Capitolo 24
Il giorno dopo, ore 19.30
Margot's pov
"Che ne pensate di questo?"-chiede Jane euforica, afferrando l'ennesima stampella dalla sua cabina armadio.
Io e Sam siamo sedute sul suo letto e da circa 40 minuti osserviamo sempre la stessa sequenza di eventi che si ripete in un loop infinito: Jane estrae un vestito dal suo armadio, lo indossa e sfila davanti a noi. A turno, io e Sam esprimiamo la nostra opinione: il vestito viene etichettato come troppo elegante, troppo sportivo, troppo succinto, troppo scuro, troppo chiaro, troppo corto o troppo lungo. Dopodiché, Jane si toglie il vestito, lo ripone nuovamente nell'armadio e ce ne mostra un altro. La sequenza si ripete, sempre uguale a se stessa.
"Allora?"-domanda nuovamente, dopo aver indossato il vestito. Sfila con fierezza davanti a noi, mettendo un piede avanti all'altro come farebbe una modella.
"Lo abbiamo trovato"-sentenzia Sam, applaudendo.
Annuisco passivamente, perché mio malgrado non riesco a concentrarmi. Sono in camera di Jane, per aiutarla a scegliere l'outfit giusto per il suo primo appuntamento con Alec, ma la mia mente è rimasta a Bibury. Per essere più precisi, è rimasta a quel bacio. Non riesco ad allontanarmi da Jonathan e dalle sue mani intrecciate alle mie.
A volte mi sembra di odiarlo. Ha invaso il mio spazio fisico, ma quello che non posso proprio perdonargli è che sia riuscito a invadere anche i miei pensieri.
"Margot, a te piace?"-mi chiede Jane, fermandosi proprio davanti a me e facendo una pirouette.
Guardo con maggiore attenzione il vestito: è rosso scuro, stretto in vita da una minuta cintura, che segna delicatamente il punto vita di Jane. La gonna scende morbida fin sopra il ginocchio.
"Sì, bello"-ribatto, ma mi accorgo subito del suo sguardo indagatore, che cerca nei miei occhi il motivo della mia distrazione.
"Si può sapere a cosa stai pensando? Sembri su un altro pianeta, un po' come ieri a Bibury"-dice, guardandomi allusiva.
Abbasso lo sguardo e gioco con il bordo del maglione-"non c'è niente a cui pensare"-rispondo, ma la mia voce non suona convincente nemmeno a me.
Jane e Sam si guardano: chissà cosa si sono dette in mia assenza.
"E con Jonathan? Come vanno le cose?"-domanda Sam, guardandomi di sottecchi.
"Quali cose? A stento ci sopportiamo"-ribatto, forse un po' troppo velocemente.
Guardo Sam mordersi il labbro, per poi alzarsi dal letto e dirigersi verso la porta della stanza-"devo cambiarmi anche io, se vogliamo che tuo fratello creda alla nostra bugia"-mormora, richiudendosi la porta alle spalle. Istantaneamente ricordo che Jonathan non sa che Jane uscirà con Alec stasera, perché crede che lei e Sam vadano a vedere uno spettacolo allo Shakespeare's Globe Theatre.
"Ma che le prende?"-domando, cercando di distogliere l'attenzione di Jane da me.
Jane si gira a guardare la porta socchiusa. Nel corridoio risuonano ancora i passi di Sam.
"Non ne ho idea"-ribatte, sovrappensiero.
Si gira nuovamente verso di me-"sicura che tu non mi debba dire niente riguardo te e Jonathan? Oggi a scuola l'hai evitato in tutti i modi e lui ti guarda in modo strano"-osserva, sedendosi accanto a me sul suo letto.
Respiro profondamente, cercando di mantenere la calma. Effettivamente, oggi a scuola mi sono tenuta alla larga da Jonathan.
Chi invece non si è allontanata nemmeno per un attimo da lui è Christine. La cosa che più mi ha fatto innervosire è che lui non sembrava per niente infastidito dalle sue continue moine.
Si chiama gelosia.
Ma quale gelosia, le fidanzate e le mogli sono gelose. Io non sono nessuna delle due.
Le fidanzate, le mogli e le Margot sono gelose.
Per favore, non ti ci mettere anche tu. C'è già Jane a farmi il quarto grado.
"Allora?"-insiste Jane, guardandomi con un sorriso malefico-"dimmi che non cadrai ai suoi piedi, ti prego"-continua, quasi rimproverandomi.
Lancio a Jane un'occhiataccia-"cosa ti fa pensare che io possa cadere ai piedi di qualcuno?"-domando, alzando un sopracciglio.
"Mi sono accorta di come ti guarda e nella mia vita ho visto davvero poche ragazze rifiutare mio fratello"-ribatte Jane, giocherellando con il piccolo anello che indossa all'anulare della mano destra.
"Quante ragazze ha avuto?"-chiedo distrattamente, ma me ne pento subito. Non credo di volerlo davvero sapere.
Jane sorride divertita-"ho perso il conto"-ribatte, alzandosi dal letto e dirigendosi verso la scrivania. Afferra un piccolo portagioie di legno, dal quale estrae un braccialetto d'argento abbinato all'anello.
"Ha avuto storie importanti?"-domando, cercando di dissimulare la mia curiosità.
"Jonathan non sa cosa significhi la parola importante"-risponde Jane, cercando di agganciare il braccialetto al polso.
Istintivamente, mi alzo per aiutarla. Ruoto lentamente il suo polso, afferro le due estremità del bracciale e faccio scattare la clip di chiusura.
"Quando abitavamo a Los Angeles, non aveva mai un minuto libero...quando non era agli allentamenti di basket, era in giro con qualche ragazza o a bere con i suoi amici"-continua Jane, sollevando lo sguardo su di me.
Ci guardiamo in silenzio per alcuni secondi. Con la mente, Jane ritorna alla sua vecchia vita, ormai lontana migliaia di chilometri.
"E lo studio?"-chiedo, guardando di sottecchi i libri disposti in una pila ordinata sulla scrivania di Jane.
La mia amica solleva un sopracciglio-"non ci ha mai tenuto molto...appena finirà la scuola entrerà a far parte dell'azienda di nostro padre e, sai com'è, quando il tuo destino è già scritto e non puoi fare nulla per cambiarlo, ogni sforzo ti sembra inutile"-sospira, incrociando le braccia al petto.
Sto per ribattere, quando la porta si apre bruscamente, lasciando entrare Sam. Indossa un vestito blu notte che le fascia perfettamente il corpo minuto. È davvero bellissima.
"Se questo è il vestito che indossi semplicemente per reggermi il gioco, non oso immaginare quanto tu possa essere fantastica quando devi andare davvero da qualche parte"-afferma Jane, guardandola affascinata.
Sam arrossisce-"è l'unico vestito che ho portato con me, volevo metterlo alla tua festa ma alla fine mi hai prestato quel tuo vestito rosa che mi piaceva tanto"-risponde, indicando il vestito rosa shoking nell'armadio di Jane.
"In ogni caso, sei incredibile"-dice Jane, facendole l'occhiolino.
Il telefono di Jane vibra all'improvviso, facendoci sobbalzare.
"È Alec, devo andare"-sussurra Jane, afferrando un paio di scarpe dalla parte inferiore della cabina armadio.
"Sam, se non vuoi rimanere in giro, puoi rientrare in casa dalla porta sul retro...c'è un piccolo corridoio di servizio che arriva direttamente al piano di sopra e se passi di là Jonathan non ti sentirà"-sussurra a Sam, che annuisce in silenzio.
Si allaccia rapidamente le scarpe, per poi afferrare la borsa e uscire dalla stanza.
Io e Sam la seguiamo: percorriamo in silenzio il lungo corridoio, scendiamo le scale e arriviamo in salotto.
Jonathan è seduto sul divano, intento a guardare il cellulare.
Il nostro arrivo richiama la sua attenzione. Rivolge il suo sguardo su Jane, per poi indugiare per una manciata di secondi su Sam. Infine, guarda me. Mi sento un po' infinitesimale affianco a Jane e Sam vestite di tutto punto.
I nostri occhi si incontrano e lui mi sorride, ma io distolgo subito lo sguardo.
"Noi usciamo"-dice rapidamente Jane, prendendo Sam sottobraccio.
"Cercate di non perdervi, non ho la macchina per venire a recuperarvi"-ribatte Jonathan, guardandole divertito.
"Tranquillo"-ribatte Jane, con una sicurezza che non mi aspettavo.
"Io aspetto mio fratello, dovrebbe arrivare a momenti"-ribatto, indossando il piumino e recuperando la mia borsa. Poiché sapevo che si sarebbe fatto tardi, ho chiesto ad Edward di venirmi a prendere. Prima che io faccia in tempo a raggiungere la porta d'ingresso, Jane mi si para davanti, interponendosi tra me e la maniglia-"forse è meglio se aspetti in casa, fa freddo fuori"-dice, facendomi l'occhiolino.
Quasi non riesco a credere che stia facendo del suo meglio per farmi rimanere da sola con suo fratello.
"Starò benissimo fuori"-sentenzio, lanciandole un'occhiataccia.
"Non se ne parla proprio, tu aspetterai qui"-ribatte Jonathan. Come se non bastasse, il rombo di un tuono lacera il silenzio della casa.
"Sta addirittura piovendo"-osserva Jonathan, guardandomi divertito.
Vorrei togliergli quel fastidioso sorriso dalla faccia.
"Noi andiamo, ciao Margot"-mi salutano Jane e Sam, richiudendosi la porta alle spalle.
Io e Jonathan rimaniamo soli, lui ancora seduto sul divano, io in piedi davanti alla porta d'ingresso.
"Hai intenzione di rimanere lì in piedi fino a quando tuo fratello non arriverà qui?"-domanda ironico.
"Non è che io abbia solo intenzione, è proprio quello che farò"-ribatto scocciata, incrociando le braccia al petto.
"Non credi che saresti più comoda seduta sul divano?"-domanda, indicandomi con un gesto rapido il posto affianco a lui sul divano.
"Sto bene qui"-rispondo, senza degnarlo di uno sguardo.
Dopo che Jane mi ha parlato delle sue conquiste, non riesco a guardarlo senza pensare che lo stesso bacio che ha dato a me lo avrà dato a tante altre, e se lo ha dato a tante altre vuol dire che non era importante.
Del resto, tu non vuoi che sia importante, vero?
Vero. Tra me e Jonathan non è successo niente. Lui è libero di andare in giro con tutte le ragazze che vuole.
Perché percepisco un pizzico di fastidio in questi tuoi pensieri?
Non c'è nessun fastidio, nessuna emozione, niente di niente.
"Hai sentito cosa ho appena detto?"-dice Jonathan, richiamando di nuovo la mia attenzione.
Lo guardo confusa e lui mi rivolge un sorriso divertito-"ho detto che non ti mangio"-sussurra, continuando a sorridere.
La nostra strana conversazione viene interrotta dallo squillo del mio cellulare. Leggo sul display il nome di mio fratello. Per fortuna è arrivato a porre fine a questo strazio.
"Sei qui?"-domando, avvicinando il telefono all'orecchio.
"Margot, la macchina non parte...io e papà siamo in garage e stiamo cercando di capire qual è il problema"-risponde.
Aggrotto le sopracciglia-"quanto ci vuole?"-domando, temendo il peggio.
Dall'altra parte, sento la voce di mio padre, ma non riesco a capire cosa dice.
"Non ne ho idea, puoi rimanere lì finché non risolviamo?"-ribatte mio fratello.
Guardo istintivamente Jonathan, a pochi metri da me. Ha un'espressione concentrata, probabilmente sta cercando di capire cosa sta succedendo.
"Non c'è nessun altra soluzione?"-domando io, quasi implorando mio fratello.
"Non che io sappia"-risponde.
Ci mancava solo questa.
"Ti chiamo appena risolviamo il problema"-dice, riattaccando senza aspettare la mia risposta.
"Risolviamo il problema un corno"-mormoro io, riattaccando e riponendo il cellulare nella borsa.
"Cosa succede?"-domanda Jonathan, alzandosi dal divano e dirigendosi a grandi passi verso di me.
"La macchina non parte"-ribatto, senza guardarlo.
Lui aspetta pazientemente che io gli dia maggiori dettagli.
"Finché non risolvono il problema, devo restare qui"-mormoro scocciata.
"Non c'è problema, possiamo cenare insieme"-ribatte, dirigendosi verso la cucina.
"Non c'è bisogno grazie"-ribatto, ma dalla cucina non arriva nessuna risposta. Attraverso il salotto sbuffando, per poi raggiungerlo vicino alla penisola di legno adiacente al piano cottura.
"Hai sentito cosa ho—"-non faccio in tempo a terminare la frase, perché le mie parole vengono coperte dalle sue.
"Buonasera, vorrei ordinare due pizze"-inizia, avvicinando il telefono all'orecchio.
"Che pizza vuoi?"-mi mima con le labbra, mentre io gli faccio cenno di riattaccare.
Una voce roca e profonda gli chiede l'indirizzo di casa. Guardo Jonathan fornire tutti i dettagli, per poi concludere la telefonata ordinando due margherite.
"Quale parte di «non c'è bisogno grazie» non avevi capito?"-domando, non appena lui riattacca.
"Tu non hai mai bisogno di niente, ma dimentichi che forse gli altri possono aver bisogno di qualcosa"-dice sibillino.
Lo guardo allibita-"sentiamo, quale tuo bisogno avrei trascurato, rifiutando di mangiare la pizza con te?"-chiedo, con sarcasmo.
"Il bisogno di cenare insieme a te, qui e ora"-risponde, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
"Hai delle strane esigenze"-affermo, ritornando in salotto.
Non so cosa Jonathan abbia in mente, ma io di certo non cenerò con lui.
Mi siedo sul divano, accavallando le gambe e stringendomi nel maglione. Rispetto a casa mia, questa casa è molto più fredda.
Jonathan rientra in salotto, stringendo tra le mani una busta di patatine.
Si siede senza tante cerimonie affianco a me, apre rapidamente la bustina e me la porge.
Con riluttanza, prendo una patatina.
"Grazie"-mormoro, quasi impercettibilmente.
"Grazie a te per essere rimasta, non mi piace stare da solo"-ribatte, prendendo una manciata di patatine dalla busta.
"Cos'ha la solitudine che non va?"-domando, ripensando involontariamente alla conversazione di poco fa con Jane, riguardo tutte le ragazze di Jonathan.
"È vuota e troppo silenziosa"-ribatte secco, guardandomi di sottecchi.
"Non è vuota, se sai come riempirla"-osservo, afferrando un'altra patatina dalla busta.
"Tu hai imparato a riempirla?"-chiede, con sincero interesse.
Sollevo il mio sguardo su di lui-"sì, direi di sì"-affermo, dopo una breve riflessione.
"Come?"-insiste, continuando a guardarmi con i suoi occhi scuri e impenetrabili.
"Sono abituata al vuoto e al silenzio ma, quando diventano ingestibili, di solito prendo un libro e inizio a leggere"-rispondo.
Lui mi guarda in silenzio, sovrappensiero.
"Ma leggere crea altro silenzio"-osserva dopo una manciata di secondi, sollevando un sopracciglio.
"Forse fuori, ma quando leggo nella mia testa c'è tutto fuorché silenzio"-ribatto, accavallando l'altra gamba.
Lui continua a guardarmi come se stessi parlando di mondi paralleli e alieni.
"Dalla tua faccia suppongo tu non abbia mai letto un libro"-continuo, sorridendo leggermente.
"Adesso non esageriamo...per la scuola ho letto qualcosa, ma mi sono sempre annoiato a morte"-risponde, afferrando un'altra patatina dalla busta.
"Questo non riesco proprio a capirlo...come si può trovare noiosa quella strana sensazione di essere altrove?"-domando, appoggiando la testa sullo schienale del divano.
"Io non riesco a teletrasportarmi, mentre leggo"-ribatte Jonathan, sovrappensiero.
"Allora probabilmente non hai letto il libro giusto"-osservo.
La nostra conversazione viene interrotta dal suono del campanello. Lancio una rapida occhiata alla porta, mentre Jonathan afferra il portafogli dalla tasca posteriore del jeans e ne estrae una banconota da 20 sterline, dirigendosi all'ingresso.
Saluta rapidamente il fattorino, gli consegna i soldi e afferra le nostre pizze, per poi richiudersi la porta alle spalle.
Mi mostra soddisfatto le pizze, sollevandole leggermente. Le maniche della felpa si arricciano a livello dei bicipiti e...un momento.
Siamo proprio alla frutta.
Non l'ho fatto apposta.
Il momento in cui noti i suoi bicipiti è il punto di non ritorno, ragazza.
Ultimamente non riesco proprio a capirmi.
Seguo in silenzio Jonathan attraverso il salotto.
Non appena entrati in cucina, poggia le pizze sulla tavola, per poi passarmi la mia.
Ci sediamo l'uno di fronte all'altra. Nessuno dei due proferisce parola, ma siamo entrambi consapevoli della strana energia che si interpone tra noi.
"Se potessi rifiutarti di entrare a far parte dell'azienda di tuo padre, cosa faresti?"-domando a bruciapelo, guardandolo di sottecchi.
Jonathan si sistema sulla sedia, prendendo tempo. Evidentemente non si aspettava la domanda.
Pensa per alcuni secondi alla risposta, tagliando in spicchi la pizza davanti a lui.
"Vuoi sapere cosa farei se potessi fare tutto ciò che voglio, senza limiti?"-chiede di rimando, sorridendo.
"Sì"-affermo, iniziando a tagliare la pizza.
"Giocherei a basket, perché è l'unica cosa che non mi pesa fare"-ribatte, addentando uno spicchio di pizza.
"E con i soldi guadagnati cosa faresti?"-chiedo ancora, versandomi un po' d'acqua nel bicchiere.
Per la seconda volta, Jonathan sembra riflettere attentamente sulla risposta.
"Il mio piano a lungo termine prevede l'acquisto di una casa piccola, immersa nel verde e vicina al mare"-ribatte, scrutandomi incuriosito.
Probabilmente si sta chiedendo perché gli sto facendo il quarto grado.
"Perché vuoi una casa piccola?"-domando, aggrottando le sopracciglia.
Jonathan indica con un gesto vago l'ambiente intorno a noi-"in troppo spazio ci si perde"-sentenzia, sorprendendomi. Pian piano sto scoprendo che, oltre ai muscoli, questo ragazzo potrebbe avere anche un cervello.
"Prima hai detto «il mio piano a lungo termine»...qual è quello a breve termine?"-insisto.
"Intendi quello a breve termine o a brevissimo termine?"-chiede.
"Entrambi"-ribatto.
"Il mio piano a breve termine sarebbe finire la scuola ed iscrivermi a Yale University, per studiare filosofia"-risponde, lasciandomi di stucco.
"Filosofia?"-chiedo, con il dubbio di non aver capito bene.
"Filosofia"-ripete, annuendo.
Guarda divertito la mia espressione confusa-"che c'è, non ho la faccia di un ragazzo che vuole studiare filosofia a Yale?"-domanda, mostrandomi prima un profilo e poi l'altro.
"Per niente"-ribatto, addentando uno spicchio di pizza.
"Tu cosa vorresti fare?"-mi chiede.
Guardo distrattamente il cartone della pizza, ormai quasi finita.
"Mi piacerebbe studiare psicologia"-rispondo di getto, giocherellando con l'orlo del tovagliolo alla mia sinistra.
"Questo è il piano a breve termine...qual è quello a lungo termine?"-insiste.
Per una manciata di secondi rimaniamo in silenzio, ognuno chiuso nei propri pensieri.
"Vorrei guarire, una volta e per tutte"-sospiro. Nel momento esatto in cui pronuncio queste parole, mi rendo conto di quanto siano vere e di quanto vorrei che diventassero realtà.
Ho sempre desiderato guarire, ma adesso mi sembra davvero indispensabile, quasi urgente.
"Perché non lo facciamo diventare un piano a brevissimo termine?"-domanda Jonathan, allungando la sua mano lungo il tavolo, fino a toccare la mia.
Le nostre mani si sfiorano per qualche secondo.
"Non mi hai più parlato del tuo piano a brevissimo termine"-mormoro, guardando le nostre mani vicine.
"Sei sicura di volerlo sapere?"-domanda, abbassando la voce.
"Dopo questa domanda, devi per forza dirmelo"-ribatto, sostenendo il suo sguardo.
"Ma se non te lo dicessi, tu continueresti a pensarci per giorni e mi odieresti"-osserva, guardandomi divertito.
"Questo è altamente probabile"-rispondo, alzando un sopracciglio.
"Però mi penseresti di continuo"-continua, con un sorriso malizioso.
"Questo sarebbe un problema"-affermo, poggiando il mento sul palmo della mano destra.
Ci guardiamo in silenzio per alcuni secondi. Dalle finestre arriva il rumore incessante della pioggia.
"Credo proprio che non te lo dirò"-sentenzia Jonathan, sorridendo.
Sto per ribattere, quando il mio telefono squilla e sul display compare il nome di mio fratello.
Istintivamente ritraggo la mia mano da quella di Jonathan, come se Edward, attraverso il cellulare, potesse accorgersi del nostro piccolo momento di intimità.
Porto il telefono all'orecchio-"Margot?"-sento dire da Edward.
"Edward"-rispondo, cercando di cogliere eventuali rumori di sottofondo.
"Abbiamo aggiustato la macchina, sto arrivando"-dice.
"Ti aspetto"-ribatto, per poi riattaccare.
"Guarda che io non dimenticherò che ti sei rifiutato di parlarmi del tuo piano a brevissimo termine"-dico, rivolgendomi nuovamente a Jonathan.
"Quando sarà il momento giusto, te ne parlerò"-ribatte, facendomi l'occhiolino.
Rispondo lanciandogli un'occhiataccia-"devo andare"-sospiro. Fino a pochi minuti fa non vedevo l'ora di andarmene da qui, invece adesso quasi mi dispiace di lasciare Jonathan.
Tutto ciò è davvero surreale.
I miei pensieri vengono interrotti dal suono del clacson proveniente dalla strada.
Io e Jonathan ci dirigiamo verso la porta, io indosso il mio piumino e recupero la borsa.
"Grazie per la pizza, ci vediamo in giro"-dico, aprendo lentamente la porta.
"Grazie per la chiacchierata"-ribatte, sorridendo.
Ci guardiamo per alcuni imbarazzanti secondi, finché io non mi allontano bruscamente da lui, scendendo gli scalini dell'ingresso e uscendo all'aria aperta.
Saluto Jonathan con un breve cenno della mano, per poi dirigermi rapidamente verso la macchina di Edward.
Saluto mio fratello, mi accomodo in silenzio sul sedile del passeggero e allaccio la cintura di sicurezza.
Edward mette in modo immediatamente, attivando i tergicristalli.
Sfrecciamo per le strade di Londra, diretti a casa.
Istintivamente penso alla casa piccola che vorrebbe Jonathan, alla sua paura di perdersi dentro uno spazio troppo grande.
Alla fine, ha ragione. Gli spazi grandi allontanano le persone. Ognuno ha il proprio spazio, isolato da quello degli altri.
Invece, in un piccolo spazio, si è obbligati ad accorgersi degli altri.
Anche a me piacerebbe avere una casa piccola.
Piccola, ma piena di vita. Senza paure e piena di sogni. Vorrei essere così.
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