mente. Buoni. Cattivi. Buoni. Cattivi. Non ce la faccio più ad ascoltarli. Frammenti di visioni mi sottraggono alla realtà, rendendomi sempre più confusa, sempre più stanca, sempre più instabile.

Per evitare di far male a qualcuno, decido di volare più in fretta possibile a qualche isolato di distanza dal gruppo, dove so che Levi e la squadra di Hanje stanno pedinando il carro in cui i gendarmi stanno trasportando Eren e Historia. Non sento se gli altri mi dicono qualcosa.

Quello che succede dopo è tutto troppo confuso. Ma in qualche modo riesco a realizzare lo stesso. Mentre sono in piedi nel vicolo in cui sono appena arrivata, a cercare di calmarmi e di convincermi che sto lottando dalla parte giusta, un sassolino cade accanto a me dal tetto che mi sovrasta. Ho il tempo di guardarlo, ancora in stato confusionale, e di trovarci un pezzo di pergamena avvolto attorno. Riesco a malapena a leggere quello che vi è stato scritto, prima che il corpo di Nifa, con il volto mutilato da un proiettile, mi cada di fronte, tingendomi i pantaloni con degli schizzi scarlatti. Sfioro la pozza di sangue che sta fiorendo ai miei piedi, paragonandola istintivamente a quella in cui erano immersi i piedi di Sanes, e mi porto la mano al petto. Il tenue bagliore che la spilla ha ricominciato a mandare, accompagnato dal ronzio che si accresce sempre più, viene offuscato dal sangue che vi è schizzato sopra. In quel momento, una serie di spari raggiunge le mie orecchie.
Levi sfreccia sopra di me.
Ackerman lo insegue.

Istintivamente, spicco il volo anche io. Da che parte stai, Jean? Non potete vacillare in un momento come questo. Sento la voce di Armin nella mia testa tra i ronzii che mi ripete la domanda a cui non so trovare risposta. Ha ragione lui: non posso vacillare. Tra poco dovrò scegliere da che parte stare. Il biglietto che ho abbandonato nel vicolo è solo una conferma.

Vieni da me. Presto arriverà il momento.

Sasageyo,
Arienty

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