Vorrei, vorrei
Sono le 2:40 di notte quando Simone spalanca gli occhi. Non che il sonno l'abbia avvolto in maniera profonda, anzi, tutto il contrario, quindi svegliarsi di soprassalto non è per niente una novità.
Ha la gola secca e la testa gli pulsa - manco quella è una novità. Per quanto abbia atteso e aspettato con pazienza, il braccio destro non ha ripreso sensibilità alla perfezione, riesce a muoverlo a stento, ma paradossalmente non è in grado manco di sostenere il peso dello spazzolino da denti.
Lo sa che Manuel se ne è accorto - sarebbe stato impossibile il contrario - per tal motivo, nell'ultima settimana, il compagno ha fatto in pratica tutto al proprio posto, pure le azioni più banali e quotidiane. Ne è grato, ma anche - triste, a riguardo.
Perché non dovrebbe funzionare così tra di loro.
Ad ogni modo, nota che l'altro ragazzo ha gli occhi chiusi, presuppone stia dormendo e tira un sospiro di sollievo per ciò. Lo ha notato che, la maggior parte delle volte, Manuel rimane sveglio e vigile, a guardarlo e basta. Se ne accorge perché lo sente, mentre gli sistema le coperte o gli accarezza una guancia.
Sa, dunque, che passa la maggior parte del tempo a restare sveglio, invece di dormire, soltanto per osservarlo, per vegliare su di lui. E manco questo è giusto.
Simone si alza dal letto con movimenti stentati, che vanno un briciolo a scatti. Deve trascinare letteralmente il proprio corpo fuori dal piumone azzurro, tirando quel braccio destro che ha smesso di rispondere ai comandi del cervello.
Vuole solo andare in cucina e recuperare un bicchiere d'acqua, nulla di più. Una cosa semplice.
Compie un paio di passi, ma non è nemmeno arrivato alla porta quando percepisce la gamba destra cedere, non reggere più il proprio peso. È allora che perde l'equilibrio e cade fragorosamente a terra, battendo forte un gomito e cacciando un lamento.
«Cazzo» soffoca, a pancia in giù sulle mattonelle ghiacciate. «Cazzo». Cerca di rialzarsi, ma è un'intenzione vana: nonostante gli sforzi, non riesce a muoversi più di tanto e il dannato braccio destro non collabora.
«Oh, Simò!».
Ecco. Non è nemmeno riuscito a non svegliare Manuel, che già è scattato fuori dal letto e gli è accanto. E Simone pensa solo a quanto non sia stato in grado di lasciarlo riposare e che la propria condizione stia consumando pure lui, non permettendogli neppure dormire in pace - che voleva solo prendersi un cavolo di bicchiere d'acqua e invece ha combinato un casino, come al solito.
È una delle ragioni per cui fatica ad accettare l'aiuto del compagno, quasi gli impedisce di offrirgli supporto a rimettersi in piedi – che poi non ci riuscirebbe sul serio.
Quindi il massimo che gli permette è di portarlo seduto, con la schiena premuta contro lo stipite della porta. Manuel gli si inginocchia di fianco, posando delicatamente una mano sulla sua spalla.
«È tutto okay, Simò» prova a rassicurarlo.
Ma Simone scuote il capo, gli occhi già gli pizzicano e delle lacrime gli scivolano lungo le guance. Non vuole guardare l'altro in faccia, non ce la fa.
«Non è... Non è tutto okay» biascica «Non lo è». Fa ancora cenno di no con la testa.
«T'ho detto che se hai bisogno di qualcosa, me lo devi dì e ci vado io, mh?» Manuel insiste.
Insiste sempre, per ogni cosa. Simone questo lo sa ed è un particolare che lo fa arrabbiare. E allora «Non devi, non...» singhiozza «Non è giusto, non devi st...». Si interrompe, un po' perché ha il magone, un po' perché, di nuovo, le parole gli sfuggono.
«Non dovresti rimanere» riprende e ora fa incrociare i loro sguardi. «Ti sto con- ti sto consumando e non è giusto ed è colpa... Colpa mia».
«Simo, non...».
«È colpa mia se non dormi, è colpa mia se non – non ci stai andando all'università perché m-mi... Perché vieni con me in ospedale, è colpa mia se non... Se ti... Tu ti consumi per col... Per me. E non è – non è giusto».
In un primo attimo, Manuel rimane in silenzio, lo lascia parlare. Strofina un palmo sul suo braccio sinistro, nel tentativo di scaldarlo – perché, sebbene sia dicembre – Simone si ostina a dormire con solo una t-shirt bianca e leggera, mentre dovrebbe mettere una felpa.
«Simò, sò in pratica le tre di notte» attesta, dopo «E tu stai delirando. Torniamo a letto, mh?».
Ma Simone a letto non ci vuole tornare. Ha iniziato pure a tremare.
Ci sono troppe consapevolezze che gli stanno piovendo addosso, un impatto con la realtà che ogni giorno diviene più evidente, che gli viene sbattuto in faccia. E il fatto che stia costringendo chi gli sta intorno a subire lo stesso, semplicemente lo dilania.
«No» biascica «No, tu devi – devi promettermi una cosa».
Manuel si morde piano il labbro inferiore. Sì, sono quasi le tre di notte, Simone è agitato, scosso, di sicuro manco sta ragionando in maniera lucida perché è spaventato, è atterrito da ogni cosa.
Lo sa perfettamente, glielo legge negli occhi grandi e scuri che lo stanno fissando pur in assenza di luce nella stanza. «Cosa?» mormora, con un filo di voce. Glielo chiede, nonostante sappia dove potrebbe mai finire quel discorso. «Che ti devo promettere?».
Simone tira su col naso, il petto gli sussulta. «Che dopo, d- tu dopo di me, tu... Tu sarai felice, che tu t-ti prendi la laurea e che ti – che sposi una bella ragazza e che tu...».
A tal punto, Manuel lo blocca: «Smettila, okay? 'Sti discorsi del cazzo non li vojo sentì».
«Non sono – non sono discorsi del cazzo».
«Sì, sì che lo sono. Sò discorsi der cazzo e non li voglio sentì» alza un briciolo il tono di voce. Di solito non lo fa mai, non con lui, non in quel periodo, non dopo l'ultima lite che hanno avuto. Tuttavia, in quell'istante non riesce a trattenersi. «Non c'ho bisogno d'esse felice dopo, intesi?» aggiunge «Perché la mia felicità è adesso, perché la mia felicità sei tu, Simò».
Simone cerca di riprendere un briciolo di controllo sul proprio respiro, per quanto difficile risulti. Ha la vista appannata, ha freddo. «La felicità è – un concetto relativo, Manuel» mormora, con voce rauca. «Io non s-sono la tua e tu... Prima di incontrarmi lo sei stato e dopo – tu dopo avermi perso, lo sarai di nuovo. È – funziona così. Per quanto ci aggrappiamo all'idea che d – che possa dipendere unicamente da una sola – persona, è... La realtà è un'altra».
Fa una breve pausa, mandando giù a fatica della saliva. «E mi piace pensare che – che per un po' io te l'ho donata, mh? La felicità. Ma dopo di me, ti... Ne verrà altra ed è questo – questo è l'importante».
Quell'argomento non lo hanno mai toccato. Non è stata una decisione presa e fatta, piuttosto un accordo silenzioso di non pensare al dopo, ad una fine di loro due.
Non ne hanno mai parlato perché, ogni volta che il discorso veniva fuori, Manuel si preoccupava subito di deviarlo, di essere ottimista pensando ai progetti futuri: a loro che vanno all'università, a loro che prendono una casa in affitto con il terrazzo e adottano tre gatti, chiamandoli Alpha, Beta e Gamma, a loro che viaggiano in giro per il mondo per riempire il frigorifero di altre calamite, di metterne così tante da non avere più posto.
Perché Manuel ne ha fatti mille di progetti sul futuro e nessuno di essi comprende l'assenza di Simone.
«Che vor dì?» dice e, per quanto si sforzi di essere calmo e pacato, la voce che gli si spezza in gola lo tradisce. «Tutto 'sto discorso del cazzo per dirmi che devo andà avanti». Scuote il capo e si passa una mano sul volto. «E se io non voglio? Se - se dico che dopo di te, per me non ce sta niente? Che non ce stava niente manco prima?». Non vuole piangere, ma non può controllarla quella singola lacrima che gli bagna una guancia. Ringrazia il fatto che sia buio e che, magari, l'altro ragazzo non riesca a vederla.
«Io, prima, non ero felice» prosegue «Non lo sò mai stato, non prima de conoscerte. M'illudevo d'esserlo». Fa una breve pausa e adesso una mano la allunga, va a posarsi sul lato del collo del compagno e percepisce la sua pelle ghiacciata sotto le dita. «Mi sò illuso co' Chicca, l'ho fatto persino co' Alice perché ero uno stupido. Ma io sò stato felice solo co' te».
Annuisce alle proprie parole e si sporge in avanti per avere i loro due visi più vicini, per sentire il suo respiro che gli accarezza le guance, poiché in quel momento ne ha bisogno. Ha bisogno di sentirlo respirare.
«Sò felice da quando ce stai tu attorno a me» sussurra «Quindi non me dire che sarò felice dopo di te e senza di te perché nun ce credo. Io non esisto manco senza di te».
Simone pensa che, probabilmente, una coltellata dritta nel petto gli avrebbe fatto meno male. Avrebbe fatto meno male ad entrambi. Voleva soltanto assicurarsi del suo benessere e invece ha fatto peggio e lo ha lacerato ancor di più.
Cerca di aggrapparsi a lui, all'avambraccio sollevato. Ci riesce a stento. Vorrebbe dire qualcosa, ma crede di aver perso la facoltà di parlare, almeno quell'occasione.
Manuel si lascia ad andare ad un sospiro. Ha il fiatone. «Mò te ne torni a letto» esclama «E ce rimani e la smetti di dire stronzate. Intesi?».
Simone si limita ad annuire, non osa contraddirlo o lamentarsi. Non lotta più per non farsi aiutare: lo lascia fare, anche se occorre che l'altro lo sollevi di peso da terra, perché a stento si regge in piedi.
Gli permette di condurlo verso il letto, di, addirittura, farsi rimboccare le coperte.
Manuel accende l'abat-jour posta sul comodino lì accanto. Adesso la stanza si riempie di una fioca luce arancione. «Che volevi de là, mh?» mormora «Acqua?».
Simone fa cenno di sì con la testa. Vede l'altro già in procinto di allontanarsi, verso la cucina, ma riesce ad allungare il braccio sinistro e fermarlo, prendendolo per un polso. I suoi tratti riesce ad osservarli ora che il buio non c'è più. «Ti amo» sussurra e suona in maniera diversa rispetto al solito, non è in grado di spiegarlo. È come se dopo tutto ciò che si sono detti poco prima, quelle due parole andassero a lenire entrambi, a curarli.
È diverso.
È semplicemente diverso.
Manuel lascia trasparire un sorriso sul proprio volto: è amaro, in realtà, ancora un briciolo rotto dalla paura e dal principio di pianto che lo ha colpito. Cerca di non renderlo troppo evidente. Si inginocchia accanto al materasso e fa intrecciare le loro dita. «Come latte e miele» soffia.
«Come Simone e Manuel».
Trattiene il respiro, il petto gli trema. «Così non vale» biascica.
«Per – per stavolta, vale». Simone lo dice con un fil di voce, che va affievolendosi pian piano, mentre socchiude le palpebre, stanco.
«Solo per stavolta» mormora Manuel. Poi si sporge in avanti, a depositare un bacio sulla sua fronte. «Torno subito, mh?». Lo vede fare soltanto un cenno col capo ed è sufficiente. A fatica lascia la sua mano per poter andare in cucina ed è un po' come smettere di respirare.
**
Simone non ha mai amato troppo il Natale, specialmente la sera della Vigilia.
Ha ricordi sfocati di quelle sere e sono tutti piuttosto tristi: è quella festività che, da bambino, ha sempre voluto trascorrere insieme a mamma e papà, ma non è mai stato così.
La sera del 24 dicembre, in precedenza, l'ha trascorsa soltanto con la madre Floriana, in alcune occasioni con la nonna Virginia. Tutti uniti mai o perlomeno non se lo ricorda.
L'anno prima lo ha festeggiato soltanto con Manuel, per decisione di entrambi. Non hanno fatto niente di particolare, sono stati a casa a mangiare pandoro e crema allo zabaione, con addosso degli stupidi maglioni rossi con una renna stampata sopra, comprati e regalati loro da Anita.
Quest'anno non vorrebbe qualcosa di diverso.
Gli piacerebbe stare a casa, sul divano, con quegli stessi maglioni – magari evitando lo zabaione che gli fa venire la nausea solo a pensarci.
Invece non può perché nella villetta Balestra, accanto alla dépendance, è già pronta la cena che la stessa Anita ha preparato, imbandendo un'intera tavolata, e loro due, ovviamente, sono invitati.
Simone è seduto – malamente – sul divano, con addosso un maglione verde con i risvolti bianchi – quelli con la renna non sa dove siano finiti, quindi ha optato per quello. Vede Manuel uscire dalla camera, anche lui con un indumento di ripiego - sempre un maglione, ma color bordeaux. Scorge che regge qualcosa tra le dita, un pezzo di stoffa che non sa decifrare.
«Quello cos'è?» domanda Simone, allora.
Manuel abbozza un sorriso e muove qualche passo distratto, per poterlo raggiungere e sedergli accanto, sui cuscini del divano. «Una bandana» dice e dispiega quello stesso pezzo di stoffa rossi, bianchi e verde. «Con Babbo Natale e le renne».
«Dove l'hai trovata una – bandana con Babbo Natale?».
«In una bancarella in centro, qualche giorno fa» replica, scrollando le spalle. «Visto che non troviamo i nostri maglioni e tu non vuoi mettere il cappello».
«Mi prude».
«E questa invece è di cotone, è morbida e non te dà fastidio. L'ho pure già lavata».
Simone osserva quel nuovo oggetto: i disegni sopra sono abbozzati a stento, una stampa dozzinale che sicuramente si sgretolerà a breve, in qualche giro di lavaggio; di fatto sono pure un po' brutti, ma non glielo fa notare. Piuttosto sorride e arriccia il naso. «Solo perché non – non abbiamo i maglioni».
«Solo per quello, giuro!» si giustifica ancora Manuel, accennando una risata. Dopo infila la bandana sulla testa calva del compagno, legando con delicatezza il laccetto sotto alla nuca. La misura non è proprio giusta, anzi, gli sta addirittura un po' stretta – forse è qualcosa destinata ai bambini, ma non fa niente, tanto non deve restare su a lungo. «Mica te dà fastidio?» chiede, comunque.
«No, va bene» lo rassicura Simone, aggiustando i bordi della bandana per farla aderire meglio alla cute «Se mi dà fastidio, la levo».
«Vogliamo andà?».
«Se dobbiamo proprio».
«Quanto entusiasmo».
Sospira sommessamente. È complicato spiegare – o forse fin troppo semplice – perché il proprio entusiasmo non può essere alle stelle. Perché quello è il primo Natale che trascorre insieme al padre da quando aveva cinque anni e potrebbe pure essere l'ultimo, ad esempio. Ad ogni modo, cerca di non dire nulla a riguardo, si limita a bofonchiare «Andiamo, va» e poi tacere.
Per alzarsi e camminare, deve aggrapparsi a Manuel. Quest'ultimo, fa passare il suo braccio sinistro attorno alle proprie spalle, mentre con una mano lo regge da metà busto.
«Ti peso?» biascica Simone.
«Ma che pesi, smettila» Manuel non vorrebbe manco rispondere a quella domanda, la stessa che all'altro esce fuori di bocca ogni qualvolta deve aiutarlo a compiere qualunque movimento.
No, non gli pesa, in nessun senso.
La distanza da percorrere è relativamente breve: sono pochi i metri di giardino che separano la dépendance dalla villetta. A Simone, tuttavia, paiono molti di più. Si maledice ad ogni passo e pensa a come farà a sopravvivere per tutta la serata – anche se è solo una cena con Dante e Anita, come è già accaduto altre volte. Magari può fingere che non sia Natale, se ignora l'albero addobbato e le altre decorazioni.
Quando varca la soglia della villetta, però, capisce che fingere che non sia il 24 dicembre non è contemplato.
Manuel lo sta ancora sostenendo su di un lato e Simone ringrazia per questo, altrimenti cadrebbe a terra per quel che si ritrova davanti: nel grande salotto, è posto un lungo tavolo imbandito, con decisamente più di quattro coperti – ne conta undici, se non va errato; i piatti sono di ceramica bianca, con bordi appena più spessi col filo dorato; tovaglia e tovaglioli sono rosso scarlatto e al centro spunta un ornamento con rami di abete e pigne ricoperte anch'esse d'oro.
Quel che più lo sorprende sono i volti che scorge nella luce tenue di quella casa: sì, c'è Dante, Anita, ma anche la nonna Virginia, insieme al professor Lombardi; c'è la sua mamma Floriana, rimasta a Glasgow fino a quel giorno e che sarebbe dovuta arrivare soltanto per Capodanno – da quel che è emerso dalla loro ultima videochiamata – e ci sono pure Matteo, Chicca, persino Luna e Giulio.
Ecco, a vedere tutta quella gente nel salotto, attorno a quel tavolo, lì per aspettarlo, per lui, Simone è diviso tra due sentimenti contrastanti e non sa quale far prevalere.
Perché da un lato c'è la parte più emotiva che ne è semplicemente felice, grata per ricevere tutto quell'amore e affetto, che apprezza la loro presenza e si sente fortunata.
Dall'altra, contrapposta, c'è la parte più razionale e fredda che continua ad urlargli in testa sono lì perché tu stai morendo, altrimenti non sarebbe venuto nessuno.
Che un po' funziona così, che quando stai per morire, d'improvviso per tutti diventi importante.
La leggera pressione che la mano di Manuel esercita sul proprio fianco lo riporta alla realtà ed è molto simile allo scoppio di una bolla di sapone nella quale, per un attimo, si è racchiuso.
Forse è meglio lasciar vincere la prima parte, almeno stavolta.
«Eccoli, finalmente!» Anita è la prima a parlare. Si avvicina ai due, fermi in piedi ad un metro dalla porta – la stessa che va a chiudere. Dopo deposita un bacio sulla guancia di entrambi e «Dai, sediamoci che si fredda tutto» annuncia e li invita a prendere posto.
Simone è quasi sorpreso dal fatto che non abbia ancora iniziato a piangere.
«T'abbiamo tenuto il posto d'onore» Matteo esclama a gran voce ed indica una poltrona di finta pelle marrone scuro, posizionata a capotavola, al posto di una normale sedia. Simone lo sa che è perché non ci riesce a stare troppo accomodato su una classica sedia di legno, ma apprezza comunque. Lancia un'occhiata a Manuel, come a chiedergli una spiegazione; quest'ultimo corruccia le labbra in una smorfia e «Mica lo sapevo io» borbotta.
Ma certo che lo sapeva.
Dante si avvicina loro, cerca di dispiegare un sorriso sulle labbra e di mostrare un'espressione quantomeno felice. «T'aiuto a metterti là, dai» esclama.
Simone rivolge ancora distrattamente uno sguardo a Manuel e «No, ce la faccio e...»; si blocca quando il compagno strofina il palmo della mano sul proprio fianco. È un consiglio silenzioso quello, come a dirgli accetta, vuole solo aiutare il proprio figlio.
Così annuisce e basta. Districa il braccio sinistro dalle spalle dell'altro ragazzo e permette al padre di prenderne il posto. La presa di Dante è decisamente più forte e ferma, tant'è che Simone fatica persino a reggersi bene in piedi o a compiere qualche passo in modo decente. Però, alla fine, gli fa raggiungere la poltrona a capotavola e lì prende posto.
Dante gli appoggia una mano sulla spalla, la mantiene in tale posizione per qualche secondo.
Simone tenta di incrociare il suo sguardo per una frazione di secondo; ci riesce, ma quel contatto dura poco. Da un lato, ringrazia pure perché li vede gli occhi lucidi del padre e sono forse peggio di una palla di cannone in pieno stomaco, insieme alla voce rotta che gli dice: «Bella 'sta bandana».
La madre Floriana gli si appropinqua, dando quasi il cambio a Dante, con un sorriso amorevole; accoglie il suo viso tra le mani e gli deposita un delicato bacio sulla fronte. Simone non la vede da mesi, sebbene la donna più volte abbia insistito per partire subito e tornare a casa, quando hanno avuto la prima diagnosi, ma il ragazzo ha sempre cercato di convincerla a rimanere in Scozia - con le buone e con le cattive. Questa volta, comunque, non può farci nulla.
Frattanto che i presenti si accomodano al tavolo, Manuel si siede sul bracciolo della poltrona marrone. Ci sarebbe una sedia libera, ma finge di non vederla. Almeno da tale posizione può stringere la mano del fidanzato, come fa in quel momento, sollevandola e portandola vicino alle labbra per baciarne il dorso.
«Ah, manca una cosa» esclama Manuel, tra il chiacchiericcio generale che inizia ad aleggiare nel salotto.
«Che?» biascica Simone.
Il compagno tira fuori il telefono dalla tasca posteriore dei jeans. Traffica col touchscreen, poi gira lo smartphone in posizione orizzontale, facendo partire un video.
Simone assottiglia lo sguardo per vedere le immagini che scorrono sull'apparecchio: sulle prime, fatica persino a mettere a fuoco ciò che vede. Soltanto dopo realizza, quando compare un campo da rugby, quando vede i compagni provare dei lanci, quando poi appaiono i loro volti ed un ragazzo biondo dagli occhi azzurri - si chiama Alessandro ed è il capitano della squadra - parla a nome di tutti, recitando: "Oh, Simó! Noi siamo qui, eh! Ti stiamo aspettando. Che il campionato mica lo vinciamo senza di te!".
Bugiardo, pensa Simone - che è il più scarso di tutti loro, lo sa, lo sa chiunque. Ma un sorriso gli scappa uguale.
«Tutta la squadra di rugby non c'entrava qui dentro» ridacchia Manuel «Però hanno voluto mandarti 'sto video pe' salutarte». Il video è terminato, per cui mette giù il telefono e lo blocca tramite il tasto laterale.
«Hai - parlato con i miei compagni di rugby?» chiede Simone.
«Certo» è la replica che sopraggiunge «E mi adorano».
«Ma ti stavano sul cazzo».
«Infatti sono loro che adorano me, mica il contrario».
Di quella cena della vigilia di Natale, Simone non riesce a consumare molto: giusto qualche boccone di antipasto; per il resto, ci pensa Manuel – che dal bracciolo non si muove – a spizzicare dal suo piatto per dare l'illusione che ogni cosa venga mangiata.
Simone si sente bene, in quel momento: con i genitori nella stessa stanza, con la nonna Virginia che ogni tanto gli pone la mano sulla gamba o gli rivolge un sorriso, con gli amici che ridono e raccontano aneddoti del liceo che lo fanno ridere.
Si sente bene perché nessuno di loro lo guarda con pietà o compassione. Per una sera – una singola sera – fingono tutti che il resto non esista, che lui non sia malato, che sia soltanto la sera del 24 dicembre, con gioia e allegria.
Lo fanno quando Matteo alza il bicchiere di Coca-Cola – di vino non ce n'è in tavola – e propone un brindisi di auguri; lo fanno quando si scambiano i regali ed essi sono tutti piuttosto stupidi o inutili, come un paio di calzini o una sciarpa.
Ma va bene in quel modo.
Simone è felice ed è ciò che conta.
E cerca persino di non dar peso a Dante che annuncia «L'anno prossimo ripetiamo» e gli altri che concordano perché...
Lo sanno tutti il perché.
La mezzanotte è passata da poco quando Simone, sempre sorretto da Manuel ad ogni passo, rientra nella dépendance. Raggiungono la camera da letto. Manuel si appresta ad accendere la luce, premendo l'interruttore. Varca la soglia della porta, ma si blocca quando nota un particolare nella stanza.
Difatti, appoggiata sul materasso, nota la presenza di una chitarra, dalla cassa armonica di legno marrone chiaro e lucida; ha sopra un fiocco rosso.
«Quella cos'è?» chiede, per quanto sia ovvio, voltando il capo quel che basta per scorgere il profilo di Simone. Lo vede sorridergli leggermente.
«A te che sembra?».
«Simò, c'eravamo detti niente regali quest'anno» borbotta. Nel frattempo, cerca di avanzare verso quel letto, tenendo il compagno con un braccio attorno alle proprie spalle e una mano sul suo fianco. Riesce a farlo sedere al di sopra del piumone, gli fa appoggiare la schiena alla spalliera e lo aiuta a sollevare le gambe sopra al materasso.
«Ma tu me lo hai fatto il - questa» dice Simone, abbozzando una flebile risata. Indica la bandana che ha ancora in testa.
Manuel scuote il capo. «Ma quello è un regalo de merda, Simò» replica. È ancora in piedi quando la chitarra la imbraccia e rimuove delicatamente il fiocco. «Ma come hai fatto a...».
«Tua madre» spiega Simone «Non hai visto prima che è v- sparita per un attimo».
«No che non l'ho vista, stavo a guardà te. Mi distrai». Manuel pizzica piano le corde della chitarra, una ad una. Socchiude gli occhi: suona bene. È identica a quella che aveva in precedenza, prima che si rompesse. Forse persino lo stesso modello, cambia soltanto il colore.
Prende posto, seduto sul bordo del materasso. «Non dovevi, comunque» sussurra.
«Dovevo, invece» lo rassicura Simone. Osserva il compagno, lontano soltanto qualche centimetro, con quello strumento tra le mani, che gli ha visto suonare tante e tante volte – in alcune occasioni gli ha pure scattato delle foto in tali momenti, immagini che conserva gelosamente nel proprio telefono.
«Puoi farmelo adesso il - il regalo» biascica.
«E cosa?».
«Mi canti una canzone».
Manuel ride. «I regali dovrebbero esse 'na cosa piacevole, non io che te rompo i timpani».
«Ma smettila».
«Sei sicuro?».
Simone annuisce e «Sicuro» attesta.
«E che canzone vuoi?».
«Quella che vuoi tu».
Manuel ci pensa un attimo a quale brano suonare. Non che ne conosca tanti: non ha mai seguito un corso, nessuno gli ha mai insegnato nulla. Ha imparato da autodidatta, per cui il suo modo di strimpellare non è così accurato, a volte non segue alla perfezione gli accordi. Però ci prova, ecco.
Come in tale istante, durante il quale sfiora piano le corde con le dita, lanciando uno sguardo al compagno e curvando le labbra verso l'altro.
È pressappoco sicuro che l'altro la conosca quando lievemente intona: «Vorrei, vorrei, esaudire tutti i sogni tuoi. Vorrei, vorrei, cancellare ciò che tu non vuoi, però, lo sai, che io vivo attraverso gli occhi tuoi». Le note della chitarra seguono la sua voce in modo soave, si intrecciano con essa, si mescolano in un equilibrio stabile.
Così va avanti: «Vorrei, vorrei, che tu fossi felice in ogni istante. Vorrei, vorrei stare insieme a te, così, per sempre, però, lo sai, che io vivo attraverso gli occhi tuoi».
Simone resta in silenzio, ad assimilare quelle parole, a farsi avvolgere e cullare da esse, ad accarezzare da tali frasi che gli giungono alle orecchie tramite la voce di Manuel.
E pensa davvero che ci vorrebbe stare insieme a lui, così, per sempre.
Magari in un'altra vita, dove sta bene – dove stanno bene entrambi – dove si sono trasferiti in un'altra città, dove fanno cose banali e scontate come andare a fare la spesa insieme, comprando solo schifezze o cibi surgelati, dove gli può portare la colazione a letto e dove possono riempire la loro stanza soltanto di risate.
E mentre l'altro sta ancora sussurrando «E vorrei poterti amare fino a quando tu ci sarai. Sono nato per regalarti quel che ancora tu non hai» che le sue palpebre cedono. Simone chiude lentamente gli occhi, si abbandona al sonno e alla stanchezza di quella sera.
Manuel se ne accorge di tal particolare, per cui smette di cantare. Pizzica ancora per qualche secondo le corde della chitarra, per poi lasciar perdere quel gesto. Rimane fermo, per un breve istante, semplicemente a guardare il volto di Simone rilassato, che dorme – e spera possa dormire per qualche ora sereno e rilassato.
In seguito, sposta la chitarra e la appoggia sul lato opposto del materasso. Si alza in piedi, nota che è sopra il piumone e ancora vestito. Quindi gli toglie con delicatezza le scarpe, prima di recuperare dall'armadio di legno due coperte beige scuro, che sono le stesse che gli mette addosso per tenerlo quanto più al caldo possibile. Rimuove la bandana dalla sua testa, nota che gli ha lasciato dei segni rossi sulla pelle, forse perché stretta. Butta l'oggetto alla rinfusa sul comodino.
Si sporge nella sua direzione col busto, per poter depositare un bacio dapprima sulla fronte, poi sulla tempia. «Che io vivo attraverso gli occhi tuoi» mormora, con la voce che gli si spezza in gola.
Un sorriso malinconico gli si dipinge sul volto.
E vorrei poterti amare
fino a quando tu ci sarai.
Sono nato per regalarti
quel che ancora tu non hai.
Così se vuoi portarmi
dentro al cuore tuo con te,
io ti prego, e sai perché...
Vorrei, vorrei
esaudire tutti i sogni tuoi.
[Dovrebbe esserci un GIF o un video qui. Aggiorna l'app ora per vederlo.]
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro