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09| lunch with guests

Dylan mi lasciò in mezzo alla strada che divideva le nostre case.

Dopo qualche minuto mi decisi ad entrare. Le luci in casa erano tutte spente, tranne quella della cucina, ma forse era una loro abitudine. Quando fui in cucina trovai mio nonno sul sofà mentre leggeva il suo solito giornale.

"Perché non sei a letto?" gli domandai, prendendo un bicchiere d'acqua.

"Perché Maureen voleva che ti aspettassi tornare a casa" mi rispose piegando il giornale in quattro e appoggiandolo sulle cosce.

"Poteva aspettarmi lei, non tu."

"Ti ha aspettato, Elaine. È rimasta ad aspettarti fino a pochi minuti fa e quando ti ha vista sulla strada ha deciso di andare a dormire, perché se l'avessi trovata saresti uscita di nuovo...così eccomi qui."

Non aveva tutti i torti. Se l'avessi vista, me ne sarei andata sbattendo la porta.

"Quindi ora che sei tornata, e non vuoi scappare, vado a dormire perché ho una certa età e un certo bisogno di dormire almeno otto ore a notte. A domani" mi disse alzandosi, appoggiando il giornale sul tavolo e rivolgendomi un segno del capo. Misi il bicchiere nel lavandino e salii le scale. Quando raggiunsi camera mia, sentii la pallina da tennis di mio fratello sbattere sulla parete. Una, due, tre, quattro volte, a ripetizioni statiche. Mi infilai il pigiama e mi addormentai seguendo il ritmo di quel movimento che non si stoppò finché non serrai gli occhi e la mente.

Il mattino seguente era domenica, ciò voleva dire niente scuola e questo significava dover passare tutta la mattina con i nonni. Non esisteva punizione peggiore. Da quel momento iniziai a odiare la domenica, più del lunedì. Quella mattina ci obbligarono ad andare alla messa con loro e, dopo esserci vestiti bene, ci recammo in chiesa. Nella chiesa della parrocchia c'era praticamente tutta la mia scuola. Notai Dawson Gregg in prima fila con sua mamma e suo papà, Stephanie un paio di panche dietro e vicino alla sua famiglia c'era quella di Dylan che era composta dal padre, il fratello maggiore e la matrigna, la signorina Edwards. Erano tutti sorridenti. Il resto delle panche erano occupate da altre famiglie delle quali non conoscevo i figli, o magari me li ricordavo solo di vista.

Alla fine della celebrazione io e Ethan sgattaiolammo fuori e ci mettemmo a fumare dietro la grande struttura. Non avevamo ancora fatto pace dalla litigata della sera precedente, né io ne avevo l'intenzione, ma d'altro canto eravamo nella stessa barca, o meglio nella stessa situazione. Il pacchetto era ancora quello di Rocco, anche se le sigarette non avevo idea se fossero le sue, forse Ethan le aveva finite e sostituite con altre. Mi grattava ancora la gola quando fumavo, ma non volevo fermarmi, preferivo farmi del male. Lo sapevo che una volta iniziato non sarei più riuscita a fermarmi. Anche mia mamma aveva iniziato a fumare da piccola e ancora non riusciva a smettere, anche se non fumava più quanto una volta. Di sicuro meno di quanto ci raccontava che fumasse con Chris, il suo secondo grande amore.

Dopo qualche minuto che eravamo fuori a fumare, sentimmo dei passi raggiungerci e buttai le due sigarette a terra e le spensi. Ed Ethan infilò il pacchetto e l'accendino nella tasca dei pantaloni. Dylan spuntò dall'angolo e non sembrava nemmeno essersi accorto di noi quando, dopo qualche istante, lo raggiunse Stephanie. Sembravano avere un'aria malinconica e triste. Speravo non si mettessero a fare cose sconce davanti a noi, allora tossii e quando ci videro i loro visi cambiarono totalmente. La ragazza voleva prendere parola, ma Dylan la bloccò e parlò per primo. "Posso una sigaretta?" La sua domanda mi colse di sorpresa, a tal punto che per i primi istanti non sapevo che cosa fare. Ethan prese il pacchetto e gliene passò una. Il ragazzo gli chiese anche l'accendino, perché come si poteva immaginare, non se lo portava via. Si avvicinarono e mio fratello gli accese la sigaretta. Stephanie sembrava scioccata al fatto che Dylan sapesse fumare e non sembrava nemmeno un principiante, come lo ero io.

"Non lo dirai a Maureen e a Bernie, vero?" gli chiesi sulla difensiva.

Ci assicurò che non lo avrebbe detto se noi non l'avessimo detto a suo padre. Avevamo stretto un patto, il primo di tanti. Poi sentimmo una voce chiamare i nostri nomi e, dopo che Stephanie se ne andò, Dylan buttò la sigaretta in un cestino. Poi ritornammo dalle nostre rispettive famiglie che evidentemente stavano parlando tra loro. Erano tutto un sorriso e quando arrivammo da loro Maureen esclamò: "Abbiamo invitato i Garcetti a pranzo, che ne dite?" Poi aggiunse sussurrando nelle mie orecchie: "Non puoi rifiutarti né scappare."

Incrociai le braccia al petto. Odiavo dover stare alle regole di qualcun altro e lei lo sapeva perfettamente. Guardai verso Ethan, ma non mi diede nessuna occhiata particolare. Dylan, per un momento, mi era sembrato contrariato come me, ma subito si era ricomposto vicino a suo padre.

"Che bello rivederti, Elaine" aggiunse la preside dopo un po'.

Non mi sforzai nemmeno di fingere che il mio finto sorriso non fosse così falso. Per spezzare quel silenzio imbarazzante Maureen disse che io e lei dovevamo andare a casa subito per preparare la tavola e il pranzo. Quando fummo in macchina le chiesi se avesse detto che dovevamo andare io e lei solo perché pensava che cucinare e preparare la tavola fossero cose che facevano solo le donne, perché se fosse stato per quel motivo allora mi sarei rifiutata di farlo. "Elaine, non ho chiesto di venire a tuo fratello solo perché lui è più calmo di te e se tu fossi rimasta lì per qualche altro minuto avresti scatenato la terza guerra mondiale con la signora Garcetti."

Signora Garcetti. Non avevo sentito nessuno rivolgersi a lei con quelle parole e faceva uno strano effetto ora che sapevo ciò che era successo, o almeno credevo di saperlo.

"Sono felice che si notassero così tanto le mie intenzioni" le risposi.

Sospirò sfinita.

Quando arrivammo a casa, la aiutai effettivamente. A casa ero abituata a fare i lavori domestici con mamma o con Cassie, specialmente perché io e Ethan non avevamo un papà che ci potesse aiutare a casa. In realtà, com'è logico che sia, ce l'avevamo e mamma non ce l'aveva mai nascosto, solamente non ci voleva e non ci aveva mai voluto. Charlie era stato il suo primo grande amore e anche quello più deludente.

Dopo un'oretta arrivarono anche tutti gli altri. Io e Maureen avevamo preparato una tavola stupenda, aveva un servizio meraviglioso, ma ovviamente non glielo avevo detto. Io mi sedetti accanto ad Ethan che non mi disse una parola, vicino a lui c'era il fratello di Dylan, che scoprii si chiamasse Anthony. A capotavola c'era il papà di Dylan, Eric Garcetti, il sindaco, e a lato c'era Nicole Edwards, la preside, e vicino Dylan. Di fronte a me c'era Bernie e Maureen all'altro posto d'onore.

Come fu portato il primo pasto, iniziarono le chiacchiere.

"Allora, Anthony, come va all'università?" chiese la nonna spezzando il silenzio.

"Va tutto molto bene. La Columbia è proprio come la descrivono, fantastica." Anthony era la fotocopia di Dylan, solo di un paio d'anni più vecchio. Avevano la stessa forma del viso e degli occhi. I capelli erano un po' diversi, Dylan ce li aveva perfettamente lisci, invece il fratello li aveva ricci. In più Dylan era più muscoloso del fratello e aveva le spalle più larghe.

"Non potevo che immaginarmela così! Poi il weekend posso sempre tornare a casa e anche questo mi ha spinto a sceglierla." aggiunse subito dopo.

"Perché, Maureen, devi sapere che nostro figlio ha vinto ben venticinque borse di studio per diverse università e dopo una lunga selezione siamo arrivati alla conclusione che Stanford era la migliore tra quelle." prese parola il sindaco.

"E abbiamo fatto proprio una bella scelta quella volta!" disse Anthony.

Spostai lo sguardo tra Dylan e il fratello più volte. Uno sembrava più felice dell'altro, anzi Dylan sembrava seccato dalle loro parole e quando il padre disse che si aspettava lo stesso dal figlio minore, il ragazzo roteò gli occhi infastidito continuando a mangiare.

"Poi sarà lui a scegliere in quale università andare, ovviamente" lo corresse la signora Edwards. Dylan si girò verso la matrigna e la fulminò. Sentivo la tensione fra di loro come se fosse stata di un gas pesante.

"E voi cosa pensate di fare dopo le scuole superiori?" ci chiese Eric, il sindaco.

"Con calma. A mala pena so ciò che voglio fare domani, ma non credo che andremo all'università" dissi. Sembrarono tutti scioccati dalla mia risposta, pure la nonna.

Allora Ethan intervenne. "Mia sorella intendeva dire che non ci abbiamo ancora pensato a ciò che faremo dopo le superiori, perché, se non mi sbaglio, la vita può cambiare tutta d'un tratto o da un viaggio in auto, o no?" disse lanciando una frecciatina ai nonni che la colsero fin da subito. Amavo mio fratello quando si comportava così. Era micidiale e inaspettato. Lui agiva dopo averci pensato su, invece, io prima agivo e poi pensavo a ciò che avevo combinato. Era sempre stato così.

"Giusto...e come vi trovate qui?" domandò sperando di farci una domanda nella nostra comfort-zone, ma non era esattamente così.

"Siamo qui solo da pochi giorni, ma credo che entrambi possiamo dire che ci piaccia molto di più il Texas" risposi.

"Avevo notato lo stretto accento del sud, in effetti. E com'è? Ci sono i cowboy e gli indiani come dicono?" chiese l'universitario.

"Studi a Stanford, ma credi a tutto ciò che ti dicono" sopraggiunse Dylan. Il fratello non aspettò un attimo per tirargli una patatina in faccia. Ci fu un attimo di silenzio, poi scoppiai in una fragorosa risata. Non avevo mai riso così tanto. La situazione era ridicola e avevo ancora un sorriso stampato in viso. E anche tutti gli altri si aggiunsero alle mie risate, il primo a farlo fu Dylan. E notai che aveva un sorriso dolce e vivace.

Poi la nonna portò il secondo.

"Com'era là? Intendo, in Texas" ci chiese la preside in un tono che non avevo ancora sentito da lei, sembrava quasi affettuosa.

Guardai Ethan che continuò a mangiare. Evidentemente non voleva rispondere, così lo feci io. "Là, in Texas, era tutto tranquillo. Non c'erano macchine che intasavano le strade né persone in tutti gli angoli della città, anzi era tutto così deserto e solitario. Si stava in pace dodici mesi su dodici. In più, tutte le mattine, il cielo era limpido e l'aria pulita. Il sole certamente bruciava fin dalle prime ore, ma ero così abituata che a volte mi dimenticavo addirittura della crema solare e a fine giornata ero un peperone dalla testa ai piedi. E la mamma non mi sgridava per essermelo dimenticata, rideva solamente e mi metteva la crema magica, o almeno lei la chiamava così. In più noi abitavamo in un piccolo paesino in cui c'erano veramente poche roulotte e pochi abitanti. E i vicini distavano circa duecento, cinquecento metri. Tranne Cameron, ovviamente"

Tutti sembravano così rapiti dal mio discorso che mi ero dimenticata del motivo per cui l'avevo iniziato e quando mi fermai l'unica che osò ad aprire bocca fu Maureen. "Chi è Cameron?" chiese delicatamente.

Mi resi conto di ciò che potevo aver combinato, quando anche Ethan alzò la testa di scatto. "Nessuno" aggiunsi subito dopo. L'avevano visto, ma forse non lo avevano collegato al fatto che anche lui potesse essere figlio di due tossico-dipendenti, o meglio dello spacciatore della mamma. 

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