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29| broken

Quando mi asciugai le lacrime, i suoi occhi nocciola erano ancora sui miei. Le prime cose che mi vennero in mente furono quelle che dovevo smettere di piangere e non lasciarlo entrare ancora di più dentro il mio cuore.

Mi alzai di scatto dal letto, facendolo sobbalzare. Gli presi la mano e lo obbligai a seguirmi giù dalle scale. Spintonai delle persone per farci passare. Sentii anche gli occhi di Dawson pronti a studiarci, ma ormai non aveva più senso torturarmi così, visto che avevo trovato il modo per fermarlo: gli avevo ricordato di Nicole Edwards. Le mani di Dylan sulle mie mi davano una bella sensazione, ma fu totalmente distrutta quando delle voci si alzarono dalla cucina.

Dei ragazzi stavano urlando il mio nome. Corsi giù con più velocità. Quando entrai, mi ritrovai davanti mia nonna con in mano una torta enorme con su scritto sia il mio nome che quello di mio fratello gemello. Le altre persone erano tutte davanti ad applaudire e a filmare la scena. Mio fratello era al settimo cielo al solo pensiero di poter mangiare tutto quello zucchero. Fin da piccolo era stato un golosone e il giorno del compleanno era il suo preferito proprio perché c'erano sempre due torte da mangiare, una come piaceva a me e l'altra come piaceva a lui.

"Eccoti, finalmente, sorellina!" esclamò, appena mi vide. Lasciai di scatto la mano di Dylan e mi avvicinai a lui. "È l'ora della torta!" urlò ancora, poi mi prese di peso e mi spostò dietro al tavolo, davanti a tutti. Dylan si mischiò tra la folla.

Avere tutti quegli occhi davanti, fece aumentare il mio mal di testa. In più c'era anche la musica di sottofondo da discoteca ad un volume altissimo e, alla vista del cibo, la pancia iniziò a dirmi che forse non era proprio il caso di mangiare, sennò avrebbe rifiutato tutto.

Appena iniziarono a cantare la classica canzoncina, volevo solamente sotterrarmi, scomparire, scappare, ma i piani di mio fratello erano del tutto divergenti. Si mise a cantare anche lui e lo si poteva considerare il re degli stonati. Da un forte mal di testa, ora ero passata ad una fortissima emicrania.

Poi finalmente la canzoncina finì e soffiammo le quindici candeline insieme, poi urlai a mio fratello che me ne sarei andata. Non credevo avesse capito, ma esclamò che ora aveva più torta per sé con un sorriso sulle labbra. Annuii e uscii da quella stanza soffocante. Quando fui fuori, aspettai che mi raggiunse Dylan, per poi avviarci insieme nel mio giardino. La musica si sentiva ancora, ma fortunatamente meno di prima. Sospirai sorridendo.

"Libera?" mi chiese dopo un po'.

"Libera." decretai, sedendomi sul gradino che dava alla strada. Si accomodò vicino a me, alzando lo sguardo. Lo feci anch'io e dovevo dire che quella sera c'erano molte più stelle di ogni altra sera. Era come se le stelle fossero venute per augurarmi un buon compleanno, ma quasi subito abbassai il volto in preda all'emicrania e ad un doloroso mal di pancia.

"Se io ti chiedessi di andare da qualche parte, ora lo faresti? Ti ricordo che mi devi un regalo..." aggiunsi poco dopo.

"Pensavo che non ti importasse di uno stupido regalo di compleanno." affermò, rimuginando sulle sue azione.

Avevo fatto un passo falso, dovevo riuscire a rimediare. "Infatti, ma voglio andare da Jeff. Mi porteresti in moto? Sei l'unico che ha il patentino tra noi due." gli ricordai.

Sbuffò, ma si alzò e mi porse la mano. "Certo, ladra."

Sorrisi a quello stupido nomignolo che non sentivo pronunciare da mesi e dovevo dire che se all'inizio lo odiavo, ora mi mancava da morire. "Dillo di nuovo."

"Cosa?"

"Quello che mi hai appena detto."

Mi guardò come se fossi impazzita. "Certo, ladra... E con ciò?"

Sorrisi di nuovo. "Lascia perdere, figlio di papà...andiamo?"

Annuì e ci avviammo verso la sua moto, la sua amata Minerva.

Dopo una decina di minuti eravamo già davanti a quel portone malandato. Il viaggio era stato meraviglioso, perché avevo guidato io. Era da molto che non guidavo una moto, una Harley Davidson, perché Jeff non mi lasciava, diceva che non si fidava, pensava che gliela avrei potuta rompere. Non mi conosceva neanch'ora bene, evidentemente.

Bussammo al portone due volte, poi una terza e il vecchio ci aprì. Subito mi sorrise, poi mi guardò scioccato. Dylan non si faceva vedere da quando avevamo battezzato Minerva. Erano passati mesi ormai.

Abbracciai quell'uomo, poi presi una mano di Dylan e una di quel signore. Le avvicinai. "Fate pace." ordinai semplicemente.

Entrambi mi fissarono scioccati. "Cosa?" esclamarono in coro.

"Vedete, siete pure coordinati!"

Con un movimento veloce del polso Dylan tolse la sua mano dalla mia presa. "Non hai proprio capito niente, allora." disse mentre si allontanava.

Sarà stato l'alcool, ma mi arrabbiai subito. "Cosa non capisco, Dylan? Illuminami!"

"Non abbiamo litigato, cavolo!" urlò, sbattendo le mani sui fianchi. "Io e Jeff non abbiamo mai litigato, Elaine. Non dobbiamo fare la pace!"

Guardai verso quel povero signore che abbassò lo sguardo, appena incrociò i miei occhi. "Impossibile!" dissi a voce alta. "Non vi parlate da mesi! Avete qualcosa che bolle sulla pentola!"

"Se è per questo anche noi due!" proruppe, dopo essersi passato entrambe le mani sui capelli, arruffandoli ancora di più.

"Hai ragione, ma non ti ho portato qui per parlare di noi. Ti ho portato qui per aggiustare il tuo rapporto con Jeff!"

Camminò avanti e indietro fino a quando non riuscii a vedere un solco nel terreno, o forse quelli erano solo gli effetti dell'alcool. "Stai fermo!" urlai, infastidita da quel movimento continuo. Si stoppò subito, quando sentii la mia voce. Si voltò e si incamminò verso di me.

"Non c'è nulla da aggiustare. Non siamo rotti!" disse in un sussurro mordace.

Feci dei passi indietro, fino a raggiungere quel lato di muro coperto solo da un poster di una donna in moto. Lo strappai e, ancora i pezzetti di carta in mano, dichiarai: "Guarda qui e non dirmi che non siete rotti! In questo mondo non c'è una singola persona che non sia rotta e noi siamo i più rotti, sappiatelo!"

Appena scoprii quelle tre semplici firme, gli occhi di Dylan si riempirono di lacrime e mi ricordarono com'ero io semplicemente una mezz'oretta prima. Mi sentii uno schifo. Cosa volevo ottenere mostrandogli ciò che aveva perso? Forse ciò che aveva? Non lo sapevo ancora in quel momento. Volevo solo avere ragione.

Con gli occhi ancora zampillanti di lacrime si avvicinò a quelle scritte, ci passò una mano sopra e mi guardò. "Complimenti. Hai ottenuto ciò che volevi. Hai ragione, hai pienamente ragione, Elaine Morgan. Non sei l'unica rotta, lo siamo tutti. Io, te, Jeff! E perché no, anche tuo fratello, Stephanie!"

"E adesso cosa c'entra mio fratello in tutto ciò?" domandai erompente.

"Se non fossi così assorta a risolvere questo rebus, ti saresti anche resa conto che tuo fratello stasera si è ubriacato e ha fumato dell'erba perché è esattamente come te, ma lui non ha nessuno con cui sfogarsi, visto che tu lo hai completamente abbandonato nel giorno in cui sente maggiormente la mancanza di vostra madre, proprio come te, unicamente per ripristinare i rapporti tra me e Jeff. Be', sappi di aver sprecato tempo e il rapporto con tuo fratello, perché è più difficile di una stretta di mano tutta questa situazione."

In quel momento tutto mi apparve sfocarsi, come se il garage fosse riempito di mille bolle di sapone, una sopra l'altra che mano a mano si addensavano, restringendo la stanza a sua volta, fino ad essermi completamente addosso. E poi caddi su un materasso soffice che non esplose anche se fatto anch'esso di bolle di sapone. Una volta abituata a quella sensazione, chiusi lentamente entrambi gli occhi e mi lasciai soffocare da quel materasso molle e gradevole.

Quando aprii gli occhi fu come sentire un pugno allo stomaco fortissimo. Avevo un senso di nausea assurdo e non riuscivo nemmeno ad aprire le palpebre da quanto ero stanca.

Vomitai, su un secchio che trovai subito tra le mie mani, senza nemmeno doverlo cercare. Non mi preoccupai nemmeno di sporcare i capelli, l'unica cosa che mi importava in quel momento era buttare fuori tutto quello che avevo tenuto nello stomaco quel giorno e quello prima e quello precedente ancora. Una volta che sentii che avevo svuotato quel serbatoio che era il mio stomaco, mi girai di lato su quel soffice materasso di bolle di sapone. E, con le mani ancora sullo stomaco, mi rilassai, per poi addormentarmi di nuovo.

Il mattino dopo quando mi svegliai, sentii una mano dolce che mi toccava i capelli. Mi sentii a casa tra le braccia della mamma, cullata dal suo movimento lento e costante, mentre mi diceva che sarei tornata a sorridere presto, il male se ne sarebbe andato di lì a poco, bastava solo che ci credessi. Così lo feci.

Tornai a sorridere.

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