Tempo e realtà
Otto mesi prima
«Simó? Oh, Simó? Ma che...». Manuel entra nella camera da letto della dépendance, premendo sull'interruttore con due dita per accendere la luce - anche se è pomeriggio e quella del sole fuori sarebbe più che sufficiente se non ci fossero tutte le tende tirate per non far passare un singolo raggio.
Nota che Simone è a letto, avvolto nel lenzuolo azzurro pallido e si chiede come faccia, dato che fa caldo e lui stesso sta sudando pure da fermo.
«Ma che stai già a dormì?» esclama ancora. Muove qualche passo distratto finché non raggiunge il letto. Cerca di rimuovere il lenzuolo per - quantomeno - scoprire la testa del compagno; ha successo, ottenendo un «Mh-m, che vuoi?» biascicato in risposta.
Manuel osserva i ricci scuri dell'altro ragazzo spuntare sopra al cuscino; lo vede premere la faccia contro di esso, probabilmente perché la luce improvvisa nella stanza gli dà fastidio.
«Come che voglio» borbotta «Sono le cinque, c'abbiamo quella roba là co' li altri».
Quella roba là è soltanto un aperitivo in centro con gli ormai ex compagni di liceo, prima che partano per le vacanze estive per prima cosa e poi per le varie destinazioni delle università. Niente di troppo formale, insomma.
Simone mugola ancora qualcosa di a stento comprensibile e «Mi scoppia la testa» bofonchia.
«Di nuovo? L'hai presa l'aspirina?». Se potesse, Manuel gli toccherebbe la fronte con il dorso della mano, ma la posizione assunta dal compagno glielo impedisce.
«Sì, ma non m'ha fatto niente» biascica quest'ultimo e soltanto adesso osa sollevare il capo; strizza le palpebre e mostra gli occhi gonfi e arrossati.
«Madó, Simó, c'hai n'aspetto de merda» è il primo commento che a Manuel viene in mente.
«Grazie, eh».
«Boh, per dire» sbuffa «Non è che hai la febbre?».
«Non ho la febbre, ho solo mal di testa».
Si lascia andare ad un sospiro sommesso, mentre prende posto sul bordo del materasso. «Vabbè, tu c'hai mal di testa solo pe' un motivo» esclama.
Simone tenta di mettersi supino sul letto, sebbene faccia fatica a compiere mezzo giro su sé stesso - ha freddo, ma sta sudando, forse ha davvero la febbre e pensa che non doveva andare a correre senza una felpa. «Sarebbe?» domanda, fissando il soffitto.
«Che pensi troppo» spiega l'altro «E studi troppo».
«Devo studiare per i test di ammissione».
«Seh, ma sei bravo. Puoi pure studiare un po' meno».
«Sono bravo proprio perché studio».
Manuel alza gli occhi al cielo, esasperato. «Seh, perfettone del cazzo» lo schernisce, tirandogli un lieve colpo a pugno chiuso sul braccio.
Fa una breve pausa: lo vede che, effettivamente, ha un aspetto orribile, pare fiacco e di sicuro ha l'influenza. Così, la propria espressione un briciolo si addolcisce e «Vabbè, posso andà solo io» propone «Tu resti a dormire».
Simone si affretta a scuotere il capo, si passa una mano sul viso. «No, dai» bofonchia «Magari mi prendo la tachipirina pure e mi passa».
«Sicuro?» Manuel non ne è troppo convinto.
«Sicuro».
«Guarda che se me collassi a terra, te lascio lì» ci scherza su.
Simone abbozza una risata. «Non ci credi manco tu».
**
Il tempo è un concetto astratto e relativo, che viene percepito in modo diverso a seconda delle occasioni: ad esempio, quando siamo felici, esso pare scorrere troppo veloce, sembra quasi sfugga tra le dita; in altre occasioni, in particolar modo quando è presente un dolore pungente, il tempo dà l'impressione di essersi fermato, caduto in uno stallo perenne senza via di fuga.
Il tempo, per Manuel, si è congelato nell'esatto momento in cui Simone gli è crollato tra le braccia, smettendo di muoversi, smettendo di respirare. Non ha recepito il suo battito del cuore per sei minuti che, nella propria testa, sono equivalsi ad ore, giorni, un intervallo di tempo incredibilmente lungo da sopportare.
Perché il tempo è davvero un bastardo, quando ci si mette: infierisce nel dolore, lo rende eterno; fugge via nella felicità, la fa durare pochi attimi, come se qualcosa di più fosse già di troppo.
Manuel è salito sull'ambulanza, nonostante la madre Anita gli abbia suggerito di non farlo, di andare con lei e Dante in auto dietro a quel veicolo; ovviamente, non l'ha ascoltata – ha smesso di ascoltare tutti, ha smesso di vedere tutti, tranne Simone.
Si è concentrato sul suo viso, sul modo in cui i paramedici maneggiavano il suo corpo, gli infilavano aghi sulle braccia e una maschera dell'ossigeno sulla faccia.
Gli è andato dietro senza manco pensarci, raggiungendo la sua mano e stringendola, per fargli capire che sono qui con te, non ti lascio, l'ho promesso.
Non gliel'ha mai lasciata, la mano.
Ha mantenuto il contatto finché ha potuto, per tutto il tragitto fino in ospedale. Si è costretto a distaccarsi causa forza maggiore, quando la barella su cui hanno sistemato l'altro ragazzo ha fatto il proprio ingresso nel pronto soccorso ed è sparita dietro due porte grigie.
Due ore, trentadue minuti e diciotto secondi.
Manuel conta, scandisce ogni movimento di lancette del grosso orologio dallo sfondo bianco che è presente nella sala d'attesa con le pareti di un verde pallido e spento.
Rimane seduto su una sedia di metallo fredda, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il busto proteso in avanti. Ignora chiunque intorno: Anita, Dante, non sente nessuna delle loro parole.
Ma, del resto, tutto ciò che vorrebbe mai ascoltare adesso è la voce di Simone che gli sussurra parole senza senso e gli riempie le orecchie di risate.
**
Sette mesi prima
«Ma tu sei sicuro di 'sta cosa, sì?». Manuel fissa perplesso il miscuglio di preparato per pancake che Simone ha riversato in una ciotola di vetro trasparente, aggiungendoci dell'acqua: non ha un buon aspetto, anzi, pare essere pieno di grumi e bolle d'aria che non se ne vanno neppure rigirando con un mestolo di legno.
«T'ho detto di sì» ribadisce Simone «Ho seguito le istruzioni».
«Ma non potevi usà, che so, la farina, le uova – cioè come li fanno tutti i pancake?».
«Con questo si fa più veloce».
«E non me pare tanto, Simò, sò venti minuti che giri 'sta roba». Quello di Manuel non è un rimprovero – non troppo: lo sa che le abilità culinarie del compagno scarseggiano, per cui, quando quella domenica mattina si sono svegliati e quest'ultimo ha avuto la brillante idea di preparare una colazione un po' più particolare, un briciolo gli è presa male, ma poi lo ha accordato e lasciato fare.
Anche se adesso sono in cucina, davanti al tavolo ovale, da almeno mezz'ora e il preparato dei pancake non è ancora pronto.
«Boh, forse – ho messo troppa poca acqua» borbotta Simone e corruccia le labbra in una smorfia a notare come il composto che ha davanti sia troppo denso e quindi sbagliato. Si lascia andare ad un sospiro, arrendevole. «Che palle» si lamenta.
A Manuel sfugge una risata. È accanto al compagno, ma ne approfitta per scostarsi un briciolo, andargli dietro e cingergli la vita con entrambe le mani. Si solleva appena sulla punta dei piedi, così da poter depositare un bacio fugace dietro ad un orecchio. «Non fa niente» sussurra e appoggia il mento sulla sua spalla «Se me prendi le uova, faccio io».
«Fai sempre tu» borbotta Simone, mollando in maniera definitiva il mestolo nella ciotola di vetro che ha davanti, abbandonata sul tavolo. Le mani, in seguito, le porta sopra agli avambracci dell'altro ragazzo, che ancora lo sta stringendo a sé. «Volevo fare io».
«Fai tu la prossima volta» lo rassicura Manuel «Magari prima t'insegno».
«Ti scocci sempre ad insegnarmi».
«Non è vero, non...» fa per dire, tuttavia si interrompe quando uno strano odore gli raggiunge le narici. Aggrotta le sopracciglia, distaccandosi dal compagno e «Ma che è 'sta puzza?» domanda, guardandosi attorno. In un primo momento, non capisce da dove venga quell'odore di bruciato che aleggia nell'aria della cucina. Ci impiega qualche secondo e un'occhiata interrogatoria all'altro ragazzo per capirne la fonte, ossia una padella vuota, lasciata sopra ad uno dei fornelli acceso.
«Cazzo!» impreca Manuel, precipitandosi a spegnerlo, attraverso la manopola apposita. «Ma avevi acceso il gas?».
In un primo momento, Simone rimane immobile, con i pugni stretti lungo i fianchi, così forte da rischiare di farsi male, conficcando le unghie nei palmi. In realtà, non si ricorda di averlo fatto – probabilmente sì, ha messo a scaldare una padella per i pancake, come da indicazioni sulla busta del preparato, ma...
«Me ne sono scordato» borbotta, scrollando le spalle.
Manuel, fermo a qualche metro di distanza, allarga le braccia, esasperato. «Ultimamente te scordi un po' troppe cose, me sembra» sbraita. «Meno male che me ne sò accorto».
«Me ne sarei accorto pure io».
«Certo, quando pijava foco tutto». Raccatta uno strofinaccio di spugna dal gancio di metallo accanto alla finestra, soltanto per afferrare la padella dal manico e buttarla sotto un getto d'acqua fredda del rubinetto.
«Oh, c'hai proprio la testa da n'altra parte, eh, che cazzo» borbotta, infastidito, tenendo le spalle al compagno «Connettiamoli 'sti due neuroni ogni tanto, che se te scordi le cose a vent'anni, non ce arrivi a quaranta».
Si aspetta una replica, pure un principio di discussione – come accade spesso, nell'ultimo periodo, sempre per cose di poco conto, ad esempio Simone che scorda le chiavi, che dimentica un appuntamento, dorme troppo o sta sveglio tutta la notte con la luce accesa.
Quindi sì, Manuel ha il presentimento che potrebbe nascere l'ennesimo litigio, proprio in quel momento. Tuttavia, quando molla la padella dentro al lavandino e si volta, mentre l'acqua sta ancora scorrendo, accade in un attimo: il proprio sguardo si incrocia con quello dell'altro ragazzo, prima di vederlo crollare sul pavimento, in preda a spasmi e tremori.
Rimane pietrificato da una simile visione: dal suo corpo riverso a terra, che trema, dai suoi occhi che paiono scomparire, divenendo bianchi, dalla saliva che gli esce di bocca e gli scivola sul mento.
Ci impiega dei secondi eterni a realizzare e «Simò!» grida, per poi precipitarsi da lui. Non sa neppure se può toccarlo, se deve toccarlo, se deve fare qualcosa. Per quel poco che è di propria conoscenza, cerca di tenere Simone girato su di un fianco, mentre «Aiuto! Simò!» urla ancora, sperando che Dante o Anita, in casa, possano sentirlo – perché quei tremori non smettono, sembrano farsi più, forti e...
Manuel strizza le palpebre, scacciando via dalla propria mente quel ricordo così vivido, di quella che sembra un'altra vita.
Si reputa stupido ad aver sottovalutato così tante cose, a non aver badato a tutti quei segnali che c'erano ed essersi addirittura arrabbiato. Si è arrabbiato ogni volta che Simone scordava qualcosa: una volta gli ha fatto una scenata per aver messo le chiavi della macchina in un vaso per sbaglio e non si trovavano e per tal motivo è arrivato tardi a lavoro; si è arrabbiato quando Simone ha bruciato la cena, quando si è addormentato nel giorno del loro anniversario e non ha sentito la sveglia, quando aveva troppo mal di testa per solo sentirlo parlare.
Tornasse indietro, non si arrabbierebbe più.
Con quella sedia di metallo della sala d'attesa è diventato un tutt'uno.
Tre ore, quaranta minuti e diciassette secondi.
«Perché non ce dicono niente?» biascica e subito lo sguardo di Dante e Anita, accomodati su altre due sedie lì accanto, ricade su di sé. Lui fissa un punto vuoto che ha davanti, con occhi spenti e tenendo le braccia incrociate. «Che stanno a fà?» sussurra ancora «Che ce vole a venì fuori e dirci che sta bene».
Anita allunga una mano, la appoggia sulla sua gamba che continua a sussultare per il nervoso – riesce a fermarla. «Tra un po' ci dicono qualcosa» cerca di rassicurarlo, per quanto non ne sia per niente convinta – dal momento che sta passando davvero troppo tempo per poter dare buone notizie, però, per una volta, cerca di essere stabile e forte per il figlio.
Manuel fatica a crederle. Ormai la propria parte più razionale, che analizza i fatti in maniera nuda e cruda, ha preso il sopravvento e non ce la fa ad essere ottimista, positivo, al pari di come lo è stato per tutti quei mesi.
Si alza in piedi con uno scatto, scrolla le spalle. «Vado a prende un caffè» esclama, sebbene non gli serva, di certo non si addormenterebbe. Deve soltanto allontanarsi da lì e calmarsi.
**
Sei mesi prima
Simone entra nella dépendance con uno sbuffo, gettando lo zaino che ha tenuto sulle spalle sul pavimento. Manuel, seduto sul divano, lo scorge con la coda dell'occhio. È stato in ansia fino a quel momento poiché il compagno ha avuto una visita importante quel giorno e lui non ha potuto esserci a causa di un contrattempo in quel lavoro sporadico che svolge e che, a chiamata, non può rifiutare.
Quindi Simone è stato accompagnato soltanto da Dante, che ora vede entrare dalla porta lasciata aperta.
Li osserva ed entrambi sembrano – adirati? Probabilmente hanno discusso.
Sicuramente hanno discusso, ma litigare con Simone è di norma, ormai, per tutti quanti.
Si rimette in piedi, vorrebbe chiedere qualcosa, tenendo i pugni stretti lungo i fianchi.
«Simone, possiamo parlarne?» Dante lo anticipa, allargando le braccia, arrendevole ed esasperato.
«Di che?» grida Simone e rivolge un'occhiata tagliente al padre. «Di te che decidi per la mia vita?».
«Non sto decidendo per la tua vita, ti sto consigliando – consigliando qualcosa che può aiutarti».
Manuel rimane in silenzio, per qualcosa istante. Compie qualche passo, distratto. Ha Simone alla propria sinistra, Dante alla destra e li guarda mentre sono uno di fronte all'altro; è pressappoco sicuro che, se potessero, si metterebbero le mani addosso. «Che – succede?» osa chiedere.
Simone alza gli occhi al cielo. «Succede che mio padre si è preso il diritto di scegliere le cose al posto mio» esclama, con tono di voce fin troppo elevato.
Dante si lascia sfuggire una risata, priva d'entusiasmo. «Non ho fatto questo» si giustifica.
Manuel lo sa che stanno per ricominciare ad urlarsi contro. Si passa una mano sul volto, stanco. «Che ha deciso?» domanda ancora.
Il professore scuote il capo e abbassa la testa all'occhiata fulminante che gli riserva il figlio. «Ha detto ai medici che la terapia sperimentale va bene» spiega quest'ultimo «Senza chiedermi se per me andasse bene».
Okay, ora Manuel comprende – fin troppo, tanto che un velo di angoscia e tristezza gli ricopre il volto. «Vabbè, non – non ne avevamo già parlato?» mormora «Che ci pensavi a farla».
Simone sgrana gli occhi di fronte a tale affermazione del compagno. «Che ci pensavo, Manuel» fa presente «Mica che la facevo per certo».
«È la cosa più sicura, Simone e...» puntualizza Dante; tuttavia, il ragazzo lo interrompe subito con «Non è la cosa più sicura! È la cosa che m'ammazza più in fretta».
«E anche quella che alza il tasso di sopravvivenza» sottolinea il padre. Fa una breve pausa, scambiandosi uno sguardo con Manuel, che resta in assoluto silenzio.
Oscilla su sé stesso, spostando il peso del corpo da un piede all'altro. «Lo capisci che – te lo stiamo dicendo tutti per il tuo bene. Per la tua vita» cerca di usare un tono calmo, pacato, come fa sempre – che qualcuno deve rimanere stabile in quella situazione.
Però non è la medesima sensazione che ha Simone, che in tal momento vede ogni cosa come un attacco nei propri confronti e dunque «Certo, perché non siete voi a doverlo fare» sbotta «Non siete voi ad avere questa cosa che vi mangia il cervello, non siete voi a dovervi fare iniettare della merda nelle vene. Sono io. A voi che cazzo ve ne frega?».
Manuel lo incassa, quel voi. Anche se lo sa che Simone, adesso, è allo sbaraglio, che è probabile che ciò che gli esce di bocca sia dovuto soltanto alla paura che ha addosso in quel momento, che la maggior parte delle volte non ci pensa alle cose che dice. Rimane in silenzio, non vuole intervenire, non ci vuole litigare con lui.
«Ma come puoi pensare questo?» insiste Dante «Come puoi – pensare che non ce ne freghi. Stiamo solo – sappiamo che la terapia sperimentale può essere più efficace e lo capisco se hai paura di – di tutto, di come potresti reagire, degli effetti collaterali, ma, Simone... Potrebbe aiutarti per davvero, questa cosa». Smette di parlare per un momento, socchiudendo le palpebre.
«Sono tuo padre» prosegue «Pensi non mi interessi che tu stia bene? Pensi che dopo Jacopo io non viva nel terrore di poter perdere anche te?».
A Simone scappa una risata, sull'orlo dell'isterismo. «Certo» dice «Perché anche questa cosa riguarda come può sentirsi il povero Dante Balestra». Allarga le braccia, sfinito. «Magari ci potevi pensare prima e farlo un figlio sano».
Probabilmente uno scoppio di una bomba provocherebbe lo stesso effetto: devastazione.
Perché Simone lo sa cosa ha appena detto, è consapevole del fatto che sia stato davvero cattivo per nessuna ragione, che ha scagliato in direzione del padre una freccia avvelenata, che lo ha appena distrutto, senza ragionarci.
Se ne rende con lui, lo fanno tutti i presenti in quella stanza, dove l'aria è diventata troppo pesante d'improvviso.
Manuel raggela, probabilmente il proprio cuore ha perso un battito. Dante, invece, rimane immobile, con l'espressione affranta che si è spezzata in mille pezzi, in seguito a tali parole alle quali non sa in che modo replicare. Forse non deve neppure – perché non ne ha il coraggio.
A Simone trema il petto. Non riesce a guardare nessuno dei due in viso. Si sente piccolo, stupido.
Egoista.
Finisce per mordersi la lingua. Vorrebbe chiedere scusa, ma non è più in grado di proferire parola. Resta in silenzio e fugge via in camera, sbattendosi la porta alle spalle.
**
Il caffè di quel distributore è orrendo: sa di bruciato e gli lascia l'amaro in bocca. Ma tanto a Manuel importa poco, dato che lo ha buttato giù tutto d'un fiato e si è addirittura bruciato la lingua.
Getta il bicchiere di plastica nell'apposito contenitore verde che è sistemato accanto alla macchinetta e rimane fermo di fronte ad esso, con le spalle ricurve e il capo basso.
Quando lo risolleva, è soltanto per vedere Dante che lo raggiunge, tenendo le mani in tasca e fermandosi a meno di un metro di distanza, in quel corridoio bianco, asettico e deserto.
«V'hanno detto qualcosa?» domanda, distratto e l'unica replica che ottiene è un cenno di dissenso con la testa da parte del professore.
Si lascia andare ad un sospiro sommesso e alza gli occhi al cielo per un breve istante – che non è per esasperazione, piuttosto per non piangere.
Non vuole piangere, non ancora.
«Me sento uno stupido» confessa, ad un tratto.
«Per cosa?».
«Per non essermene accorto prima» specifica «Stavamo tutto er giorno insieme e io – aveva sempre mal di testa, lo ha avuto pe' mesi e io je dicevo de prenderse un'aspirina e smetterla de lamentarse».
«Manuel...».
«Oppure me incazzavo se dimenticava le chiavi perché me dovevo alzà pe' aprì la porta, capito?» un singhiozzo gli spezza un briciolo la voce. «Io me incazzavo. Lui stava male e io me incazzavo».
Dante rimane in silenzio, lo lascia parlare. Lo sanno entrambi che è inutile colpevolizzarsi – trovare un colpevole in generale – e, soprattutto, pensare e analizzare i mille se che posso esserci.
L'hanno detto che non devono pensarci, ai se.
Quindi «Nessuno poteva capirlo prima» gli sussurra, sebbene sia consapevole che ciò non basti a distrarlo da simili convinzioni.
«Potevo, invece, potevo – farci più attenzione, potevo portarlo prima da un medico e potevo...».
«Non potevi».
Non potevi.
Tale frase rimbomba nella testa di Manuel – per le tante cose che non può fare.
Non può far star meglio Simone.
Non può farlo guarire.
Non può immaginare un futuro insieme a lui, perché potrebbe non esserci.
Non può amarlo per il resto della vita poiché quel tempo si è ridotto a pochi istanti.
Non può fare niente di utile.
Si tratta di una realizzazione a cui è già arrivato in precedenza, ma che ora si fa più chiara, più nitida, più reale.
Quella sera, in un corridoio freddo d'ospedale, qualcosa si spezza ed è peggio di un fulmine a ciel sereno.
Crolla tutto. Anche se ha promesso che non lo avrebbe fatto.
A ciò, non regge.
E allora è Manuel a disintegrarsi, a cadere pezzo dopo pezzo d'improvviso, a collassare su sé stesso per mesi in cui ha tenuto salde le proprie fondamenta.
Crolla tra le braccia di Dante, la figura che più di tutte gli ha fatto da padre nel corso della vita. Crolla con lui che tenta di sorreggerlo, mentre copiose lacrime scorrono sulle proprie guance, respira affannato e la vista gli si appanna.
«Mi dispiace» biascica, un po' all'uomo che lo sta stringendo, un po' a Simone e un po' pure a sé stesso – per aver sopportato tanto, per non aver retto. «Mi dispiace, mi – mi dispiace».
Nasconde il volto nel petto di Dante, serra le palpebre. Si lascia cullare per quel breve attimo in cui ogni fragilità viene galla.
Ed è più devastante di quanto si aspettasse.
**
Cinque mesi prima
Manuel tasta l'altro lato del letto e lo trova vuoto.
Il cuore gli perde un battito, come accade negli ultimi due mesi, dato che Simone non è al proprio fianco. Tuttavia, gli basta mettersi a sedere sul materasso per notare, da tale posizione, la luce filtrare da sotto la porta del bagno – ne vede soltanto un piccolo scorcio, ma è sufficiente a farlo alzare e strisciare i piedi sul pavimento.
Abbandona la camera da letto e si ferma davanti alla porta chiusa. Appoggia un palmo sopra di essa, vorrebbe bussare, però si ferma prima. Li sente i colpi di tosse da parte del compagno che vi è dentro, i suoi sospiri e leggeri singhiozzi.
Purtroppo, ci ha fatto l'abitudine.
Esita qualche secondo. Poi «Simò?» lo richiama. Sospira, si prende una pausa quasi non dovesse pronunciare il suo nome. «Tutto okay?».
Che domanda stupida, pensa.
Non ottiene alcuna risposta per almeno cinque minuti, ma di lì non si sposta, anzi: rimane perfettamente immobile, posando accanto alla mano, la fronte, e chiude gli occhi. Si focalizza sugli ulteriori rumori all'interno di quel piccolo bagno: il respiro affannato di Simone, i suoi gemiti sommessi a causa del dolore alla gola, dopo l'acqua che scorre dal rubinetto e lo scarico del water che viene azionato.
Ma Manuel non lo chiama più: attende che sia lui ad aprire la porta – il che accade esattamente dodici minuti dopo.
Simone gli appare davanti con le labbra gonfie e umide, gli occhi arrossati e i capelli scompigliati.
«Mi avevi detto che me chiamavi se stavi male» gli fa presente Manuel. Cerca di tenere un tono basso, dato che sono le tre di notte e sono entrambi stanchi. Simone abbassa lo sguardo e scrolla le spalle. «Sto bene» attesta.
«Non me sembra».
«È solo un po' di nausea, nulla di che».
«Me devi chiamà pure pe' un po' di nausea».
Simone rotea gli occhi. «Vabbè» taglia corto. Non vuole discutere, non vuole ribadirgli che non c'è bisogno che lo assista sempre, che – che non vuole che sia spettatore di un simile orrendo spettacolo. Che non vuole che lo veda così.
A parole, non gli confessa nulla. Lo scansa in malo modo, sbuffando, e torna in camera da letto, unicamente per sprofondare tra le coperte e sperare di smettere di pensare, almeno per un po'.
**
Quattro ore, tredici minuti e diciotto secondi trascorrono prima che venga detto loro qualcosa.
Manuel non ascolta molto perché i termini tecnici dei medici non li capisce: assimila soltanto qualche parola come situazione critica, ossigeno, terapia e operazione, nulla più.
Che poi sono le stesse parole che sente da mesi e ancora non ci ha capito niente, assurdo.
Ciò che gli importa è solamente poter rivedere Simone, il resto è irrilevante.
Permettono loro di entrare in stanza uno alla volta. Manuel supplica Dante con lo sguardo per essere il primo e l'uomo glielo concede senza particolari esitazioni.
Quella camera d'ospedale è piccola: ci sono due letti – uno solo è occupato – una finestra rettangolare, nascosta da una tenda bianca e uno dei neon che fa luce è fulminato.
Simone è riverso su un letto con le lenzuola azzurro chiaro: pare terribilmente piccolo sopra al materasso, con due piccoli tubi nel naso, le occhiaie marcate e aghi ovunque sulle braccia e un camice bianco a pois blu.
Non ha la bandana: gliel'hanno tolta i paramedici, una volta giunti con l'ambulanza; è la stessa che il compagno ha recuperato e si è ficcato in tasca prima che lo portassero via.
Manuel gli si avvicina con passo estremamente lento. Deve trattenere il respiro mentre lo fa. Si ferma quando è accanto all'altro ragazzo, che è sveglio, nonostante l'aria stanca e spossata.
Sforza un sorriso, che stona incredibilmente con gli occhi gonfi e arrossati che ha. «Oh, te sembra uno scherzo da fà questo?» dice; la voce risulta rauca e spezzata.
Le labbra di Simone – pallide e screpolate – si curvano appena all'insù, ma non riesce a replicare a parole.
Non fa niente.
Manuel traffica nella tasca interna della giacca verde bomber che indossa. Tira fuori la bandana arancione con le strisce bianche. «L'ho presa io questa» gli racconta «Perché non te piace restà senza, lo so. La vuoi rimettere?».
In replica, Simone è in grado soltanto di abbassare e sollevare le palpebre, ma è sufficiente per l'altro ragazzo, il quale dispiega dapprima quel pezzo di stoffa, poi, con estrema delicatezza, solleva la testa del compagno, reggendolo da dietro la nuca con una mano; infila la bandana sul suo capo, legando il laccetto non troppo forte. In seguito, lo accompagna a ricadere sul cuscino morbido.
Cerca di mantenere il sorriso tutto il tempo – perché almeno lui non lo deve vedere, il crollo.
Posa un palmo sulla sua guancia, sfregando il pollice sopra allo zigomo; la pelle, sotto ai polpastrelli, risulta fredda e secca.
Simone manda giù a fatica della saliva. Si sente a pezzi, stanco, come se non dormisse da ore. Ciò nonostante, quel minuscolo contatto con Manuel lo rassicura, lo fa sentire protetto, a casa – attaccato alla realtà, un po' pure vivo. Cerca di parlare, per quanto gli risulti difficile – perché le parole gli sfuggono sempre di più, non riesce ad afferrarle, per cui elaborare anche solo una frase è arduo e complicato. «A-amo t... Te» biascica, con enorme sforzo, dato che un ti amo non è in grado di articolarlo.
Manuel abbozza una risata, priva di alcun entusiasmo. Si sporge appena un avanti, unicamente per depositare un bacio sulla sua fronte.
«Come Manuel e Simone» sussurra e le proprie labbra sfiorano la punta del suo naso. «Vale anche stavolta, mh?».
Vale anche stavolta.
Vale per sempre, anche nel loro tempo ridotto.
**
Quattro mesi prima
Simone è seduto sul letto, con le gambe allungate sul materasso al di sopra di una coperta di pile a scacchi blu e verde, la schiena contro la spalliera e due cuscini da intermezzo.
Osserva la figura di Manuel, frattanto che, a pochi metri di distanza, davanti all'armadio a tre ante aperto, si leva di dosso l'accappatoio di spugna color verde acqua e si infila il pigiama - che sono soltanto dei pantaloncini neri e una t-shirt bianca, nulla di che.
Analizza il suo aspetto, il volto stanco, i segni scuri attorno agli occhi - perché lo sa che non dorme la notte soltanto per vegliare su di sé - le guance incavate, lo sguardo spento.
Pensa a quanto sia ingiusto il fatto che stia diventando una copia di sé stesso, come un'ombra, che si stia deteriorando solo per stargli dietro. E pensa non dovrebbe. Che Manuel dovrebbe avere di meglio.
Che non ha nulla da offrirgli, soltanto un corpo malato, malconcio e brutto.
Soprattutto brutto.
Non si spiega come l'altro possa rimanere lì, possa ancora starci insieme nonostante sia privo di capelli, abbia perso ogni muscolo, sia - un morto che cammina. Se proprio deve usare un termine specifico, ecco.
«Manuel?» pigola e la gola un po' gli pizzica, dato che è in silenzio da chissà quanto tempo.
«Mh-m?» l'altro ragazzo replica in maniera distratta. Chiude le ante dell'armadio e trascina i piedi sul pavimento fino a raggiungere il letto, sul quale, in seguito, sale sopra. Si siede accanto al compagno, nella medesima posizione.
Simone lo segue con lo sguardo. Manda già a fatica della saliva. Ora sono vicini, fianco a fianco, può guardarlo da pochi centimetri di distanza. «Io ti - piaccio ancora?» biascica. Non sa neppure perché ha effettivamente posto quel quesito.
Che stupido. Non doveva, ma ormai è tardi, è uscito fuori.
D'altra parte, Manuel lo ritiene addirittura uno scherzo, per cui gli sfugge una risata, la stessa che affievolisce in nemmeno una manciata di secondi. «Me lo stai - davvero chiedendo?» borbotta e strabuzza gli occhi.
Simone, tuttavia, rimane serio. Perché ormai la domanda è stata posta, quindi una risposta la vuole. Un sorriso si delinea sulle sue labbra, amaro e malinconico. «Ti piaccio o no?» insiste.
«Che domanda del cazzo, Simò».
«Boh, è una domanda normale. Che rispondi?».
Manuel scuote il capo e alza gli occhi al cielo. Glielo ha ripetuto ogni giorno che lo trova bellissimo, in ogni caso, per cui non comprende proprio il punto della questione. «Non rispondo niente» attesta.
«Quindi non ti piaccio».
«Smettila, non ho detto questo» sospira sommessamente e si sdraia su un fianco, tenendo un braccio piegato e reggendosi la testa con una mano. «Te lo dico ogni giorno che sei bellissimo» gli fa presente «Non basta come risposta?».
«Non vuol dire niente» Simone insiste «Perché me lo dici e basta e poi non...». Smette di parlare per un breve istante, mordendosi piano il labbro inferiore. «Non scopiamo manco più».
All'udire l'ultima frase, a Manuel scappa una risata, sull'orlo dell'isterismo. «Da quando usiamo 'sti termini, principino?» cerca di smorzare la tensione.
Simone rimane serio e immobile. «Non mi chiamare così» lo rimprovera «Sono serio».
«Seh, pure io só serio».
«Però non mi hai - risposto».
Manuel sbuffa e alza gli occhi al cielo. «Me piaci sempre» tenta di rassicurarlo, per quanto gli paia stupida come cosa - non ce n'è bisogno. «E se non scopiamo è perché - stai male adesso, okay? Possiamo aspettà per quello».
«Mica abbiamo tutto 'sto tempo, Manuel».
Che il tempo è davvero un bastardo, quando ci si mette.
Manuel non lo vuole considerare, quello, il fatto che abbiano poco tempo. Perché ne hanno avuto poco insieme, sicuramente non abbastanza.
E lui quel tempo lo vorrebbe prendere a morsi, agguantarne quanto più possibile, insieme a Simone.
È questo pensiero devastante e fin troppo razionale a guidarlo poco dopo a spingersi in direzione del compagno, a baciarlo sulle labbra con passione, quella che negli ultimi tempi ha trattenuto per paura di essere troppo - di potergli fare male, di potergli dare fastidio.
Ma a Simone non dà fastidio. Anzi, in mezzo a quel bacio sorride, è contento di quel gesto e allora cerca di esserne partecipe, appoggia una mano sul lato del suo collo, lo attira di più a sé.
Per una frazione di secondo, gli pare di essere tornato alla normalità perché sente il suo respiro sulla pelle, il suo calore, la sua saliva che si mescola alla propria ed è bello.
Baciare Manuel è un po' come tornare a respirare.
Tuttavia, la realtà poi torna alla ribalta. Perché il tempo è bastardo e la realtà è davvero una stronza.
Simone è ancora immerso in quel bacio, con Manuel addosso, quando qualcosa accade: sta tenendo una mano sul petto del compagno, ma essa comincia a tremargli, ad avere movimenti sconclusionati e involontari. Sono gli stessi che, in seguito, gli fanno sussultare il petto e gli fanno emettere un gemito di fastidio. Cerca di ignorare quei segnali, gli spasmi che lo colpiscono e lo fanno sussultare.
Cerca di aggrapparsi alla maglietta del compagno, che soltanto allora si ferma e «Oh, che hai?» si allarma. Teme di avergli fatto davvero male.
Manuel si tira leggermente indietro, sebbene gli risulti difficile dato che Simone continua a strattonare il tessuto della maglietta che indossa. Quest'ultimo scuote il capo e «Non – non è niente, non ti – fermare, ti – ti prego» pigola. È una supplica di chi è allo sbaraglio, di chi la realtà, per un breve attimo, vuole ignorarla ed è impossibilitato a farlo. Soffoca l'ennesimo singhiozzo.
Manuel, però, non ha intenzione di andare oltre, non mentre l'altro ragazzo gli si sta sgretolando tra le braccia, tra quei dannati spasmi che gli smorzano il respiro e lo fanno sudare. Allora si sposta su quel materasso, ci si mette dapprima in ginocchio, dopo solleva di peso il compagno soltanto per potersi sedere dietro di lui, facendolo accomodare tra le proprie gambe appena divaricate. Fa aderire il proprio petto alla sua schiena e lo stringe a sé, tenendo ferme le sue braccia incrociate al suo torace, cercando di placare i movimenti involontari e sussultori che si espandono in ogni fibra del suo corpo.
Non è un attacco epilettico, quello ha imparato a riconoscerlo e gestirlo – ha stressato ogni persona esistente in ospedale per tal motivo; è qualcosa di diverso, che sa che in quel modo un briciolo può calmare.
In maniera involontaria o meno, delle solitarie lacrime rigano il viso di Simone, che cerca di scacciarle via, sbattendo le palpebre. «Manuel...» cantilena.
«Shh, sono qui» Manuel glielo sussurra ad un orecchio e preme le labbra sulla sua tempia. Lo culla docilmente, con lentezza. Non gli dice che va tutto bene perché una simile frase lo farebbe stare forse peggio, perché l'hanno usata talmente tanto da consumarla. Gli ripete solo «Sono qui, non ti lascio. Sono qui». E basta quello.
**
Simone sente le palpebre pesanti. A causa dei farmaci, non riesce a stare sveglio per molto, ma nemmeno a dormire per lunghi periodi, quindi alterna le due cose in intervalli più o meno regolari.
Quando riapre gli occhi, è notte fonda. Nota subito la presenza di Manuel al lato destro del letto, che ancora gli stringe una mano, accovacciato su una sedia di metallo e con la testa sopra il bordo del materasso – perché il sonno ha colpito pure lui; sta dormendo, sfinito, e non vuole svegliarlo.
«Gliel'ho detto di andare a casa, ma ovviamente non mi ha ascoltato». Una voce ben conosciuta gli giunge alle orecchie. Gli è sufficiente voltare il capo di mezzo centimetro per scorgere Dante, dal lato opposto del letto, anche lui accomodato seduto lì accanto.
Simone sospira sommessamente. «Testardo» biascica.
Il professore abbozza una risata, priva d'entusiasmo. «Sì, è testardo» commenta «Come te, del resto».
Il ragazzo curva le labbra in un mezzo sorriso che gli tira le guance. Osserva il volto del padre: lo vede cupo, spento, nonostante si sforzi di avere un'espressione che emani conforto, che gli suggerisca che va tutto bene. Ma al fatto che andrà tutto bene si è arreso e non ci crede più.
Così pensa, ad un sacco di cose: a come ha recuperato i rapporti con lui tardi, a come non ha vissuto in armonia in sua presenza per gran parte dell'infanzia e dell'adolescenza, a come ha sperato di farlo in età adulta.
Ma il tempo ha deciso di avercela con lui.
Con loro.
«M-mi... Dispiace» biascica e non si è accorto della singola lacrima che gli scivola sulla guancia.
«Per cosa?».
Simone esita per un breve istante. Manda giù a fatica della saliva. «Per - Jacopo» soffoca. Non specifica altro, non serve. Basta quel per Jacopo affinché il padre capisca a cosa si riferisce, a quella frase crudele che mesi prima gli ha riservato. «Che perdi - me».
Che perdi anche me.
Dante tira su col naso. Gli occhi gli si son fatti lucidi, ma sorride ancora – ed è strano come tutti attorno a Simone continuino a sorridere, nonostante tutto, soltanto per lui. «Non ti perdo» mormora «Tu sei qui». Allunga una mano, che va a posarsi sul braccio del ragazzo, facendo attenzione a non smuovere nessun ago. «Sei qui e rimani qui, d'accordo?».
Simone vorrebbe pure ridere, per quanto stoni in quel momento. Perché lo sa che potrebbe non essere vero.
Socchiude le palpebre per un breve istante. «P-papà bugiardo» biascica.
«Papà dice solo verità». Dante un po' ci crede, a quello. Al fatto che Simone non lo perde, che non perde pure lui.
Deve farlo perché attorno ogni cosa sta crollando ed è ciò di cui il figlio ha bisogno.
Di qualcuno che gli dica che il tempo si può fermare, che possono farlo fermare per recuperare quello perso e che tutto si aggiusterà.
Ancora una volta.
*
(Note autore: la scena di "amo te" prende spunto da un episodio di Grey's Anatomy)
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