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Capitolo 1

Jonathan's pov

"I passeggeri dell'aereo delle 15.00 diretto a Londra sono pregati di recarsi alla pista numero 3"

Fantastico.
Davvero fantastico.

Sto per partire per un'altra città, sto per abbandonare la mia vecchia vita, sto per ricominciare daccapo, sto per andare a vivere a 8755 km da qui, sto per dire addio alla mia amata California.

Fantastico direi.

Tutto questo per cosa?

Per lavoro.

Io devo cancellare e riscrivere la mia vita, devo farmi nuovi amici, devo abituarmi ad una nuova città-dove per giunta piove ventiquattro ore su ventiquattro-devo frequentare una nuova scuola, tutto questo perché ?

Perché mio padre ha un maledetto socio che vive in questa maledetta città e che si scoccia di muovere il suo maledetto didietro per venire qui da noi a risolvere i suoi maledetti affari di lavoro...perché scomodarti  se puoi costringere le altre persone a venire da te?
Mi sembra un ragionamento logico.
Non fa una piega.

"Jonathan, se non ti muovi perdiamo l'aereo"-la voce di mia sorella mi distoglie dai miei pensieri-"si arrivo"-rispondo velocemente, prendendo la valigia e seguendo la mia famiglia verso la pista numero 3.

Dopo una serie infinita di controlli, finalmente entriamo in aereo.
Poggio la valigia sull'apposita mensola di metallo e mi accomodo al mio posto, affianco a Jane.
Io e Jane abbiamo esattamente un anno di differenza.
Nonostante sia più piccola di me, mia madre ha fatto di tutto per far sì che fossimo in classe insieme.
Beh, si può dire che lei sia addirittura più brava di me, anche se non ci vuole molto.
Diciamo che sono sempre stato quello che "ha tutte le capacità, ma non le applica"...Dio solo sa quante volte ho sentito questa frase.

Jane invece, beh lei è Jane. È brava in tutto ciò che fa, ma ciò che mi infastidisce di più è che non le serve sforzarsi per emergere.
Lei crede che io sia invidioso del suo rendimento scolastico, ma la verità è che non mi è mai davvero importato abbastanza della scuola. Ho sempre dato la priorità ad altro, ho sempre avuto una certa ansia di vivere tutto e soprattutto di viverlo al massimo. Se per farlo ho dovuto sacrificare qualcosa, non mi importa.

Io mi accontento, lei no.
Forse è per questo che non andiamo molto d'accordo, ma nonostante tutto, le voglio bene.

Lei sembra contenta di trasferirsi...non aveva molti amici a Los Angeles, spesso mi diceva che le sarebbe piaciuto ricominciare tutto in un posto diverso, in cui avrebbe potuto sperimentare nuove versioni di sé stessa.
Per lei questa è un'occasione per creare daccapo la sua vita.

Per me non è così.
Io a Los Angeles stavo bene.
Avevo amici, avevo una reputazione, avevo le ragazze, avevo una vita.
Io lì ero qualcuno.
Ero Jonathan il casinista, Jonathan il figo, Jonathan con cui ci si diverte.

In quella maledetta città a 8755 km da qui io non sarò nessuno, almeno per i primi tempi.

"Buonasera, benvenuti sull Air-plane.
La direzione raccomanda ai signori passeggeri di allacciare le cinture di sicurezza per l'imminente decollo"

Sempre meglio.
Questa voce metallica mi dà sui nervi.

Allaccio la cintura, cercando di non prestare attenzione alla voce che ripete la stessa frase in altre quindici lingue.

"Ma si può sapere che hai?"-sbotta Jane, guardandomi corrucciata, come se stesse cercando qualche indizio sulla mia faccia-"Jane, fatti gli affari tuoi"-rispondo voltandomi dall'altro lato.
"Ragazzi, non litigate"-ci richiama nostra madre.

Sbuffiamo entrambi contemporaneamente, quasi fossimo telepatici.
"Per favore, cercate di non dare spettacolo"-conferma papà.

Non rispondo, poggiando la testa allo schienale e cercando di non ascoltare ciò che sta dicendo Jane.

Dopo qualche minuto, l'aereo decolla.
Los Angeles diventa sempre più lontana, sempre più irriconoscibile, sempre più piccola sotto i nostri occhi.

Mi mancherà.
Mi mancherà davvero.

*Qualche ora dopo*

"Jonathan, per favore porta questi scatoloni in camera tua"-mi chiede mamma indicando cinque scatoloni alla sua destra-"va bene"-rispondo, sapendo di non potermi opporre alla sua richiesta.

Prendo uno scatolone alla volta, salgo le scale che portano al piano di sopra e poggio ognuno di essi affianco al letto.

Devo dire che la nuova casa non è affatto male...è grande, forse troppo per quattro persone.
La mia camera è l'ultima al secondo piano. È grande il doppio di quella che avevo a Los Angeles. Non so cosa farmene di tutto questo spazio.

Papà esagera sempre.
Essendo un imprenditore e guadagnando molto, quando ha comprato la casa non si è mantenuto al minimo indispensabile.
In questo io sono molto diverso da lui, non avrei mai comprato una casa così grande, nemmeno se fossimo stati in sei.
Domani arriverà Maggie.
Lei è stata come una seconda mamma per me e Jane...fa le pulizie, ma è una di famiglia.

Dopo aver dato un ultimo sguardo alla mia nuova camera, scendo le scale per tornare al piano di sotto.
"Jonathan, mi aiuti?"-Mi guardo intorno, incrociando lo sguardo disperato di Jane, alle prese con uno scatolone.

Sbuffo andando verso di lei-"lascia, faccio io"-dico prendendole di mano lo scatolone e portandolo con faciltà  per le scale-"grazie"-mi dice Jane, seguendomi per le scale-"nulla"-rispondo io scendendo nuovamente al piano di sotto.

"Mamma io vado a fare una passeggiata, alcuni scatoloni li ho già sistemati in fondo al corridoio"-urlo per farmi sentire.
La risposta non tarda ad arrivare-"va bene, però torna per cena"-risponde mamma-"sì, tranquilla"-dico, infilando il giubbotto di pelle e uscendo.

Qui fa molto più freddo, visto e considerato che siamo a settembre.
Guardo il cielo nuvoloso sopra di me...credo che mi toccherà portare un ombrello.
Rientro in casa, afferro uno dei tanti ombrelli che mamma ha deciso di portare ed esco nuovamente. Se c'è una cosa che odio profondamente, quella è la pioggia. Quel preciso odore che la preannuncia, l'umidità e il cielo grigio mi rendono nervoso. Ho l'amara sensazione di dovermici abituare.

Margot's pov

Mi sto annoiando a morte.
Sono in camera mia e non so cosa fare.
Vorrei fare qualcosa, ma al contempo mi scoccio di muovermi.
Passano i minuti e io non ho ancora deciso.
Mio fratello fa irruzione in camera mia-"Margot, cosa stai facendo?"-mi domanda guardandomi-"non lo vedi? Non sto facendo niente"-rispondo acida-"e qual è il problema?"-mi domanda-"questo è il problema!"-sbraito-"non so cosa fare"-gli dico ovvia.
Mi lancia un'occhiataccia-"vai a fare una passeggiata"-propone scocciato-"mmh, non ci avevo pensato...potrei andare al parco a leggere...si credo che farò proprio così...grazie Edward"-lo ringrazio, saltando giù dal letto e vestendomi, dato che indosso solo una maglietta-"felice di averti aiutato"-risponde, uscendo dalla camera e chiudendosi la porta alle spalle.

Apro l'armadio, indecisa su cosa indossare.
Opto per un jeans strappato e un top nero, con le converse del medesimo colore.
Prendo anche un maglioncino nero, nel caso la temperatura decida di abbassarsi ancora.
Afferro Città di carta dalla mia libreria e le cuffie, per poi riporre tutto in una borsa nera.
Mi fermo davanti allo specchio...direi che ho davvero bisogno di una sistemata.
Prendo il pettine e cerco di sistemare i miei capelli rossi e fin troppo lunghi, mi trucco il minimo indispensabile e mi guardo nuovamente allo specchio: direi che sono presentabile.
Soddisfatta, prendo la borsa e scendo velocemente le scale, arrivando al piano di sotto-"ciao Edward, io vado"-saluto mio fratello, che ricambia senza staccare gli occhi dalla TV.
Esco e chiudo la porta alle mie spalle.
Prendo le cuffie e le collego al cellulare, facendo partire la musica.
La prima canzone è Human di Christina Perri.
Comincio a camminare, non curante dell'aria leggermente fredda che mi punge la pelle...ci sono talmente abituata che ormai non ci faccio più caso.
Mi dirigo verso il mio parco preferito, a dieci minuti da casa.

"But I'm only human
and I bleed when I fall down
I'm only human
and I crash and I break down
your words in my head
knives in my heart
you build me up and then I fall apart
'cause I'm only human"

Canticchio sulla voce di Christina Perri, fino a quando non intravedo l'entrata del parco.

Metto le cuffie e il cellulare in borsa e mi dirigo alla ricerca della mia panchina.
Sì, io ho una mia panchina.
Si trova nella parte ovest del parco, la meno frequentata.
Per questo mi piace.
Diciamo che non sono molto socievole,  o meglio non lo sono affatto...non mi piace stare in mezzo alla gente, preferisco stare sola.

La parte ovest è perfetta per leggere in santa pace, senza bambini urlanti e signore che spettegolano a voce talmente alta che potrebbero essere denunciate per inquinamento acustico.

Mi dirigo a grandi passi verso la mia panchina.
Oggi ci sono parecchie persone, la maggior parte dirette alla parte est, visto che oggi è domenica e quella zona è piena di attrazioni per bambini.

Percorro il solito sentiero e arrivo al solito giardino isolato.
Mi siedo sulla mia panchina e osservo il paesaggio davanti a me. La luce filtra debolmente attraverso i rami degli alberi, dando alle foglie un riflesso dorato. Si sentono in lontananza i rumori della città, ma dalla mia panchina sono solo lontani echi di una realtà che per il momento voglio dimenticare. Tiro fuori il libro e comincio a leggere.

Jonathan's pov

Sto gironzolando per le strade di Londra. Devo dire che è una bella città, nonostante piova praticamente tutti i giorni.

Passo davanti all'entrata di un parco e decido di entrare.
Ci sono parecchie persone, forse perché è domenica.
Davanti a me si aprono tre sentieri: uno a destra, uno a sinistra e uno al centro rispetto agli altri due.
Decido di prendere il sentiero di destra, sembra meno frequentato.

Cammino per il sentiero e, a mano a mano che proseguo, c'è sempre meno gente...questo posto mi piace.

Il cielo sta diventando sempre più scuro e nuvoloso, domani sarà una pessima giornata.

Il cellulare mi vibra nella tasca.
Lo prendo, leggendo il nome del rompiscatole di turno: Jane.

Sbuffo, indeciso se accettare la chiamata o no.
Se non la accetto, dovrò sorbirmi la sua voce stridula per ore...quindi la accetto-"pronto?"-rispondo scocciato-"Jonathan, tra un' ora mangiamo...non so dove tu sia, quindi mamma mi ha chiesto di avvisarti...torna per cena"-mi avvisa, aspettando una mia risposta.
Continuo a camminare, senza prestare attenzione a dove vado-"va bene...tra un po' sarò a casa"-rispondo, infilando una mano nella tasca del jeans-"ciao"-mi congeda, chiudendo la telefonata.
Attacco anche io.
"Ahi, ma che fai?"-sento dire da una voce.
Alzo gli occhi dal telefono, in cerca del mio interlocutore.
Alla mia destra c'è una ragazza...alta, capelli rossi, occhi verdi, tante lentiggini sparse per il viso e una sigaretta tra le labbra...sì, proprio una bella ragazza.
"Cosa ho fatto?"-chiedo, leggermente divertito dalla sua espressione.
Mi osserva come se fossi pazzo-"ma sei scemo? Mi sei venuto addosso"-sbraita, togliendosi la sigaretta dalle labbra-"beh, scusami"-rispondo sorridendo.
Continua a guardarmi male-"la prossima volta guarda dove vai"-dice con tono sprezzante.

"Ti ho già chiesto scusa"-rispondo leggermente irritato-"infatti era un avvertimento per il futuro"-ribatte ovvia.
Continuo a fissarla...ha ancora l'espressione accigliata e lo sguardo severo-"sai che non dovresti fumare?"-la provoco, aspettando la sua reazione-"sai che dovresti farti gli affari tuoi?"-risponde calmissima, come se la sua calma potesse spaventarmi-"è impossibile parlare con te"-ribatto, dicendo la verità...è davvero impossibile avere una conversazione civile con questa ragazza-"esatto, quindi non parlarmi"-risponde acida.

La guardo sorpreso...nessuno aveva mai osato sfidarmi in questo modo, tantomeno una ragazza.
Di solito le ragazze tendono ad assecondarmi in tutto ciò che dico, pensando che in questo modo possano piacermi.
Invece sono così banali.
Però  lei mi piace, ha una gran faccia tosta.
Si, direi proprio che è un bel tipo.
"Bene"-dico sorridendo-"bene"-ribatte arrabbiata, girando i tacchi e andandosene.

La guardo mentre se ne va, dalla parte opposta a quella dove sto andando io, con il suo passo elegante e con i capelli rossi mossi dal vento.

Chissà come si chiama.

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