Capitolo 27
Margot's pov
Quel giorno, il cielo era nuvoloso, ma era pur sempre domenica, nonostante il freddo e le nuvole che minacciavano pioggia.
Mi rivedo sul prato del parco di Bibury, mentre gioco con Edward. A giudicare dal taglio di capelli di mio fratello, abbiamo tre o quattro anni.
Gli alberi sono spogli e le foglie secche rivestono quasi per intero la superficie del prato. Sono le uniche testimoni di una bellezza perduta.
"Margot, lanciami la palla!"-mi urla Edward, dalla parte opposta del prato.
Mamma e papà sono seduti a qualche metro di distanza da noi, sul prato. Intorno a loro, tre alberi sono disposti a formare un triangolo.
"Margot, ti ho detto di lanciarmi la palla!"-ribadisce Edward, sbracciandosi. Sto per fare come dice, quando qualcosa richiama la mia attenzione. La palla che stringo tra le mani è fatta di stoffa azzurra, ma quello che non riesco a smettere di guardare è il piccolo ricamo bianco che si trova sulla sua superficie. Sembra un otto, simile a quello che ho intravisto nel mio disegno, sulla maglietta di quel bambino che dopo pochi secondi è scomparso davanti ai miei occhi.
Più guardo il numero disegnato sulla stoffa, più vengo invasa dalla fastidiosa sensazione di aver dimenticato qualcosa.
Mi sveglio di soprassalto, tutta sudata.
Guardo l'orario sulla sveglia: le 6 in punto.
La casa è silenziosa e fuori è ancora buio.
Mi guardo intorno, confusa. Per anni, il sogno non è mai cambiato. Ogni notte, facevo a pezzi il mio orsetto di peluche, senza capirne il motivo. Invece, da qualche settimana i sogni si sono modificati, però in tutti c'è una costante: quel numero otto.
Sposto le coperte e mi alzo dal letto. Ho bisogno di prendere un po' d'aria.
Indosso un pantalone e un maglione a caso, prendo distrattamente un piumino dall'armadio e mi dirigo al piano di sotto. Mi infilo le scarpe ed esco di casa, richiudendo silenziosamente la porta alle mie spalle.
Per strada non c'è un'anima, ma lentamente si sta facendo giorno.
Cammino a passo svelto, stringendomi nella giacca. Fa molto freddo, ma non mi importa.
Forse camminando riuscirò a capirci qualcosa. Devo capire cosa significa quel numero otto.
Non faccio in tempo a svoltare l'angolo, che una voce richiama la mia attenzione-"Margot, dove stai andando alle 6 del mattino?"-mi urla Edward, dall'uscio di casa.
È ancora in pigiama e i capelli ramati sono arruffati.
"Faccio due passi"-ribatto, mettendo le mani in tasca.
"Ma che ti salta in mente? Non c'è nessuno per strada, è pericoloso...ma poi qui fuori ci saranno tre gradi"-osserva, stringendosi le braccia attorno al corpo per proteggersi dal freddo.
"Dai, non fare stupidaggini e vieni dentro"-conclude, indicandomi la porta di casa.
Guardo la strada davanti a me: so che non mi permetterebbe mai di camminare da sola, a quest'ora e con questo freddo, quindi decido di tornare indietro.
Lo raggiungo a casa e lui richiude la porta dietro di noi.
"Mi spieghi che cavolo ti prende?"-mi sgrida, squadrandomi dalla testa ai piedi.
"Potrei farti la stessa domanda...ero solo uscita a fare due passi"-ribatto, togliendomi il piumino.
"Due passi alle 6 del mattino, da sola e con tre gradi?"-domanda, perplesso.
"Ne avevo bisogno"-mormoro, legandomi i capelli in uno chignon. Nella fretta di uscire, non mi sono nemmeno pettinata.
Lo sguardo di Edward cambia immediatamente-"hai sognato di nuovo?"-chiede, più calmo.
"Sì, ma ultimamente faccio sogni diversi dal solito"-sospiro, sedendomi sul divano.
Mio fratello mi segue, sedendosi accanto a me.
"Ricordi quando mamma e papà ci portavano a Bibury e noi giocavamo con la palla sul prato?"-chiedo, incrociando le gambe.
"Certo"-risponde, cercando di capire dove voglio arrivare.
"Ricordi la palla che usavamo?"-chiedo ancora.
"Era... azzurra?"-domanda, corrugando la fronte.
"Sì, ma sopra c'era un otto"-ribatto, aspettando una sua reazione.
"Un otto?"-domanda, perplesso.
"Nei miei sogni continuo a vedere questo numero otto, ma non capisco a cosa sia riferito"-rispondo.
Edward guarda un punto indefinito diritto davanti a sé, confuso.
"Non ricordo nessun otto, ma possiamo sempre vedere sulle foto"-osserva, illuminandosi.
Come ho fatto a non pensarci prima?
"Abbiamo delle foto di quei giorni"-esclamo, forse un po' troppo ad alta voce.
"Così sveglierai mamma e papà"-sussurra, facendomi cenno di calmarmi.
"Dove sono queste foto?"-domando.
"Probabilmente insieme alle altre nello studio di papà"-afferma mio fratello, alzandosi dal divano.
Mi alzo anche io, lo supero e mi dirigo a passo svelto al piano di sopra.
Se esistono delle foto di quei giorni, devo vederle adesso.
Devo dimostrare a me stessa che non sono impazzita e che c'è una spiegazione razionale ai miei sogni.
Spalanco la porta dello studio di papà, provocando un cigolio che fa sobbalzare Edward.
"Margot, quale parte di 'così sveglierai mamma e papà' non ti è chiara?"-mi rimprovera sottovoce, lanciandomi un'occhiataccia.
Non rispondo, entrando in punta di piedi nello studio. Mi dirigo verso la libreria, ricordandomi che gli album con le foto sono riposti in una fila ordinata su uno degli scaffali più alti.
Edward mi precede, consapevole che avrei avuto bisogno del suo aiuto per recuperarli.
"Quando andavamo a Bibury quanti anni avevamo?"-domanda, guardando le date scritte nella grafia ordinata di mia madre sulla costa di ogni album.
"Al massimo tre"-rispondo, spostando il peso da una gamba all'altra.
"Quindi dovrebbe essere questo"-dice, afferrando uno dei primi album della fila, sulla sinistra.
È piuttosto pesante e sulla copertina rossa c'è scritto "2009-2010". Le stesse date sono riportate anche sulla costa, più piccole.
Edward lo depone sulla scrivania di papà e io inizio immediatamente a sfogliarlo. Le foto scorrono veloci sotto i nostri occhi, disposte in gruppi di tre per pagina, ma quello che entrambi notiamo immediatamente è che in ogni pagina c'è almeno uno spazio vuoto.
"Perché mancano delle foto?"-domanda Edward, indicando una pagina in cui c'è solo una foto, in cui io ed Edward spegniamo le candeline in occasione del nostro terzo compleanno.
Delle altre due però non c'è traccia.
"Non ne ho idea"-mormoro sovrappensiero.
In effetti, è piuttosto strano.
"Mamma è perfezionista, non avrebbe mai disposto le foto in questo modo"-osserva Edward, perplesso.
Continuo a sfogliare le pagine dell'album, finché non arriviamo alle foto in cui io ed Edward siamo a Bibury.
"Guarda, qui si vede la nostra palla azzurra"-mi interrompe mio fratello, indicandomi la foto al centro della pagina sulla mia destra.
In effetti, è proprio la palla che è comparsa nel mio sogno, stanotte. Solo che nella foto è talmente piccola che è praticamente impossibile vedere l'eventuale presenza del numero otto.
Sfoglio ancora le pagine, alla ricerca di una foto in cui la palla si veda un po' meglio.
Dopo un po', finalmente la trovo.
Nella foto ci siamo io ed Edward: io lo abbraccio felice e lui ha tra le mani la palla di stoffa azzurra.
Il numero otto è quasi impercettibile, ma c'è.
"Lo vedi?"-domando, indicandoglielo sulla foto.
Edward si avvicina lentamente all'immagine-"effettivamente sembra un otto"-ribatte, confuso.
"Non sono pazza"-sospiro, chiudendo gli occhi.
"Pazza no, strana sì"-mormora mio fratello, abbracciandomi.
Poggio la testa sul suo petto e per un attimo sembra che tutte le mie paranoie siano scomparse.
La porta dello studio cigola di nuovo, lasciando entrare mamma.
"Non vedevo queste manifestazioni di affetto da almeno 2 anni"-dice, sorridendo.
Il suo sguardo si rabbuia immediatamente non appena nota l'album di fotografie aperto sulla scrivania di papà.
"Che state facendo?"-domanda, freddamente.
"Ci stavamo chiedendo come mai mancassero delle foto"-risponde Edward, distaccandosi da me.
Mamma abbassa lo sguardo sulle pagine mezze vuote dell'album, con un'espressione indecifrabile.
"Probabilmente erano venute male"-borbotta, richiudendo rapidamente l'album.
Io ed Edward ci guardiamo perplessi. Non l'abbiamo mai vista così in panico.
"Non dovete andare a scuola?"-chiede, prendendo l'album e dirigendosi verso la libreria.
Dopo averlo posato al suo posto sull'ultimo scaffale, si volta verso di noi.
"Edward, vai a fare colazione. Margot, tu rimani qui perché dobbiamo parlare"-afferma, seria.
Edward si dirige lentamente verso la porta, mentre io rimango al mio posto, appoggiata alla scrivania.
Ci guardiamo in silenzio per alcuni secondi.
"Quello che è successo ieri non dovrà succedere mai più"-afferma, guardandomi con aria di rimprovero.
"Cosa è successo ieri?"-domando impertinente.
So benissimo a cosa si riferisce, ma non ho intenzione di ammettere un errore che non ho commesso.
"Io e tuo padre ti avevamo specificato l'importanza della cena di ieri e tu hai fatto di tutto per mettere in ridicolo il signor Thompson, dandogli addirittura del maschilista"-dice, arrabbiata.
"Io non ho messo in ridicolo nessuno, è un dato di fatto che sia maschilista"-ribatto, incrociando le braccia al petto.
"Qualunque cosa sia, non spetta a te dirglielo"-borbotta, con sguardo truce.
"Qualcuno doveva pur dirlo"-osservo, facendola andare su tutte le furie.
"Non tu, soprattutto sapendo che fare buona impressione sul signor Thompson era importante per tuo padre"-risponde lei, secca.
Rimango in silenzio, a braccia conserte.
"Su, ora vai a prepararti"-mi esorta, uscendo a grandi passi dallo studio.
Continuo a ripensare alle pagine mezze vuote dell'album di fotografie e non riesco a togliermi dalla testa l'idea che qualcuno le abbia tolte con l'intenzione di cancellare dei ricordi.
C'è qualcosa che mi sfugge, ma quel qualcosa va recuperato. Mi appartiene e non lo lascerò andare.
Jonathan's pov
"Quella ragazza dev'essere proprio un osso duro, poveri genitori"-borbotta papà, mangiando un muffin.
Siamo seduti tutti e cinque in soggiorno. Per colazione, la governante, Maggie, ha preparato i muffin al cioccolato.
"Dai Alex, anche tu sei stato giovane"-osserva mamma, dirigendosi verso il soggiorno. Oggi è di fretta perché ha un incontro importante con la moglie di un socio di papà...stanno organizzando il viaggio a Parigi, che è tra tre sole settimane.
"Sì, ma a me hanno insegnato a rispettare gli adulti"-esclama papà, addentando un muffin.
Stanno parlando di Margot. Quando non è nei miei pensieri, è in qualche conversazione o proprio davanti a me.
Sam guarda confusa mio padre. Probabilmente si starà chiedendo cosa sia successo ieri sera.
"Margot non è cattiva, semplicemente non riesce a non dire quello che pensa"-mormora Jane, per poi sussurrare qualcosa all'orecchio di Sam.
"Ci sono i modi e i toni per dire quello che si pensa...quella ragazza non mi piace"-sentenzia papà, pulendosi le labbra con un tovagliolo.
"Non avevamo dubbi"-borbotto tra me e me.
Papà mi guarda di sbieco-"hai qualcosa da ridire?"-mi chiede, sbuffando.
"Come potrei mai contraddirti"-dico con un velo di ironia.
Mio padre mi osserva per una manciata di secondi, in silenzio. Il suo è uno sguardo allenato a trovare l'errore, il difetto di fabbrica che ha eluso ogni controllo, ma che non sfuggirà mai al suo occhio attento.
So che, in questo preciso istante, sta cercando la crepa in una superficie altrimenti perfetta. Sta cercando l'indecisione che un buon imprenditore non dovrebbe mai mostrare. Cerca di cogliere ogni mia piccola debolezza, ogni minimo tentennamento. Lui mi conosce da quando sono nato e so che non posso sottrarmi al suo controllo, ma so anche che lui non può arrivare dappertutto. Se io non glielo consento, non può arrivare ai miei pensieri.
"Stai lontano da quella ragazza"-sentenzia alla fine, versandosi un po' d'acqua nel bicchiere.
"Niente di più semplice, è inavvicinabile"-ribatto, sorridendo. Sam mi guarda di sottecchi, ma ancora una volta non riesco a decifrare il suo sguardo.
"Questo è un bene: non devi lasciarti distrarre da niente e da nessuno, almeno finchè non avrai preso possesso dell'azienda"-afferma, alzandosi e dirigendosi verso il piano di sopra.
"Da niente e da nessuno"-ripeto tra me e me, scimmiottando la sua voce.
Jane e Sam cercano di soffocare una risata.
"Se ti sentisse potresti essere nei guai"-mormora Sam, divertita.
"Che mi senta o no, io non sarò la sua marionetta"-ribatto, giocherellando con i lacci della felpa.
Sam continua a guardarmi, ma nei suoi occhi adesso leggo un misto di nostalgia e tristezza.
"Dopodomani parto"-sentenzia, appoggiando la testa sulla spalla di Jane.
"Puoi sempre tornare"-sussurra mia sorella, abbracciandola.
"Certo che posso, ma mi mancherà sempre qualcosa"-ribatte, guardandomi.
All'improvviso, realizzo tutto. In un attimo, tutti i suoi sguardi acquisiscono un significato molto preciso.
Come ho fatto a non capirlo prima? Come ho potuto essere così cieco?
"Qualche volta possiamo venire noi da te, ci vedremo più spesso"-dice Jane, cercando di rassicurarla.
Io continuo a guardare i suoi occhi, sbalordito da ciò che ho appena capito.
Se Sam provasse davvero qualcosa per me, mi spezzerebbe il cuore dirle che non provo lo stesso.
Lei abbassa lo sguardo, arrossendo. Improvvisamente realizzo che devo uscire di qui.
"Inizio a prendere le chiavi del motorino...Jane, muoviti"-dico, alzandomi.
"Arrivo"-risponde mia sorella, distaccandosi lentamente da Sam.
Mi allontano rapidamente dal soggiorno, ancora sbalordito. Afferro le chiavi del motorino in salotto, per poi indossare il mio piumino nero.
Sam mi raggiunge. Anche in pigiama riesce ad essere incredibilmente bella .
Se la vedesse il me del passato, impazzirebbe per lei. Invece adesso la guardo e non vedo altro che la piccola Sam di tanti anni fa, con gli occhiali e le guance paffute. Non riesco a vederla in nessun altro modo, anche se so che per lei non è lo stesso.
"Buona giornata, tornate presto che mi annoio a stare qui da sola"-dice, facendomi l'occhiolino.
Sto per rispondere, quando Jane ci raggiunge, vestita di tutto punto, con lo zaino rosa in spalla.
"Anche noi ci annoiamo a scuola"-dice frettolosamente, schioccandole un bacio sulla guancia.
"A dopo"-ci saluta, guardandoci uscire.
Ricambiamo il suo saluto, per poi chiudere la porta alle nostre spalle.
Vorrei cancellare il suo sguardo dalla testa, ma non ci riesco. È davvero assurdo che io non mi sia accorto prima dei suoi sentimenti.
"Quella ragazza è cotta di te"-sussurra Jane, salendo sul motorino. È così lampante che se ne è accorta anche lei?
La guardo dallo specchietto-"chi, Sam?"-chiedo distrattamente.
"Ma è ovvio"-ribatte, sorridendo.
Rimango in silenzio, mentre ruoto la chiave e accendo il motore.
"Ma tu hai la testa da un'altra parte"-conclude, alzando un sopracciglio.
Le lancio un'occhiataccia, per poi mettere in moto e partire.
"Con Sam avresti avuto vita più facile"-continua, fregandosene del mio tacito rimprovero e stringendosi a me.
"Da quando ti ho assunta come consulente matrimoniale?"-chiedo, fermandomi al semaforo.
"Già pensi al matrimonio? Margot ti ha proprio rubato il cuore"-dice, stuzzicandomi.
"Non c'è niente tra me e Margot"-sentenzio, senza guardarla.
Jane rimane in silenzio per alcuni secondi. Mi guarda attraverso lo specchietto, sorridendo.
"Sei poco credibile"-dice, irritandomi.
"Puoi credere quello che vuoi"-concludo, zittendola. Non appena il semaforo torna verde, riparto a tutta velocità verso la scuola.
Quello che c'è tra me e Margot è solo nostro e non voglio che Jane ci metta il naso.
Parcheggio nel cortile della scuola, per poi slacciarmi il casco. Mia sorella fa lo stesso, salutandomi con la mano.
Ricambio il saluto, per poi dirigermi verso l'aula di storia.
Margot's pov
Sono nel corridoio del secondo piano ed è già la seconda volta che lo percorro, intenta a cercare l'aula 20 in cui si terrà la lezione di letteratura inglese. Non riesco a concentrarmi e puntualmente non mi accorgo di averla superata.
Continuo a pensare a quelle foto mancanti. Sono quasi sicura che mamma ci abbia mentito, ma non riesco a trovare nessuna motivazione razionale per la quale avrebbe dovuto.
I miei pensieri vengono interrotti bruscamente quando per sbaglio urto qualcuno.
"Scusami"-inizio, per poi rendermi conto di chi ho davanti.
Christine mi guarda dall'alto in basso, mentre si attorciglia una ciocca di capelli attorno all'indice della mano destra.
"Ma chi si vede"-inizia, rivolgendomi un sorriso falso.
"Non ho tempo da perdere"-borbotto, cercando di superarla.
"Anche qualche giorno fa, in palestra, eri di fretta"-dice, sarcastica.
"Non so a cosa ti riferisci e nemmeno mi interessa"-ribatto, aggiustandomi lo zaino sulle spalle.
"Mi riferisco alla partita di mercoledì...non so, magari non hai gradito il bacio tra me e Jonny"-insiste, guardandomi negli occhi.
"Della partita non mi interessa minimamente, figuriamoci delle tue conquiste"-rispondo, ormai sul punto di perdere la pazienza.
"È stato un bacio bellissimo, ti auguro con tutto il cuore di trovare qualcuno che riesca a baciarti come fa Jonny...anche se la vedo difficile, dato che prima di baciarti quel qualcuno dovrebbe quantomeno sopportarti"-dice, acida.
Sto per ribattere, quando mi torna in mente il bacio che io e Jonathan ci siamo dati a Bibury, in quel parco. Ricordo distintamente ogni dettaglio, come se fosse accaduto poco fa. Non importa quanta distanza io provi a mettere tra me e lui, alla fine c'è sempre qualcosa che mi riporta al momento in cui eravamo così vicini da dimenticare di poterci allontanare.
Sono quasi tentata dal raccontarlo a Christine, giusto per farla morire un po' di gelosia, ma alla fine ci rinuncio. È una cosa troppo intima, non può finire nelle mani di questa strega. Soprattutto, quel bacio non significa niente, è la pura dimostrazione del fatto che a Jonathan piaccia divertirsi. Il solo pensiero mi fa arrabbiare.
"A differenza tua, io non ho bisogno di nessuno"-ribatto, superandola senza guardarla.
"Tu hai solo bisogno di un bravo psichiatra"-dice, ridendo.
Mi giro lentamente verso di lei, indecisa su cosa fare. Alcuni ragazzi ci stanno guardando, in una muta attesa.
Vorrei dirle che ci sono stata, dallo psichiatra. Vorrei dirle che sono stata in una miriade di studi medici. Vorrei dirle che ho assunto farmaci che mi hanno fatto più male che bene, che ogni volta che ho un attacco di panico mi sento morire e che vorrei davvero guarire, ma lei non capirebbe.
"Che c'è, hai perso la lingua?"-domanda, facendo ridere alcuni ragazzi dietro di lei.
"L'unica cosa che ho perso è la voglia di parlare con te"-sentenzio, dirigendomi verso parte opposta del corridoio.
La lezione di letteratura può aspettare, adesso ho bisogno di fumare una sigaretta.
Christine sta dicendo qualcosa, ma non riesco a sentirla. La sua voce si confonde con quella degli altri, in un frastuono che mi spaventa.
Non mi piace questa sensazione. Negli anni ho imparato a riconoscerla immediatamente e a spostarmi dalla folla nel più breve tempo possibile.
Salgo le scale e in pochi secondi arrivo al terzo piano. La campanella suona e i ragazzi si dirigono velocemente nelle loro classi.
Approfitto del via vai generale per raggiungere indisturbata la piccola porta che dà sul tetto della scuola.
Prima di aprirla dovrei guardarmi intorno per accertarmi che nessuno mi abbia notata, ma sono così agitata che non mi importa più di nulla.
Inizio a contare per calmarmi: questa è l'unica cosa utile che ho appreso in uno delle mie innumerevoli sedute di psicoterapia. Avevo otto anni e i miei genitori mi avevano portata in uno studio in Cab Road. Ricordo ancora l'indirizzo perché era vicino al London Eye e i miei genitori mi avevano promesso che mi ci avrebbero portata subito dopo la seduta.
Ricordo perfettamente anche lo psicologo: era un uomo sulla sessantina, robusto e alto, con una barba bianca che mi ricordava quella dei maghi delle favole.
Ricordo di aver immaginato che fare lo psicologo fosse solo una copertura e che in realtà il suo vero lavoro fosse preparare pozioni magiche.
Affrontai quella prima seduta con molta positività, perché pensavo che quell'uomo che sembrava un mago mi avrebbe finalmente guarita, con una delle sue magie.
Purtroppo nemmeno lui è riuscito a cancellare la mia fobia, ma almeno mi ha insegnato a concentrarmi sui numeri nei momenti in cui tutto sembra sfuggirmi di mano.
Afferro la maniglia e apro la porta, per poi richiuderla alle mie spalle.
Mi stringo nella giacca mentre mi dirigo verso l'angolo più esterno del tetto, quello rivolto verso il Tamigi.
Dalla borsa estraggo la piccola pallina azzurra. La guardo cambiare colore sotto la pressione delle mie dita e ripenso al fatto che per tutto questo tempo l'ha avuta Jonathan. Mi piacerebbe sapere cosa ha pensato quando l'ha trovata.
Non ho mai incontrato una persona che volesse conoscermi così a fondo. Soprattutto, non ho mai conosciuto qualcuno che non fosse spaventato dalla mia fobia. Leggo in Jonathan una curiosità che mi spaventa, perché so di non poterla fermare. Una parte di me vuole che lui mi conosca e che abbatta tutti i muri che mi sono costruita intorno nel corso degli anni. Pensavo di averli resi indistruttibili, ma adesso mi accorgo delle crepe e degli spifferi. Una parte di me è terrorizzata e vorrebbe che le crepe fossero riparate e gli spifferi chiusi, ma sento che questo non basterebbe a ristabilire l'equilibrio.
So di non poter ignorare quella sensazione che sento quando sono con lui, e so che nemmeno lui può.
I miei pensieri vengono interrotti da un rumore che mi fa sobbalzare.
Qualcuno mi ha scoperta.
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