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Capitolo 25

2 giorni dopo
Jonathan's pov
"Ragazzi, venite un attimo in cucina"-sentiamo dire dal piano di sotto.
Io e Jane siamo nelle nostre camere e ci stiamo preparando per andare a scuola.
Tra qualche ora, io e i ragazzi della squadra affronteremo una partita importante...Sono così teso che stamattina mi sono svegliato mezz'ora prima della sveglia.
"Un attimo"-sento dire da Jane, che probabilmente è in ritardo.
In questi ultimi giorni, ho notato uno strano comportamento. Ha sempre la testa tra le nuvole,  a volte la trovo a fissare il vuoto con un sorriso da  ebete in volto. È così da lunedì sera.
Sono quasi sicuro del fatto che lo spettacolo allo Shakespeare's Globe Theatre fosse una copertura, ma purtroppo non ho prove per dimostrarlo e Jane non mi racconta nulla.
Continuo a ripensare alla sua mano intrecciata a quella di Alec, quella sera alla festa.
Jane mi sta nascondendo qualcosa.
Prendo una maglietta a caso dall'armadio, la infilo rapidamente e mi dirigo al piano di sotto.
Jane mi raggiunge, con una spazzola in mano.
I nostri genitori sono seduti al tavolo della cucina, intenti a sorseggiare i loro caffè.
È strano vederli così, tranquillamente seduti in cucina, ancora in pigiama. Sono tornati proprio ieri da Bruxelles, dove papà doveva incontrare alcuni soci.

"Stasera abbiamo un impegno importante"-inizia papà, guardandomi negli occhi.
Accanto a me, Jane si spazzola i capelli biondi.
Riconosco nella voce di mio padre un velo di preoccupazione. Io e Jane lo ascoltiamo, ma io so bene che quello che papà sta per dirci è rivolto soprattutto a me. Sono io quello che deve portare avanti la sua azienda.
"Il nuovo socio di vostro padre ci ha invitati tutti a cena, per discutere di alcuni affari"-continua mamma, poggiando lentamente la tazza sul tavolo.
Come immaginavo, si tratta di lavoro. Inevitabilmente, si tratta di me.
"È importante che veniate anche voi, soprattutto perché presto Jonathan diventerà parte dell'azienda"-afferma papà, giusto per mettere i puntini sulle i. Lo guardo di sbieco, senza riuscire a nascondere il mio disappunto.
"Non vi annoierete: i signori Smith hanno due figli della vostra età"-conclude mamma, guardando prima me e poi Jane.
Come se questo potesse in qualche modo migliorare la situazione.
Probabilmente si tratta di ragazzi viziati che non smetteranno un secondo di parlare dei college di lusso in cui studieranno economia, che ovviamente li hanno ammessi solo perché sono i figli del più importante imprenditore di Londra. Patetici.
"C'è qualcosa che non va, Jonathan?"-mi domanda mio padre, con un tono che non ammette ragioni.
"Niente che tu non sappia già"-ribatto, scocciato.
"So che non ti è mai piaciuto il mio lavoro, ma so anche che ti piace vivere questo tipo di vita"-risponde, indicando con un gesto della mano la casa.
Sposto il peso da una gamba all'altra, rimanendo in silenzio.
"Prendere le redini dell'azienda è l'unico modo per preservare la ricchezza che tuo padre ha costruito con tanta fatica e tanti sacrifici"-afferma mamma, guardando papà.
Accanto a me, Jane sta scrivendo un messaggio al cellulare. Sorride.
"Dobbiamo andare, altrimenti facciamo tardi"-borbotto, richiamando l'attenzione di Jane.
"Sì"-risponde, riponendo rapidamente il cellulare nella tasca posteriore del jeans.
Usciamo di casa e ci dirigiamo in silenzio verso la mia moto.
Questa giornata è iniziata male, speriamo almeno che finisca bene.

Margot's pov
Oggi mio fratello ha un'importante partita di basket, giù in palestra.
È così importante che mi ha chiesto di venire a vederla. Di solito, cerco di evitare le partite scolastiche. C'è sempre una gran confusione e io preferisco di gran lunga il silenzio tombale della biblioteca della scuola.
Nonostante tutto, oggi sono qui, seduta sugli spalti della palestra. Sono lontana dal campo, perché sedermi tra le prime file avrebbe significato avere un attacco di panico. C'è davvero troppa gente.
Distinguo tra la folla Christine e Kara. Sono sedute in seconda fila, insieme ad altre due ragazze che non conosco.
La partita di basket per loro è un evento mondano, un po' come i balli di corte per le dame dell'Ottocento. Solo che loro sono molto meno eleganti e molto più oche.
All'improvviso, una voce mi riscuote dai miei pensieri-"Eccoti! Ti ho cercata dappertutto"-esclama Jane, sedendosi vicino a me, seguita da Sam.
"Ciao Jane, ciao Sam"-rispondo, rivolgendo loro un sorriso.
"Perché ti sei messa qui dietro? Non si vede niente"-domanda Jane, strizzando gli occhi per mettere a fuoco il campo.
"Più giù c'è troppa gente, però se volete sedervi più vicino al campo, andate pure"-ribatto, indicando gli spalti più in basso.
Jane sembra pensare alla mia proposta per qualche secondo-"va bene, ma solo perché Sam non ha mai visto una partita e non vorrei si perdesse qualcosa"-risponde, facendo cenno a Sam di alzarsi.
"A dopo"-sussurro, guardandole allontanarsi.
Jane non vede l'ora di vedere Alec.
L'altro giorno mi ha raccontato che la serata è andata molto bene: Alec l'ha portata a Covent Garden e hanno chiacchierato. Mi ricordo di quando ogni domenica mamma e papà portavano me ed Edward a vedere gli spettacoli che alcuni artisti di strada facevano proprio lì, tra i vari negozi di fiori.
Purtroppo però non riesco a fare a meno di ricordare che, nonostante l'allegria che si respirava in quelle giornate primaverili, in cui lo sguardo si perdeva tra i colori vivaci dei fiori sparsi in tutto il mercato, io non stavo mai bene.
In un modo o nell'altro, ero quasi sempre costretta ad allontanarmi dalla folla, perché vedere tutte quelle mani che applaudivano mi faceva girare la testa.
Ero sempre lontana dalla vita, in un posto appartato in cui riuscivo a calmarmi.
Quante cose belle mi sono persa, a causa della mia fobia. Un po' come adesso: vedrò la partita, ma non riuscirò a distinguere le espressioni di mio fratello o le imprecazioni borbottate sottovoce ai compagni di squadra.
Vedrò solo l'insieme, ma perderò ogni dettaglio.
I dettagli però sono importanti, perché aiutano a capire l'insieme e le dinamiche che lo reggono.
Il fischio dell'allenatore interrompe i miei pensieri.
Uno alla volta, i ragazzi della squadra entrano in campo. Riesco a distinguere Edward, seguito da Jonathan e Alec. Tutti e tre rimangono in campo, inisieme ad altri due ragazzi che non ho mai visto, mentre i restanti cinque si siedono in panchina.
Subito dopo di loro, fanno la loro entrata i ragazzi della squadra avversaria.
Sono tutti alti e muscolosi, non c'è nemmeno un ragazzo sotto il metro e ottanta.
Sarà una partita complicata.
I due gruppi da cinque si dispongono nelle due metà del campo, mentre l'arbitro si dirige verso il centro, con la palla tra le mani.
Edward lo raggiunge e un ragazzo della squadra avversaria fa lo stesso.
Nell'aria si respira una certa tensione. Edward è leggermente più alto dell'altro ragazzo, che suppongo essere il capitano della squadra avversaria.
L'allenatore fischia tre volte. Al terzo fischio, l'arbitro lancia in aria la palla e tutta la palestra rimane con il fiato sospeso. Chi riesce a lanciare la palla verso i propri compagni ha le redini del gioco.
Edward e l'altro ragazzo saltano, a pochi centimetri di distanza, ma il ragazzo dell'altra squadra, pur essendo più robusto di Edward, è meno alto.
La palla passa quindi rapidamente nelle mani di mio fratello, che la lancia verso Alec.
Dalle prime file si alza un coro di voci esultanti.
Seguo con lo sguardo i passaggi, finché la palla non arriva tra le mani di Jonathan.
"Vai Jonny!"-grida Christine, sbracciandosi.
Jonathan corre per il campo, mentre due ragazzi della squadra avversaria cercano di placcarlo.
Lui però non si ferma.
Arriva davanti al canestro e, in un attimo, lancia la palla in modo da farla cadere perfettamente al centro della rete. Tutta la prima fila esplode in un tripudio di applausi.
Christine si alza in piedi-"quello è il mio Jonny!"-urla, mandandogli un bacio.
Anche Jane e Sam esultano, battendo le mani.
Jonathan accoglie i festeggiamenti senza battere ciglio. Ritorna nuovamente nella sua metà del campo, battendo distrattamente il cinque a Edward.
Mio fratello non mi aveva detto che fosse così bravo.
La partita prosegue, le due squadre si affrontano un punto dopo l'altro, senza che però nessuna delle due riesca a prevalere sull'altra.
Dopo mezz'ora e varie sostituzioni, l'arbitro fischia per l'ultima volta. Le due squadre sono in pareggio e questi ultimi minuti sono decisivi.
Improvvisamente, Edward si porta una mano al petto, chinando leggermente la schiena in avanti. Preoccupata, mi sporgo per vedere meglio. L'allenatore gli va subito vicino, accompagnandolo fuori dal campo. Edward si lascia cadere sulla panchina, stremato, ma pian piano sembra riprendere fiato.
Viene immediatamente sostituito da uno dei cinque ragazzi che inizialmente erano rimasti fuori dal campo, come riserve.
Senza Edward, la squadra può contare solo su Jonathan.
Lo guardo mentre si dirige al centro del campo, insieme al capitano della squadra avversaria.
L'arbitro fischia, lancia la palla e Jonathan la afferra con un movimento rapido.
La tensione si può tagliare con il coltello.
I ragazzi perdono la palla varie volte. Sono stanchi e corrono quasi per inerzia.
Quando uno dei ragazzi della squadra avversaria lancia la palla verso il canestro della nostra squadra, tutti si alzano, in preda al terrore.
La sconfitta sembra inevitabile, finché Alec non interrompe la traiettoria della palla con un salto.
Ha fatto un salvataggio quasi suicida, infatti non appena poggia i piedi a terra perde l'equilibrio e cade, passando la palla a Jonathan, che senza pensarci due volte sfreccia verso il canestro avversario.
Ormai ho perso il conto delle volte in cui Christine ha urlato la parola "Jonny".
Lei e Kara si tengono per mano, come a volersi sostenere a vicenda, leggermente chinate in avanti per non perdersi niente.
Jonathan schiva i ragazzi della squadra avversaria con movimenti fluidi e rapidi, fino a quando non arriva proprio sotto il canestro. Lo guardo prendere la mira e poi lanciare la palla.
Questa volta, colpisce il bordo del canestro.
La palla fa numerosi giri su se stessa, prima di entrare definitivamente nel canestro.
Jonathan esulta e abbraccia Alec. In tutta la palestra si diffondono grida di gioia, perché la squadra della nostra scuola ha definitivamente battuto quella avversaria. Decine di persone si alzano, ma io rimango ferma al mio posto, cercando di non crollare.
Christine sembra fuori di sé. Urla e si sbraccia in direzione del campo, finché la sua felicità diventa così incontenibile da farle abbandonare il suo posto. La guardo farsi largo tra la folla, fino a raggiungere il campo.
Corre verso Jonathan, urlando qualcosa che non riesco a comprendere. Lui è di spalle, ma sentendo la sua voce stridula si volta verso di lei.
All'improvviso, succede una cosa completamente inaspettata.
Christine allaccia le sue braccia al collo di Jonathan, si alza sulle punte dei piedi e lo bacia sulle labbra, con trasporto.
Quasi non credo ai miei occhi.
La folla accoglie con un applauso il loro bacio e Jonathan, dopo un momento di sorpresa, si lascia andare, afferrando i fianchi di Christine fino a sollevarla da terra.
I capelli corvini di lei nascondono in parte il bacio, che prosegue indisturbato nonostante il caos e gli applausi della gente.
Improvvisamente, la stanza sembra girare su se stessa. Le voci si confondono, diventando un mormorio fastidioso nella mia testa. Non posso più stare qui. Devo andarmene prima che sia troppo tardi.
Mi alzo di scatto, recupero distrattamente la borsa e mi avvio verso l'uscita della palestra.
Non posso credere che lo abbia fatto davvero.
Questa è la dimostrazione di quanto io sia stata stupida a pensare che Jonathan volesse me.
Sono stata stupida a raccontargli cose così intime e adesso provo un fastidio incontenibile al pensiero di averlo baciato.
Per lui ogni bacio è uguale. Potrebbe baciare me, come Christine e tante altre ragazze.
Per lui, il nostro bacio non ha niente di diverso rispetto a qualunque altro bacio e io sono solo una delle tante, stupide ragazze che gli ha consentito di varcare il limite del proprio spazio vitale.
Una lacrima sfugge involontariamente al mio controllo. La asciugo velocemente, dirigendomi a testa bassa verso il cortile della scuola.
Cerco di concentrarmi sui passi, contandoli a bassa voce.
Non appena apro la porta, un vento freddo mi taglia come una lama la pelle.
Respiro a pieni polmoni l'aria gelida, stringendomi nel cappotto.
Metto una mano nella borsa alla ricerca del pacchetto di sigarette. Da quando ho perso la mia pallina azzurra, sono il mio unico appiglio.
Non riesco a togliermi dalla testa l'immagine di Jonathan e Christine avvinghiati al centro del campo.
Estraggo una sigaretta e l'accendino dal pacchetto, con le mani che tremano l'accendo e aspiro disperata tutto il fumo che i miei polmoni riescono a contenere, sperando che possa dissolvere tutto il dolore che in questo momento provo.
Quello che è successo non deve accadere mai più. Non lascerò che lui distrugga tutte le mie certezze. Non lo lascerò entrare nel mio piccolo universo ordinato.
Lui è caos. Lui non mi appartiene.

Qualche ora dopo
Jonathan's pov
Siamo in procinto di uscire per andare alla famosa cena. Io e mia sorella siamo stati costretti a vestirci eleganti: io indosso una camicia azzurra e dei jeans bianchi, mentre Jane un vestito blu scuro che le arriva alle caviglie.
Sam è uscita con una ragazza che ha conosciuto stamattina alla partita. Tra qualche giorno ripartirà per New York e quasi mi dispiace sapere che tra poco sarà a chilometri di distanza da qui, a vivere una vita in cui io e Jane non ci siamo. Alla fine, è stata parte della mia infanzia nella mia Los Angeles e mi piaceva sapere di avere qui con me qualcosa della mia vecchia vita.

Sto sistemando i capelli davanti allo specchio del bagno, quando Jane si interpone tra me e la mia immagine riflessa.
"Non sapevo di essere invisibile"-sbotto, spostandomi per lasciarle lo spazio.
La osservo mentre applica sulle labbra un rossetto rosa. Dopo aver sfregato le labbra per farlo distribuire in modo omogeneo su tutta la superficie, si volta a guardarmi.
"Muoviti"-mi esorta, dopo avermi squadrato dalla testa ai piedi, pronta a notare qualsiasi piccola imperfezione nella camicia o nel pantalone scelto.
"Jane, è la sesta volta che ripeti questa parola"-le rispondo, sbuffando e avviandomi di malavoglia al piano di sotto.
"Non è colpa mia se sei di una lentezza disumana"-ribatte, superandomi. Lascia dietro di sé una scia di profumo che riconosco subito. È il mio.
Conto sottovoce fino a dieci, scendendo le scale.
"Devi smetterla di usare il mio profumo"-borbotto, allacciandomi le scarpe all'ingresso di casa.
"Perché? È così buono"-ribatte, infastidendomi ancora di più. Apre velocemente la porta d'ingresso, facendo entrare un vento freddo che mi fa rabbrividire.
"Perché è il mio e tu hai il tuo"-ribatto, seguendola all'esterno. Richiudo la porta di casa, per poi avviarmi verso la macchina.
"Tanto tu non lo usi mai"-risponde, rivolgendomi un sorriso irritante.
"Lo uso ogni giorno, Jane"-borbotto, roteando gli occhi al cielo.
Mia sorella apre la portiera e sale in macchina, io faccio lo stesso.

"Smettetela"-ci rimprovera mamma, allacciandosi la cintura.
Prima di mettere in moto, mio padre si volta verso di noi.
"Ragazzi, questa cena è molto importante...se qualcosa andasse storto, la nostra famiglia perderebbe molti soldi. Cercate di andare d'accordo"-ci implora, guardandoci fissi negli occhi.

Annuiamo contemporaneamente, rassicurandolo.
"Grazie ragazzi"-risponde, per poi voltarsi e mettere finalmente in moto.

15 minuti dopo
"Perché ci siamo fermati qui?"-domando, guardando la casa di Margot ed Edward fuori dal finestrino.
"Siamo arrivati"-risponde papà, mettendo il freno a mano e slacciandosi la cintura di sicurezza.
Sto per ribattere che siamo sicuramente nel posto sbagliato, quando mi viene in mente che il signor Smith potrebbe essere il padre di Margot e di Edward.
Il loro cognome è Smith, anche se di Smith a Londra ce ne saranno tantissimi.
Sinceramente, pensavo che la cena si tenesse in uno di quei ristoranti di lusso che non sanno nemmeno dell'esistenza della coca cola o delle patatine fritte, e che invece ti consigliano il caviale e lo champagne.
Meglio così...odio il caviale.
I miei genitori escono dalla macchina. Io mi dirigo verso il lato occupato da mia sorella, che vuole una mano ad uscire dall'auto perché come al solito ha indossato quel tipo di scarpe che io definirei "altamente pericolose", quelle che se metti male un piede per terra rischi di romperti una gamba.

Attraversiamo il giardino antecedente l'ingresso della casa, per poi bussare e attendere che qualcuno ci accolga.
La porta si apre quasi subito, mostrandoci una donna non molto alta, vestita di tutto punto e con un sorriso smagliante disegnato sul volto.
La prima cosa che salta agli occhi è il colore dei suoi capelli: sono di un rosso scuro alquanto familiare.
Rossi come quelli di Margot.
Più la guardo, più rivedo Margot in ogni suo tratto: stesse lentiggini, stessi capelli rossi, stessi occhi verdi.
"Benvenuti"-ci saluta, facendosi da parte e invitandoci ad entrare.
"Buonasera"-salutano i miei genitori, entrando in casa.
Io e Jane li seguiamo, guardandoci intorno.
"Edythe Smith, molto lieta"-dice la donna, porgendo la mano a mia madre e poi a mio padre.
"Marie Thompson, piacere mio"-risponde mia madre, sorridendole.
"Alexander Thompson...loro sono i nostri figli, Jonathan e Jane"-dice subito dopo mio padre, ricambiando il sorriso della donna e indicando prima me e poi mia sorella.
La donna ci sorride e mi rendo conto che anche il sorriso ricorda quello di Margot. Non può che essere sua madre.
"Mio marito arriverà tra qualche secondo, nel frattempo accomodatevi in salotto"-continua la donna dai capelli rossi, indicandoci il divano bianco a pochi metri da noi.

Ci sediamo tutti e quattro sul divano, un po' a disagio.
All'improvviso, vedo arrivare Edward.
Non appena riconosce me e Jane, un velo di sorpresa gli occupa per un attimo lo sguardo.
"Jonathan e Jane?"-domanda, venendoci incontro.

"Vi conoscete?"-chiede mia madre, guardando Edward dalla testa ai piedi.
"Siamo compagni di squadra"-dice Edward, entusiasta.
Si presenta ai miei genitori, ma la breve conversazione viene interrotta dall'arrivo di un uomo alto e magro, che dev'essere il signor Smith.

"Buonasera a tutti, sono Nickolas Smith"-si presenta, stringendo la mano di mio padre e poi quella di mia madre.
Dopo aver concluso le presentazioni, i quattro adulti iniziano a parlare tra loro, sorseggiando lo champagne che la madre di Margot ed Edward ha offerto a tutti noi.
"Tu avevi capito che il signor Smith fosse il padre di Margot ed Edward?"- mi domanda mia sorella, sottovoce.
"L'ho scoperto proprio ora"-mormoro, guardandomi intorno.
Chissà dov'è Margot.
Non mi pare di averla vista in palestra stamattina. Spero che Jane non le abbia raccontato del bacio che Christine mi ha dato davanti a centinaia di persone.

Probabilmente non c'è bisogno che Jane glielo dica...vi ha visti mezza scuola.

Questo potrebbe essere un problema.
Ammetto di essermi lasciato un po' trasportare, ma qualsiasi cosa sia successa con Christine, è finita non appena ha staccato le sue labbra dalle mie. Non è lei che avrei voluto baciare, penso bevendo un sorso di champagne.
Ad un tratto, un rumore di tacchi invade la stanza.
I nostri genitori interrompono la loro conversazione, voltandosi tutti in direzione del rumore. All'entrata del salotto, compare Margot, bella come non l'ho mai vista. Indossa un vestito verde smeraldo che le arriva a metà coscia e ha i capelli raccolti in uno chignon alto, da cui sfugge qualche ciocca.
"Margot!"-esclama Jane, alzandosi per salutare l'amica.
Osservo Margot accorgersi con stupore della presenza di Jane. Evidentemente, nemmeno lei aveva realizzato che il signor Thompson fosse nostro padre.
La guardo salutare i miei genitori, che ovviamente si ricordano perfettamente di lei. Come avrebbero potuto dimenticare la bellissima ragazza ataxofobica che è svenuta guardando la mia stanza disordinata. Istintivamente sorrido, ricordandomi di quel giorno.
Mi alzo dal divano, dirigendomi lentamente verso di lei.
Non appena si accorge di me, la sua espressione cambia radicalmente.
Mi lancia uno sguardo che mi ricorda quello che mi ha rivolto la prima volta che l'ho vista, quella sera al parco.
Immediatamente, mi accorgo che qualcosa non va, tra noi. Deve aver saputo del bacio.
Mi rivolge un rapido cenno di saluto, per poi iniziare a parlare con Jane, ignorandomi deliberatamente.
Mi accorgo della sua tensione e dei suoi sguardi furtivi, come a volersi accertare della mia presenza che la infastidisce visibilmente. Fortunatamente, Edward mi raggiunge-"sabato prossimo ci sarà una nuova riunione per discutere delle strategie di gioco"-mi dice, dandomi una pacca sulla spalla.
"Ci sarò"-ribatto, senza riuscire a staccare gli occhi da Margot. Oggi è davvero incredibile.
Riesce ad essere bella anche quando è arrabbiata.
Sarà difficile riconquistare la sua fiducia, ma so che riuscirò a trovare una falla nelle sue difese.

Margot's pov
Non riesco a credere che la persona che più volevo evitare sia attualmente nel mio salotto a sorseggiare champagne insieme ai miei genitori.
Se tutto questo è uno scherzo del destino, non fa ridere.
Cerco di concentrarmi sulle parole di Jane, ma sapere che c'è lui a qualche metro da me mi fa andare su tutte le furie. Vorrei che si dissolvesse in una nube di fumo. Il solo guardarlo mi dà fastidio, perché lo rivedo al centro del campo, con Christine. Rivedo il loro schifoso bacio e tutti gli applausi della gente intorno.
Che schifo.
"Margot, mi stai ascoltando?"-mi chiede la mia amica, sventolandomi la mano davanti alla faccia.
"Sì, sì, continua"-ribatto, incrociando le braccia al petto. Purtroppo non riesco a mantenere la concentrazione su Jane per più di due minuti consecutivi. Per fortuna, mia madre interrompe la nostra conversazione-"è arrivato il momento di cenare"-dice, facendoci cenno di andare verso il soggiorno, dove la tavola è già apparecchiata per otto.
Mio padre si siede a capotavola e mia madre lo segue, accomodandosi affianco a lui. Lo stesso fa il signor Thompson, seguito dalla moglie.
Io ed Edward ci sediamo vicino a mamma, mentre Jane e Jonathan si siedono di fronte a noi. O meglio, Jonathan si siede di fronte a me.
Gli lancio un'occhiataccia, sperando che capisca che non può sedersi proprio lì, ma è tutto inutile.
Mi rivolge un sorrisetto che mi fa andare su tutte le furie, ma cerco di non lasciar trapelare nessuna emozione.
Se vuole la guerra, avrà la guerra. Questa volta non accetterò compromessi.
"Quindi tuo figlio prenderà le redini dell'azienda di famiglia"-esordisce papà, versando un po' di vino rosso prima nel calice dei signori Thompson e poi nel suo calice e in quello di mamma.
"Sì, deve per forza...non mi fiderei di nessun altro"-ribatte il signor Thompson, guardando Jonathan di sottecchi.
Anche mamma si volta a guardarlo, per poi rivolgergli un sorriso abbozzato.
Jonathan non aggiunge nient'altro alle parole di suo padre. Afferra la bottiglia di vino e ne versa una buona quantità nel calice. Osserva quasi ipnotizzato il liquido rosso scuro scendere nel calice, fino a quando Jane con una gomitata lo riscuote dal suo stato di trance, facendogli cenno di posare la bottiglia.
Mamma si alza e prende dalla cucina una teglia di lasagne, che porta a tavola insieme ad una spatola da cucina.
"Anche mio figlio Edward, appena finita la scuola, inizierà a lavorare insieme a me"-osserva papà, sorridendo a mio fratello. Nel frattempo, mamma ha tagliato otto fette quadrate di lasagne e le ha disposte nei piatti, che ha poi distribuito a ognuno di noi.
"A te piace il lavoro di tuo padre?"-chiede il signor Thompson ad Edward, tagliando la sua porzione.
"Certo, fin da piccolo sogno di diventare imprenditore come lui"-ribatte Edward, con sincerità.
Ripenso involontariamente alla conversazione di qualche giorno fa con Jonathan, quella in cui mi ha detto che odia il lavoro del padre e che se potesse studierebbe Filosofia a Yale.
Edward è davvero fortunato, perché papà sognava per lui lo stesso futuro che lui sognava per se stesso.
Invece, Jonathan sarà sempre un po' insoddisfatto, perché non potrà mai diventare ciò che ha sempre sognato di diventare. Non potrà studiare filosofia a Yale e vivrà una vita con il rimorso di non aver realizzato il suo sogno.
Devo ammettere che, nonostante tutto, un po' mi fa pena.
"Invece tua figlia che intenzioni ha?"-chiede mamma al signor Thompson.
"Non posso imporre nulla alla mia piccola Jane, anche perché le responsabilità spettano al fratello, che è maschio ed è il primogenito...quindi deciderà lei"-ribatte con voce ferma, guardando Jonathan di sottecchi.
"Questo è un ragionamento un tantino maschilista"-osservo io, sorseggiando un po' di vino dal mio calice. Tutti si voltano verso di me. Nessuno si aspettava un mio intervento, e invece eccomi qua.
Mia madre mi lancia un'occhiataccia, che contiene un muto rimprovero.
"Credo che, se Jane volesse, potrebbe fare gli interessi dell'azienda con molto più stile di lei"-continuo, perché una volta iniziato non riesco a non dire la mia.
Mio fratello mi dà un calcio sotto il tavolo.
"Peccato che per guidare un'azienda non serva stile, ma un buon senso pratico"-ribatte il signor Thompson, alzando un sopracciglio.
Mio padre accanto a lui annuisce convinto-"la prego di scusare Margot, che a volte è un po' troppo... schietta"-mormora mio padre, guardandomi male.
"Se lei avesse senso pratico, non avrebbe obbligato suo figlio ad intraprendere una strada che non sente sua"-sbotto, guardandolo negli occhi.
Di fronte a me, Jonathan mi guarda con un'espressione che non riesco a decifrare e che mi sembra un misto di soddisfazione e amara rassegnazione.
Spero che non pensi che lo stia difendendo.

È proprio quello che stai facendo.

No, io sto difendendo le donne, di certo non lui. Christine lo difende già bene.

Percepisco un certo risentimento.

Fattene una ragione.
"Credo che sia arrivato il momento di discutere di quegli affari per i quali siamo qui"-interviene mia madre, cercando di distogliere l'attenzione del Signor Thompson da me.
"Con molto piacere"-ribatte lui, riponendo le posate sul tovagliolo subito dopo aver finito la sua porzione di lasagne.
Nell'aria si respira una certa tensione.
I quattro adulti iniziano a discutere di affari, mentre Jane sussurra qualcosa a Jonathan sottovoce.
Lo osservo ascoltare attentamente le parole della sorella, per poi iniziare a sorridere.
Devo ammettere che con la camicia è piuttosto...affascinante.

Credo che «affascinante» non renda l'idea, forse ci sono parole più adatte...tipo se—

Taci.
Sarà anche quello che dici tu, ma non devi dimenticare che lo pensa anche Christine e non c'è niente che io possa condividere con lei.
Di nuovo, ripenso al loro bacio. Non posso permettermi di perdere la testa per una persona come lui. Perderei me stessa e tutto ciò che negli anni mi sono costruita intorno. Lasciarlo entrare nel mio piccolo universo è stato un rischio, ma non sono più sicura di volerlo correre.
C'è davvero troppo in gioco.
Lui non mi può appartenere e io non posso appartenere a lui.
Siamo davvero troppo lontani, troppo diversi.
Metterebbe in pericolo ogni cosa, e io non posso permetterlo.
Devo lasciarlo andare, ma qualcosa mi tiene sempre ancorata a lui. Un po' lo odio per questo.
Odio il potere che ha sulla mia mente, odio il fatto che sia riuscito per un attimo a farmi credere di poter realizzare l'impossibile, lo odio perché mi ha illusa di potermi salvare dalla mia fobia. Da lei non si scappa.
È parte di me e non posso farci niente.
Prima se ne renderà conto anche lui, meglio sarà per tutti.
Io sono la mia fobia e i miei limiti rispettano le sue leggi. Io rispetto le sue leggi. La rivoluzione non è ammessa. La rivoluzione mi spaventa.

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