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34| cecilia

 Come la vidi, corsi in camera e mi cambiai in un batter d'occhio. Scesi in cucina pronta per scappare a scuola, ma ciò, o meglio chi vidi, mi fece fermare immediatamente dov'ero. Il giorno prima evidentemente non mi ero accorta di lei né ci avevo pensato. Fatto sta che, seduta su una delle sedie nell'isola della cucina dei nonni, c'era Cassie. Mi stava sorridendo dolcemente e, quel sorriso così familiare, mi riportò alla mente tutti quei pomeriggi passati fra la sua roulette e la mia a correre avanti e indietro con girandole colorate in mano o pastelli e fogli scarabocchiati, tutte quelle mattine passate ad esercitarmi a leggere e a scrivere con Cameron ed Ethan, mentre lei ci spiegava la grammatica con pazienza e dedizione.

E ora per la prima volta l'avevo guardata muoversi in un luogo che non le era comune e mi dava una sensazione strana, perché questa non era casa. Eppure nei suoi occhi non riuscivo a leggere tutto ciò, o forse lo nascondeva dietro il suo meraviglioso sorriso. Si avvicinò a me e allargò le braccia in cerca di un abbraccio, ma non riuscii a darglielo. Corsi fuori dalla cucina in mezzo alle chiacchiere di mia nonna e i mille pensieri nelle loro teste. In un battibaleno, raggiunsi la porta di villa Garcetti e, una volta giunta lì, suonai al campanello. Sapevo perfettamente che in casa non c'era né il sindaco né la preside, perché una volta Dylan mi aveva raccontato che entrambi iniziavano a lavorare molto presto e finivamo molto tardi. A volte non riusciva a vederli per giorni interi.

Allora, quando suonai al campanello, mi rispose un Dylan assonnato e ancora in pigiama. Indossava una canottiera grigia e dei pantaloni della tuta dello stesso colore, sembrava un topo, ma stava bene anche così. I capelli erano arruffati. Doveva ancora svegliarsi del tutto. Appena mi vide, si passò una mano fra i capelli per renderli almeno presentabili e cercò di aprire del tutto gli occhi, anche se gli era difficile. "Cosa ci fai qua, Elaine?" mi chiese, sbadigliando.

"Scuola." dissi velocemente. Non volevo stare nemmeno un minuto in più alla porta, dove i nonni e la mia famiglia mi potevano ancora vedere.

Si mise una mano sulla fronte. "Merda! Hai ragione, c'è scuola! Aspettami qui. Arrivo tra meno di cinque minuti, prometto!" disse, poi mi lasciò sola all'entrata di casa sua e, mentre correva su per le scale, si ripeteva quanto fosse stupido a non essersene ricordato e che doveva fare il più veloce possibile, sennò saremmo arrivati in ritardo.

Aveva lasciato aperta la porta e non riuscii a trattenermi dall'entrare. Dal piano di sotto riuscivo ancora a sentire Dylan muoversi al piano superiore. Una volta che entrai, mi ricordai di quanto fosse grande e d'istinto mi diressi verso la cucina. Nel corridoio che collegava l'entrata alla cucina c'era un mobiletto bianco e sopra c'erano varie fotografie. Mi soffermai ad osservarle. Una raffigurava Dylan durante una partita di football, un'altra suo padre appena eletto sindaco della città abbracciato ad una donna che non avevo mai visto, ma che supponevo, dalla netta somiglianza con Dylan, che fosse sua mamma. Non riuscii a resistere e la presi in mano. Sentivo ancora dei movimenti al piano di sopra. Mi inginocchiai a terra. Quella donna aveva lo stesso colore di pelle del figlio, gli stessi piccoli occhi nocciola e lo stesso sorriso laterale un po' buffo. Quando girai la foto, in un angolo in basso c'era una piccola dedica, scritta a mano con un indelebile nero: 'Con grande dedizione e amore finalmente hai raggiunto il tuo sogno più grande, sono orgogliosa di te, mi amor.
-Cecilia'

Finalmente la mamma di Dylan assumeva anche un nome, uno splendido nome. Cecilia Garcetti.

Non glielo avevo mai chiesto, perché sapevo che era ancora una ferita aperta e non volevo ricordargliela. Ad un tratto sentii un colpo di tosse e mollai immediatamente il quadro che, quando colpì terra, il vetro si frantumò in mille pezzi. Scoppiai a piangere. In quei giorni non riuscivo a controllare le mie emozioni nemmeno un po'. "Scusa, scusami tantissimo..." dissi tra le lacrime al muro davanti a me, visto che non riuscivo a girarmi per guardare Dylan. "Non volevo romperlo, non era mia intenzione. È stato un errore, scusa." singhiozzai, guardando quei pezzettini di vetro a terra. Sembrava che il mondo mi volesse dare una metafora a cui associare la mia vita e forse l'avevo trovata. La mia vita era un caos di pezzettini di vetro.

Quando mi appoggiai a terra, sentii una mano sulla schiena. "Attenta, non farti male! Potresti avere dei pezzettini sotto le ginocchia." mi disse, cercando di alzarmi.

Appena fui in piedi davanti a lui, lo guardai in quegli occhi così simili a quelli della madre e gli chiesi scusa per la milionesima volta.

"Basta chiedermi scusa, anziché potresti andare in cucina a prendere una scopa, affinché possa pulire il pavimento." mi disse dolcemente, mentre mi accarezzava le braccia. Mi spostai e, attenta a non calpestare nessun pezzettino, raggiunsi la cucina in un batter d'occhio. Trovai la scopa appoggiata tra il muro e il frigorifero. Quando feci per ritornare dal ragazzo, mi accorsi di un sacchetto in mezzo al tavolo. Notai che c'era appoggiato un bigliettino, mi avvicinai e lo lessi: 'Croissant alla cioccolata, come ti piace!
-Nicole.' Finiva con una faccina felice disegnata a mano. Lo presi e lo portai a Dylan. "Credo sia per te." gli dissi, passandoglielo.

Annuì solamente e lo appoggiò sul mobiletto, poi si mise a pulire il disastro che avevo combinato. Una volta che finì di pulire, si infilò un paio di Vans e si diresse verso la macchina lasciando il croissant a casa. Credevo se lo fosse dimenticato, così glielo presi e lo portai in macchina.

Una volta saliti entrambi partimmo per la scuola. "Questo è tuo." gli dissi, passando il sacchetto. Lo rifiutò. "Non ho molta fame oggi. Se lo vuoi, puoi mangiarlo tu."

Aveva un odorino così invitante e, una volta aperto l'odore, si sparse per tutta la macchina. Sembrava così buono e appetitoso... "Davvero lo posso?"

"Certo, tanto io non lo mangio."

Aprii il sacchetto e afferrai il croissant. Ne spezzai un pezzettino e lo assaggiai. Era una vera e propria delizia! Ne diedi un altro morso e mi sporcai di cioccolata. "Non puoi non assaggiarlo, però!" gli dissi, mentre gli avvicinavo il dolce alle labbra e, nemmeno il tempo di finire la frase, che ne mangiò un bel pezzo. "Con questo non intendevo dire che dovevi mangiarmene più della metà!"

Sbuffò, mentre si leccava i baffi. Mentre finivo il croissant, calò il silenzio e i miei mille pensieri tornarono.

E come se potesse leggermi nella mente, mi disse: "Non ti preoccupare per il quadro. La foto non si è nemmeno piegata. È tutto okay. Vorrà dire che dovrò comprare una cornice nuova, va bene?"

Annuii lentamente, non del tutto convinta. "E la scritta di tua mamma?" chiesi.

"So che l'hai letta...potresti ricordarmi ciò che c'era scritto?"

"Con grande dedizione e amore finalmente hai raggiunto il tuo sogno più grande, sono orgogliosa di te, mi amor." feci una pausa per vedere la sua reazione, ma era solamente concentrato a guidare. Proseguii: "Poi si firmò."

"Cecilia." dicemmo in coro. Notai che stava sorridendo.

Sorrisi anch'io e stranamente iniziai a parlare. "Lo sai che conosco il nome di mio padre che, in realtà, è anche il mio secondo nome. Non chiedermi il motivo per cui mia mamma abbia fatto una cosa del genere perché non ne ho la più pallida idea. So solo che a volte penso sia un po' imbarazzante."

"O un po' romantico." Mi corresse.

"Mio padre si chiamava- o chiama, non lo so- Charlie ed era- o è- irlandese. Per questo ho i capelli rossi e gli occhi verdi." dissi quasi ridendo.

"Elaine Charlie Morgan, giusto?" disse lentamente, assaporando la nuova scoperta. "E tuo fratello, si chiama solo Ethan?"

Scossi la testa. "Si chiama Ethan Chris Morgan. Chris era il secondo grande amore di mia mamma e ha voluto donarglielo dopo la sua nascita, perché devi sapere che sono io quella nata prima."

"Non l'avrei mai detto."

Gli tirai una gomitata. "Ehi! Io, invece, credo si veda che sono più grande di due minuti!"

Scosse la testa ridendo. "Per niente, ladra! Tu sei quella immatura dei due, certamente non lui."

"Sai sei l'unica persona a cui l'abbia mai detto e già me ne sto pentendo, ti sembra giusto?"

Annuì tra le risate. "Sì, molto. Ma se tua mamma avesse amato un Calvin ti avrebbe chiamata così?"

Alzai le spalle. "Credo proprio di sì, ma che cos'hai contro il nome Calvin?"

"Significa piccolo calvo e con questo ho detto tutto. Per fortuna tua mamma ha amato un ragazzo chiamato Charlie e uno Chris. Sei stata parecchio fortunata!"

Risi, non ci avevo mai pensato ed era proprio vero. Gli chiesi il telefono e cercai il significato del mio nome. Elaine significava 'splendidamente solare' e Charlie significava 'libera e forte'. Quando lo dissi a Dylan, sorrise e disse che i miei nomi mi si addicevano in pieno. Cercai il suo e trovai che era un nome di origine gallese e che significava 'figlio del mare'. Quando glielo dissi, mi venne quasi da ridere, ricordandomi del giorno in cui scappammo da scuola per andare a nuotare al mare. Anche se era un bel ricordo, non ero più andata in spiaggia da allora. Volevo andarci per un motivo importante, come per pareggiare i ricordi e le emozioni di quel giorno.

Nel frattempo arrivammo a scuola, ci salutammo nel parcheggio e, quando entrai in classe, lo vidi. Ethan era in classe sul suo banco, sorridente come al solito, come se nulla fosse successo.

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