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12| minerva

Passò una settimana da quando avevo scritto quella lista di cose da fare e non avevo ancora completato nessun punto, anche se con Ethan si iniziavano a vedere dei miglioramenti. Ogni tanto mi sforzavo addirittura di chiedergli cosa avesse fatto a lezione o se gli mancasse Rocco.

Comunque i giorni passavano con monotonia. La mattina salivamo in macchina e nessuno parlava, poi andavamo a lezione e a mensa ci ritrovavamo io e Ethan a fumare dietro in giardino. Dopo il pranzo ero obbligata ad andare in biblioteca dal mio tutor privato e ripassare insieme certe materie. Ormai Dylan si era arreso al fatto che io volessi seguire le lezioni di livello intermedio e non quelle base, infatti portava sempre i libri giusti già da un po'. Le sue spiegazioni erano noiose, ma mi divertivo ad infastidirlo, finora non era mai esploso di rabbia e non mi aveva mai sgridato né urlato contro. La parentesi sulla mia lista l'avevo scritta apposta per lui. Amavo essere egocentrica con lui.

"Possiamo passare ad altro e saltare la mezz'ora di algebra di oggi?" gli chiesi giocando con la matita.

"È già la sesta volta che me lo chiedi. Puoi smetterla, per favore?" mi rispose pacato.

"Non ho voglia di fare ripetizione. Non possiamo fare altro e far finta di aver fatto la lezione di oggi? D'altronde, la preside è tua mamma, puoi mentirle per una volta, no?"

Iniziò a prendere i libri e metterli nello zaino e poi se lo mise nelle spalle. Non capivo ciò che volesse fare. Lo guardai con un sopracciglio alzato e restai impalata sulla sedia. Mi guardò serio e iniziò a camminare verso l'uscita di sicurezza della biblioteca. Mi voleva lasciare sola davanti a tutti quegli studenti che lo stavano osservando, che ci stavano osservando. Forse pensavano fosse una litigata tra una coppia, ma noi non stavamo litigando né eravamo una coppia.

Appena appoggiò una mano sul maniglione, girò lo sguardo verso di me e mi chiese: "Cosa fai là impalata? Vuoi andartene, o no?"

Quanto avrei voluto urlare al mondo che me ne volevo andare, ma mi alzai e gli corso incontro e basta. Quando arrivai vicino a lui sorrisi. "Dove andiamo?"

Alzò le spalle. "Ovunque, ma non qui."

Mi bastava questa risposta perché era quella che aspettavo da sempre. Quando uscimmo da scuola, riuscimmo a scappare senza farci vedere, o almeno così credevo quel pomeriggio.

Quando fummo in parcheggio mi opposi a Dylan che voleva andare in moto, ma il problema non era quello: era il fatto che voleva guidare lui, cosa che volevo fare io, di certo. "Mi hai vista guidare! Sono brava! Non ho fatto un graffio a questa bellezza."

"Appunto perché ti ho visto non voglio lasciarti guidare la mia moto. Non vorrei che facessi un incidente a quelle velocità!"

"Eravamo andati pure lenti. Non è che hai paura di superare il limite della velocità consentita? Sei un fifone, figlio di papà?"

Incrociò le braccia al petto. "Non lo sono, solamente non voglio che mi distruggi la mia moto."

"Aspetta... questa moto non ha un nome?" gli chiesi cambiando argomento per distrarlo.

"No, e allora? L'ho comprata solo da un paio di settimane..."

"Questa non è una scusa, Dylan!"

"E allora cosa suggeriresti, ladra di moto?"

Ci ragionai su per un paio di minuti, poi gli risposi mentre la accarezzavo. "Diabla? Rocky? Red?"

"No, ti prego. E poi chi ti dice che è una femmina?" mi chiese.

"Perché tutte le moto sono femmine, invece le auto sono maschi...o almeno così diceva Rocco" dissi sussurrando l'ultima parte.

Mi guardo in modo inquisitorio. Lo sapevo che voleva chiedermi chi fosse, ma gli proposi un altro nome per distogliere l'attenzione dalle mie parole precedenti. "Minerva?"

"Mitologia romana, eh? Dea della guerra e della saggezza...mi piace!" affermò sorridente. Poi si appoggiò vicino alla moto, la accarezzò vicino al punto dove tenevo la mia mano e sussurrò quel nome più volte per farselo piacere.

Quando vidi che le sue dita erano ormai vicine alle mie, mi alzai di scatto. "Visto che ho trovato io il suo nome, indubbiamente ho anche il diritto di guidarla, quindi partiamo?"

Alzò gli occhi al cielo. "Sei proprio incredibile!" ironizzò.

"Lo so, figlio di papà."

Mi fece sedere sulla sella e si mise dietro di me. Appoggiai le mani sul manubrio. Feci aderire le dita sui cuscinetti e mi sembrò che fosse la prima volta che la guidassi, ma ovviamente non era così. L'avevo presa in prestito settimane fa e mi era piaciuto, tanto. Accesi il motore e Dylan si strinse a me. Le sue braccia erano intorno alla mia vita e, stranamente da ciò che si possa pensare, non mi sentivo a disagio.

Partimmo e al ragazzo non bastò un secondo per dirmi di rallentare, ma, come sempre, non lo ascoltai. Entrai in una strada molto trafficata e quando ci fu la possibilità di scegliere che strada prendere, dovetti chiedergli indicazioni.

"Prendi la strada a destra continuando tutta dritta per un po', poi gira a sinistra. Infine ti dirò io dove parcheggiare" mi spiegò. Feci esattamente come mi aveva detto.

Ci trovavamo in periferia in una via molto lunga piena di negozi abbastanza costosi e Dylan mi fece parcheggiare davanti a un garage rosso, con la pittura che si stava scrostando vicino una piccola porta con una tenda a frange colorate. Il garage era chiuso. Dopo essere scesi dalla moto, il ragazzo si incamminò verso il garage e, al posto di suonare il campanello o bussare alla porta aperta, bussò al garage rosso per due volte e poi una terza. "Sono io, Dylan, per la Harley del '97!" esclamò.

Si sentirono dei rumori provenire dall'interno e poi il garage man mano si aprì. Spuntò una figura grande e possente. Era un uomo molto robusto verso la sessantina, calvo, con una lunga barba bionda. Aveva le braccia ricoperte di tatuaggi e le mani piene di anelli. Aveva uno sguardo non molto rassicurante, era accigliato e sembrava irritato dal fatto che Dylan l'avesse disturbato. Una volta dopo essersi reso conto che c'ero anch'io davanti al suo garage, fece una cosa che mi sorprese. Mi sorrise mostrandomi tutti i suoi denti storti e sporchi. Gli sorrisi di ricambio per cortesia. Mi si avvicinò. "Sono Jefferson Blake III" mi disse porgendomi la mano. "Ma per gli amici Blue Shadow, ma visto che non siamo amici non mi puoi chiamare così, ragazzina, capito?!" aggiunse ritornando accigliato. Sembrava mi volesse incenerire.

Ritirai leggermente la mia mano, un po' impaurita.

"Jeff! Trattala bene!" esclamò Dylan, sgridandolo.

Quel signore lo guardò storto, poi scoppiò in una fragorosa risata. "Ci credevi davvero alla recita dell'anziano cattivo? Dylan, questa volta lo scherzo è proprio venuto!" disse fra le risate. Il ragazzo rise anche lui.

Li guardai contrariata e incrociai le braccia.

"Comunque, io sono Jeff. Per favore non chiamarmi Blue Shadow, perché è una lunga storia che non ti racconterò questa volta perché sono un po' stanco ed è meglio non saperla."

"Piacere, io sono Elaine" dissi rivolgendogli la mano, ma non me la prese. Mi strinse in un abbraccio, invece, e fu un po' imbarazzante. Dylan se la rideva sotto i baffi.

"Come mai un nome francese, se sei dal Texas, ragazzina?" mi chiese.

"Come hai fatto a capire che vengo dal Texas?"

Rise. "Facile, perché anch'io vengo dal deserto texano con le balle di paglia che rotolano vicino ai piedi e i serpenti che frusciano fra i fili d'erba secchi."

"L'accento del sud, ladra!" esclamò Dylan.

Alzai gli occhi al cielo. "Comunque, Jeff, non sapevo che il mio nome fosse francese, quindi non saprei dirti perché mia mamma lo scelse."

Il vecchio ci disse che potevamo entrare e rivolto a me disse che non mi avrebbe mangiata. Lo sapevo, non ero sciocca né avevo paura di lui.

Quando entrammo mi resi conto che non era un semplice garage, era un'officina di moto. Era un meccanico, ecco perché Dylan mi aveva portata qui.

"Jeff, oggi l'abbiamo fatto finalmente" annunciò Dylan.

"Ce ne è voluto di tempo! Allora qual è il nome della tua bellezza?" chiese rovistando dentro un cassetto pieno di etichette di tutti i tipi- grandi, piccole, colorate o in bianco e nero. "Dopo un anno e mezzo, finalmente glielo hai trovato. Te ne è voluto di tempo, Dylan."

Mi girai di colpo verso di lui. Un anno e mezzo? Pensavo l'avesse appena comprata. Il ragazzo non si girò a guardarmi, anche se sapevo che sentiva il mio sguardo gravare sulla sua coscienza.

"Allora, qual è il nome?" chiese scocciato il vecchio.

"Minerva" disse velocemente.

"Vediamo se trovo qualcosa..." disse ancora rovistando nel cassetto.

Dopo un paio di secondi tirò fuori già un adesivo perfetto. Era trasparente con la scritta 'Minerva' in corsivo rosso e nero. A lato c'era un fiorellino rosso, con ricami bianchi, in stile hawaiano. "Ecco qua! L'adesivo per la tua Harley non più senza nome!"

Uscì dal garage e la portò fin dentro alla struttura. Poi la caricò su dei ganci per tenerla rialzata. "Allora Dylan dove lo vuoi attaccare?"

"Non lo attaccherò io, ma Elaine è stata lei a darle il nome, quindi deve attaccare lei l'adesivo" disse convinto e rivolgendo l'attenzione di tutti verso di me. Andai sicura da Jeff e gli dissi di attaccarlo nel telaio vicino all'adesivo della Harley-Davidson Motor Company.

"E' stupenda!" dissi d'istinto.

Dylan annuì con Jeff al suo fianco che mi guardavano.

"E tu che non volevi più prenderla dopo la morte di Eli, che cavolata! È la creatura più bella al mondo!" esclamò sorridente il vecchio rivolto al ragazzo che d'un tratto si fece più cupo. Dylan annuì vicino a lui quando gli diede una pacca sulla spalla, poi tolse la moto dai ganci. "Noi dobbiamo andare, Jeff."

Mi avvicinai al mio accompagnatore, ma vidi il volto del vecchio ritornare quello che mi aveva spaventato. "Dylan, la vita non è aspettare che passino le tempeste: si tratta di imparare a guidare sotto la pioggia! Ricordatelo sempre!"

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