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Il patto

Nell'ultimo mese - o poco più - Simone ha evitato di guardarsi troppo allo specchio: lo fa il minimo indispensabile, come per sistemarsi i capelli o farsi la barba. Per il resto, cerca di non renderlo possibile, spostando lo sguardo altrove.

Non lo fa perché ogni volta non può che notare il modo in cui il proprio corpo sta cambiando: la perdita di tono muscolare che sta divenendo evidente, il pallore ancora più accentuato rispetto al solito, i due cerchi scuri attorno agli occhi che ha indipendentemente se dorma oppure no.

Adesso, davanti allo specchio del bagno ci è costretto per forza, vestito con una camicia blu scuro che dovrebbe calzare a pennello e che, invece, gli sta larga sul busto e leggermente sulle braccia. Nota che le occhiaie, quella sera, sono più marcate rispetto ai giorni precedenti.

«Manuel?» richiama il compagno, alzando il tono della voce per farsi sentire. «Manu?».

Manuel ci impiega qualche secondo per spuntare sulla soglia della porta, privo di maglietta, con i capelli arruffati e ancora umidi. «Che?» esclama.

Simone gli rivolge uno sguardo distratto. «Lo hai preso il correttore?» domanda, riportando l'attenzione sul proprio riflesso. Sfiora con l'anulare il segno di colore differente che ha sotto un occhio.

Manuel annuisce. «Seh, sono passato oggi, aspè» dice e, per una frazione di secondo, scompare, per poi riapparire con un tubetto di plastica trasparente in mano.

Entra nel piccolo bagno quadrato dalle mattonelle azzurre, porgendo l'oggetto all'altro ragazzo. Quest'ultimo lo recupera nell'immediato. Fatica a scartarlo, dato il rivestimento rigido di protezione, ma, alla fine, ha successo.

Purtroppo, però, gli è sufficiente aprire quel tubetto e versare una goccia di prodotto sul dorso della mano per capire che la colorazione è sbagliata e va in netto contrasto con la propria pelle.

«Ma è scurissimo» commenta, con un briciolo di delusione nella voce.

Nel frattempo, Manuel non si è mosso; ha avuto l'istinto di aiutarlo ad aprire la confezione e si è trattenuto a stento. Aggrotta le sopracciglia e «Ma va» bofonchia «Ho chiesto alla commessa, le ho pure detto che avevamo un colorito simile».

«Non lo abbiamo manco normalmente un colorito simile» borbotta Simone. Tenta lo stesso di spalmare quel poco di correttore sulla mano, come se sfumarlo potesse risolvere la situazione; piuttosto peggiora, divenendo arancione. «Non posso metterla 'sta cosa» biascica.

Un briciolo, Manuel ci rimane male. In realtà, si è pure impegnato quella mattina, a cercare qualcosa che potesse coprire quelle occhiaie: all'inizio, gli è parsa una richiesta superflua e assurda, ma poi ha compreso il suo disagio e si è dedicato ore alla ricerca di qualcosa che fosse perfetto. Solo che non ci è riuscito bene.

«Scusa» pigola «Domani vado a cambiarlo».

Simone ha lo sguardo basso. Richiude il tubetto di plastica e lo appoggia distratto sul bordo lavandino. Scuote il capo. «No, non fa niente» sussurra.

«Davvero, non me costa nulla».

«Sul serio, non importa» sospira «Sembrerò un morto che cammina tutta la sera, almeno sono coerente». Accenna una risata, priva di entusiasmo.

A ridere, Manuel non ci pensa neppure. Lo scruta, dapprima attraverso la superficie riflettente, dopo portando gli occhi sul suo profilo. «Possiamo pure non andà stasera» propone.

«Perché sei tu quello che non vuole andarci» fa notare Simone, voltandosi nella sua direzione. Sono uno di fronte all'altro, ora.

«Vero» attesta Manuel «Ma so pure che oggi è stata tosta per te, quindi possiamo starcene a casa e saltare una stupida cena con gli ex compagni del liceo».

«Mi va di andarci».

«Sicuro?».

«Sì. Sto bene. Mi stai usando come scusa».

«Non è vero, per me è uguale» sbuffa, mentre afferra l'asciugamano dal gancio di metallo posto accanto al lavandino, lo stesso che apre, facendo scorrere l'acqua. Prende con delicatezza la mano del compagno, per andare a lavarla e rimuovere la traccia arancione del correttore.

Chiude il rubinetto e utilizza l'asciugamano per tamponare la pelle. «Me scoccia un po', però possiamo fà un patto» propone.

Simone osserva quei gesti lenti e curati che il compagno gli riserva. Di norma, se ne lamenterebbe perché è capace di farlo da solo, sostenendo che non lo deve trattare come un bambino. Tuttavia, almeno in tale occasione lo lascia agire, non proferendo parola. «Che patto?» domanda.

«Io vengo alla cena senza lamentarmi per tutta la sera» esclama Manuel «E tu smetti di andare a correre la mattina».

Un'ulteriore risata riecheggia nell'ambiente, sull'orlo dell'isterismo. «Non mi sembra un patto molto equo» è la replica di Simone.

«Sì che lo è» Manuel non demorde «A me non va de venì alla cena, ma a te sì. A me non va che vai a corre la mattina, a te sì. O una cosa o l'altra, Simò».

«Ci posso andare anche da solo alla cena».

«Non ce vai da solo» ribatte subito. «Allora? Va bene il patto?».

Simone tentenna. No, non gli sta molto bene quell'accordo, perché non ci guadagna nulla, a parte una serata fuori. Tuttavia, è pressappoco convinto che non otterrà qualcosa in più o di diverso da quella discussione, quindi «Okay» sussurra «Però sei uno stronzo».

«Una volta m'hai detto che mi ami anche e soprattutto per questo».

Touché. Simone glielo ha detto davvero, una volta. È stata una delle prime volte in cui glielo ha detto, in realtà. Che è uno stronzo, ma lo ama per questo. Ed è sempre stato buffo come concetto.

Manuel, d'altra parte, non ha mai compreso il motivo per cui uno stronzo, come descrive sé stesso, possa venire amato da un'anima così pura come quella di Simone. Ma è quel che succede. A volte se ne chiede il motivo, però presuppone che non esista. Che sia capitato e basta.

«Ti amo anche per questo» dice Simone, a voce così bassa da essere a stento percettibile.

Manuel posa una mano sulla sua guancia, sfregando il pollice su uno zigomo. «Non se vedono troppo le occhiaie» sussurra e si sporge in avanti per depositare un bacio fugace sulle sue labbra.

Simone sforza un sorriso. Sa che non è vero perché la vista la possiede e il riflesso nello specchio dice il contrario, ma sorvola. Lascia che Manuel finisca di vestirsi e lui di prepararsi.

Sono pronti entrambi quindici minuti dopo, in procinto di abbandonare il piccolo appartamento.

Tuttavia, prima che possano farlo, vengono preceduti dall'ingresso di Dante e Anita - che entrano nella dépendance senza neppure bussare, cosa di cui Manuel finisce per lamentarsi sempre. È proprio quest'ultimo ad alzare gli occhi al cielo nel momento in cui li vede comparire sulla soglia della porta, con due sorrisi forzati stampati in faccia.

«A mà, non se bussa più?» borbotta. La sua frase viene completamente ignorata, poiché gli occhi della donna sono fissi sull'altro ragazzo, si spostano solo per un attimo, per poi tornarci nell'immediato.

«Siamo passati solo per un saluto» spiega Dante, tenendo le mani intrecciate dietro alla schiena «Oggi non ci siamo visti tutto il giorno».

«Sì, esatto, un saluto» aggiunge Anita. «Voi state andando, giusto? Alla famosa cena coi compagni».

«Ex compagni» puntualizza Manuel.

«Seh, ex. Che cambia».

«Cambia che non semo più a scuola, ma vabbé».

Viene nuovamente ignorato. Anita scrolla le spalle e muove qualche passo in direzione di Simone, rimasto fermo in piedi poco fuori la soglia della porta del bagno. «Oh, questa è la camicia che t'ho comprato io» esclama «'Spetta che te sistemo un po' il colletto». Fa quel che ha detto - e Simone corruccia le labbra in una smorfia di fronte a tal gesto.

La donna traffica col tessuto della camicia per qualche secondo, dopo sorride. «Stai proprio bene» esclama «Davvero, davvero - bene e...» la sua voce si incrina.

All'interno di quella stanza lo sanno tutti quel che sta per succedere, ossia che Anita si sta commuovendo, come fa ogni volta che ha davanti Simone - è più forte di lei, non si trattiene per nulla, la sua emotività la annienta.

Così Manuel interviene, la prende per le spalle e la tira via, con delicatezza e «Sì, ma', che avemo detto sui sentimentalismi?» la rimprovera. Fa un cenno col capo a Dante, strabuzzando gli occhi.

«Magari la prossima volta avvisiamo prima di venire» commenta l'uomo.

«Eh magari sì, professò» replica Manuel - che lo chiama ancora in tal modo nonostante il diploma lo abbia preso da anni. Dante cinge i fianchi di Anita con un braccio, sforza l'ennesimo sorriso e «Meglio che andiamo» annuncia; la donna si limita ad annuire, a borbottare un «Sì, scusate - divertitevi» mentre si asciuga col dorso della mano la guancia bagnata da qualche lacrima.

Simone osserva tale scena senza osare muoversi. A tratti, la trova pure comica. O tragicomica, deve ancora decidere.

Li segue con lo sguardo finché non spariscono dal proprio campo visivo, ossia fuori dalla porta della dépendance. È rimasto soltanto Manuel, che allarga le braccia, esasperato.

«La smetterà mai di piangere ogni volta che mi vede?» chiede, sospirando.

«Mia madre? No, non credo». Manuel scuote il capo e muove qualche passo per essergli di fronte. «È solo che è - super sensibile, non darle retta. Poi je passa».

Simone cerca di non darle retta, sebbene nella propria testa ogni cosa gli ricordi che, nella realtà, le persone che lo circondano sono tutte come Anita: tutti vorrebbero piangere per lui, essere tristi per lui perché tutti sono distrutti da quel che gli sta capitando. Solo che Anita lo dimostra apertamente e altri, come Manuel o Dante, se lo tengono dentro e non danno alcun cenno di tracollo.

Onestamente, non sa cosa preferisce o meglio, cosa tollera di più.

Annuisce, comunque, ad accordare la sua affermazione. «Perlomeno alla cena non piangerà nessuno» attesta. Fa riferimento al fatto che, dei loro amici, nessuno è stato informato della malattia. Per quel che può, vuole tenere le persone all'oscuro, almeno quelle che non vivono a qualche metro di distanza.

Manuel non è mai stato molto d'accordo, ma ha accettato il desiderio del compagno senza azzardarsi a contraddirlo. «Vogliamo andà?» esclama, in seguito.

Simone fa ancora cenno di sì con la testa. «Sì, andiamo».


**


Alla cena degli ex compagni di classe, non partecipano davvero tutti: sono un numero molto ridotto, poiché molti si sono trasferiti in altre città per l'università o, semplicemente, non hanno accettato l'invito. Oltre a Simone e Manuel, sono presenti Chicca, Matteo, Luna e Giulio.

Beh, insomma, una rimpatriata a stretto giro.

Il ristorante dove hanno prenotato si trova nei pressi di Trastevere. Ha un dehor esterno con una struttura in legno che lo circonda e delle piante a foglia verde come ornamento; attorno al perimetro superiore, sono appese delle lampadine, piccole e una dietro l'altra come fossero lucciole. All'interno, le pareti sono bianche e verde petrolio e i tavoli posti nei due lati più lunghi della sala, con divanetti di finta pelle nera da un lato e sedie di legno bianche dall'altra.

Considerata la bassa temperatura, la cena si consuma all'interno - e Manuel ringrazia per tale decisione.

«Vabbé, ma allora lo volemo fà sto brindisi?» esclama Matteo, seduto a capotavola. Solleva il calice contenente vino bianco frizzante, attendendo che i presenti facciano lo stesso, il che accade, poco dopo. «Finalmente ce l'avemo fatta a vederse».

«Ma vedi che sei tu che trovavi sempre una scusa» fa notare Giulio, accanto a lui.

«Beh, regà, ce stava la sessione, oh».

«Seh, vabbè» ridacchia Chicca, tirando una gomitata a Luna che le è accomodata di fianco.

Simone li osserva e mette giù il bicchiere pieno che gli hanno riempito - partecipa in modo passivo a quel brindisi e sforza un sorriso. Manuel gli è vicino; da sotto il tavolo, non ha mai rimosso la mano dalla sua coscia.

«Mattè, non ce crede nessuno alla scusa de' la sessione» puntualizza Luna, scrollando le spalle «Nun ce volevi vedè».

«Non è vero! Altrimenti non organizzavo un bel niente» è la pronta giustifica del ragazzo.

«Guardate che se volete, ve lo cediamo» interviene Manuel «Noi lo vedemo fin troppo».

Gli sfugge una risata. Si volta verso il compagno per vedere se sta ridendo anche lui. Lo fa sempre quando ride: si accerta che lo stesso entusiasmo colpisca pure Simone, come per osmosi. Tuttavia, quest'ultimo più che un sorriso non riesce a farlo, anzi, pare piuttosto assente - il che è contraddittorio, dal momento che ha insistito tanto per partecipare a quella serata.

«Ah, sì? Se auto-invita ancora a casa vostra?» chiede Chicca, bevendo un sorso di vino.

«Viene spesso, sì» è la risposta di Manuel e subito «Nell'ultimo mese zero volte, devo recuperà» sottolinea Matteo.

Simone socchiude le palpebre per una frazione di secondo, poiché lo sa il motivo per cui le visite dell'amico sono drasticamente diminuite nell'ultimo mese, tipo che Manuel ha sempre trovato una scusa per rendere entrambi non disponibili per qualunque cosa. Cerca di non rimuginarci troppo. Però fallisce, si distrae, pensando a quante cose sono cambiate in quei trenta giorni, in quel periodo relativamente breve durante il quale la propria vita è stata stravolta.

Ed è assurdo, a ragionarci, come una intera esistenza possa ribaltarsi in così poco tempo, così in fretta da non avere neppure l'occasione di chiedersi il perché.

«Oh, Simò? Ci sei?» la voce di Luna lo riporta alla realtà. «Tutto bene?».

Simone annuisce, ma ciò non è sufficiente ad evitare Chicca che incalza «Da quanto sei astemio?».

«Vero, Simò, non hai toccato er vino» esclama Matteo «Non te piace?».

Manuel non attende neppure la reazione del fidanzato, piuttosto finge un colpo di tosse e «Je piace de più il rosso» dice.

Per un attimo, a Simone pare dì soffocare. Non può far altro che accordare tale affermazione e biascicare «Sì, meglio il rosso».

«Se vuoi lo ordiniamo e...».

«No, Mattè. Sono a posto così, grazie». Per sua fortuna, nessuno insiste troppo - e ringrazia per questo.

Le chiacchiere tra gli ex compagni di liceo proseguono tranquille, sul più e meno, senza toccare argomenti troppo profondi.

Leggerezza.

È la cosa che Simone dì più apprezza, che per un attimo - un solo breve istante - lo colloca in un mondo dove sta bene, dove la diagnosi non è mai arrivata, dove può chiudersi in camera con Manuel a fantasticare sull'appartamento che prenderanno insieme quando avranno abbastanza soldi, con un ampio balcone, all'ultimo piano e un bagno con una grande vasca.

E invece...

Invece ci pensa il proprio corpo a ricordargli che quel mondo, quella realtà parallela alla quale aspira non esiste.

Succede nel momento in cui ha mangiato soltanto una fetta di pizza alla marinara e ha mandato giù un solo boccone. Percepisce lo stomaco rivoltarsi, la sensazione di nausea appropinquarsi in maniera sempre più repentina.

Di quel lieve malessere, Manuel se ne accorge, tra il chiacchiericcio che aleggia sul tavolo. «Tutto okay?» gli mima con le labbra, senza emettere suono.

Simone annuisce e butta giù a fatica la saliva. «Sì, uhm» borbotta «Vado solo un attimo - in bagno».

Manuel non fa in tempo a fermarlo. Lo guarda andare via con la coda dell'occhio, frenandosi dall'istinto che ha di seguirlo nell'immediato. Stringe i pugni sopra al tavolo.

«Successo qualcosa?» è la domanda che gli arriva alle orecchie, posta da Giulio.

Sforza una risata, piatta e assente. «No, no» risponde «Ha - avuto un po' di problemi di stomaco ultimamente, gira l'influenza». Tergiversa, in realtà sta morendo dentro.

Non resiste troppo seduto. Circa tre minuti prima di alzarsi con uno scatto, congedarsi con «Torno subito» e raggiungere il compagno in bagno.

Il luogo in cui approda è davvero piccolo: uno stanzino quadrato con due porte verde militare - distinte per uomini e donne - e uno solo lavandino con uno specchio appena sopra. I rumori che sente provengono dal posto riservato agli uomini: Simone che tossisce e dei lievi singhiozzi.

Manuel si mette davanti alla porta chiusa, appoggiandoci un palmo sopra. «Simó?» lo richiama.

«Sto bene» bofonchia Simone «Torna di là».

«Ma che torno di là» è la pronta replica «Aprime, dai».

«T'ho detto di no».

«Vedo solo se stai davvero bene e me ne vado». Manuel non ha intenzione di accontentarlo e andar via. No, per nessuna ragione al mondo uscirà da quel bagno senza di lui. «Simó?» lo richiama ancora.

Ci vuole qualche altro minuto prima che la porta verde venga aperta. Simone gli appare davanti con gli occhi arrossati e lucidi e le labbra gonfie. Ad una visione simile, purtroppo, Manuel ci sta facendo l'abitudine. «Visto che non ce voleva tanto?» sussurra, cercando di tenere un tono pacato e gentile.

«Non c'era bisogno che...».

«Che venivo, o' so. Per te non c'è mai bisogno» sospira sommessamente. «Viè qua». Lo prende per mano per condurlo al lavandino.

Lì davanti, Simone cerca di osservare qualunque cosa non sia il proprio riflesso allo specchio. Chiude addirittura gli occhi pur di non farlo, così nemmeno si accorge del compagno che torna indietro, a raccattare un pezzo di carta igienica, lo stesso che inumidisce con l'acqua del rubinetto per poi ripulire i lati della sua bocca.

Anche stavolta, lo lascia fare senza obiettare. Tira su col naso. «Volevo stare - bene, stasera» mormora.

Manuel non lo ascolta inizialmente, procede con quei gesti attenti e delicati. «Lo so» sussurra, inclinando il capo su di un lato «Non hai preso la roba per la nausea oggi?».

«Sì, ma non funziona molto».

«Forse te devono dà qualcosa de più forte». Finisce di tamponare la sua pelle e getta il pezzo di carta nel cestino poco distante. «Ce la fai a tornà de là?» chiede, dopo. «Se vuoi ce ne possiamo pure andare a casa, invento 'na scusa e...».

«No, ce la faccio» lo blocca Simone. Manuel non è troppo convinto, infatti lo fissa in maniera truce, tanto da portarlo ad affermare nuovamente: «Davvero, è passato».

«Simò...».

«Non rompere». Il loro dialogo viene troncato in quel modo, con Simone che abbandona il bagno sbuffando e Manuel che lo segue poco dopo, rassegnato.


**


Simone non lo mantiene il patto.

In realtà, non ha avuto l'intenzione di farlo dal primo momento in cui è stato menzionato.

Per cui, in quella nuova mattina, si infila la solita tuta, la maglietta termica color verde petrolio e inizia la corsa quotidiana. Non ci pensa nemmeno a restare a letto, a casa, al caldo – soprattutto.

Dura sempre un'ora, più o meno.

Cerca di ignorare la stanchezza che lo travolge dopo solo qualche metro, il fatto che percorra un tratto pari ad un terzo o meno rispetto a quanto è abituato. Non importa, non pensa smetterà presto.

Sono le 7:10 del mattino quando è in procinto di rientrare. Tiene le mani sui fianchi, indirizzandosi verso la dépendance. Percepisce i polmoni che gli vanno in fiamme, un dolore costante al centro del petto e, incredibilmente, quel dolore gli piace pure. Lo fa sentire vivo.

Non è molto razionale, questo lo sa.

«Simone? Simone!».

Una voce lo richiama. Gli è sufficiente voltare un briciolo il capo per notare, da distanza, Dante sotto al porticato della villetta dalle pareti gialle, con un braccio alzato per poter attirare la propria attenzione.

Simone manco ce l'ha la voglia di andare da lui, di ascoltare altre riflessioni filosofiche sul senso della vita – cosa che il padre ha intensificato nel fare nell'ultimo periodo – o peggio, racconti su quando era piccolo, che finiscono sempre per macchiarsi con la malinconia, l'angoscia sul non voler perdere un altro figlio.

No, non è per nulla in grado di sostenere una conversazione del genere, di nuovo.

Vorrebbe tornare a casa, buttarsi sotto la doccia e pensare a ben altro.

Tuttavia, di sfuggire non ne è in grado poiché «Simone, puoi venire un attimo?» insiste Dante.

Ecco, deve andarci per forza.

Lo fa con passo strascicato, con davvero poca intenzione. Si ferma quando gli è davanti, non varcando, però, la soglia del porticato. «Che c'è?» bofonchia.

Dante lo guarda col capo piegato su di un lato, le mani unite dietro alla schiena e gli occhi ridotti alla fessura. «Pensavo avessi fatto un patto con Manuel» dice «Sul non andare a correre».

«Te che ne sai?».

«Lascia perdere come lo so» replica – la risposta è piuttosto ovvia, comunque, considerato che Manuel ormai gli confida qualunque cosa. «Allora?».

«Allora che?» sbotta Simone e scrolla le spalle. «È un patto stupido».

«Mi sembra un patto piuttosto saggio, in realtà».

Rotea gli occhi, esasperato. «Da quando stai dalla sua parte?». Sì, l'unione fidanzato e padre non lo fa impazzire, al contrario.

«Non sto dalla parte di nessuno» spiega Dante, con estrema pacatezza – riesce ad esserlo in quasi tutte le situazioni, calmo e pacato. «Non serve stare dalla parte di qualcuno, ma un patto è un patto, dovresti rispettarlo».

Simone annuisce, con fare ironico. Contorce le labbra in una smorfia. «E voi dovreste lasciarmi un po' in pace, che ne dici di questo?» esclama. È furioso, d'improvviso. Non ascolta il resto della frase che Dante comincia, tantomeno il suo «Volevo solo parlare, Simone» e gli altri richiami.

Lo ignora, voltandosi e camminando rapido verso la dépendance. Quando entra, sbatte la porta alle proprie spalle, facendo quel rumore che sperava di evitare; così si morde forte il labbro inferiore.

Ciò nonostante, si accorge che il proprio sforzo non sarebbe comunque servito dal momento che Manuel è già in piedi, in cucina, probabilmente sveglio da poco, che lo fissa con espressione assente – o delusa.

Simone gli rivolge un'occhiata tagliente, ancora scosso per la breve conversazione avuta con il padre – che manco significa nulla, che manco dovrebbe agitarsi così tanto; però lo fa, qualcosa lo smuove da dentro.

Non ne vuole affrontare un'altra, sul medesimo argomento, sorbirsi una seconda predica su quel dannato patto che non ha mantenuto. Scuote il capo e, alla fine, ignora il compagno, andando in camera da letto, chiudendosi a chiave dentro.

Gli pare di poter riprendere fiato soltanto in tale istante. Appoggia la schiena alla porta, porta indietro il capo e chiude gli occhi. Tenta di regolarizzare il proprio respiro, scosso sia dalla corsa, dalla conversazione con Dante, dallo sguardo di apprensione misto a delusione di Manuel.

Sono tutte cose che gli pesano addosso al pari di un macigno.

«Fanculo» borbotta, con la voce spezzata. Muove qualche passo, distratto, sperando che il compagno non venga a bussare - per sua fortuna, non succede.

Si getta sul letto, di peso, anche se è tutto sudato e dovrebbe farsi una doccia, ma quello equivarrebbe ad uscire dalla stanza, incrociare di nuovo Manuel e quindi dover per forza parlargli e...

No, meglio di no. Prima deve calmarsi.

Raccatta il cellulare che ha tenuto in tasca fino a quel momento. Sblocca lo schermo, inserendo l'apposito codice. Ci sono una serie di notifiche dai vari social network che neppure guarda, altrettanti messaggi WhatsApp di gruppi a cui lo hanno aggiunto e che si è dimenticato di silenziare.

Le cestina tutte.

Ne apre soltanto una di conversazione, dal numero registrato come Mattè. C'è un audio, che fa partire portandosi il telefono vicino all'orecchio: "Bella, Simò! Te va se in 'sti giorni se beccamo? Una robetta così in giro, ce stanno locali carini, magari dillo pure al ragazzo tuo che non me responne mai. Famme sapè. Cià, cià".

È sul punto di rispondere, ma viene preceduto da un bussare alla porta.

Ecco, pensa, la tregua è durata poco.

Inizialmente non ha per nulla voglia di alzarsi e andare ad aprire. È ancora troppo presto e l'accenno di frustrazione non gli è ancora passato. Tuttavia «Simò? Me apri, per favore?» pigola Manuel dall'altra parte; deve insistere per qualche minuto prima che Simone si decida a tirarsi su, trascinare i piedi sul pavimento e, finalmente, sbloccare la chiave nella serratura e aprirgli.

Si ritrova davanti l'altro ragazzo, la sua espressione non è per nulla cambiata. «Che vuoi?» sospira.

Manuel scrolla le spalle. Cerca di non rendere troppo evidente il fatto che sia alterato. «Sei uscito pure stamattina» fa notare.

Simone si lascia andare ad un respiro sommesso, appoggiando una spalla allo stipite della porta. «Seh» borbotta «Quindi?».

«Quindi la memoria me funziona» ribatte Manuel «Avevamo un patto».

«Mica abbiamo fatto un patto di sangue. Te l'avevo detto che non mi stava bene».

Socchiude per un breve istante le palpebre, mordendosi piano l'interno della guancia. «Non me va de scherzà, Simò» biascica.

Simone finge indifferenza, corruccia le labbra in una smorfia. In tutta onestà, neppure si sente così in torto ad aver rotto di propria volontà un simile accordo. «Manco a me» dice.

«Allora perché stai a fa' così?» è la replica immediata «Te comporti da stupido quando non lo sei manco pe' niente».

«Sono stupido perché sono andato a correre senza il tuo permesso?».

«Lo sai che non è quello che intendo».

Sì che lo sa che non è quello che intende. Sì che lo sa a cosa davvero si riferisce, al vero motivo per cui non vuole che vada a correre la mattina e che non faccia tutta una serie di cose che prima son sempre state normali.

Lo sa, ma probabilmente dirlo ad alta voce renderebbe tutto terribilmente reale e, per un po', Simone vorrebbe continuare a vivere in quella bolla d'illusione dove la propria vita viaggia ancora sul binario giusto.

«Vabbé» tronca di netto il discorso - di nuovo. Scuote il capo e scansa il compagno in malo modo. «Dove vai?» si sente dire dietro quando ha mosso soltanto qualche passo. Simone compie mezzo giro su sé stesso, quel che è sufficiente per poter osservare l'altro a qualche metro di distanza.

«A fare la doccia e poi me metto in giardino» esclama, alzando troppo il tono di voce «Posso oppure ho bisogno della benedizione tua pure per questo?».

Manuel rimane assolutamente immobile. Non sa che dirgli. Non lo sa mai quando succede qualcosa del genere, quando il compagno lo respinge o lo tratta male. E ultimamente capita spesso. Troppo spesso, col suo umore altalenante che lo fa passare da rabbioso a impaurito nel giro di pochi istanti.

Lui incassa e basta, ogni volta, come se questo servisse all'altro da sfogo.

Quindi non fa niente, resta in silenzio, osservandolo allontanarsi e poi sbattere la porta del bagno con violenza.

Simone si ritrova nuovamente solo, in un'altra stanza, più piccola e dove fa davvero più caldo. Ha ancora il telefono in mano e la conversazione con Matteo aperta.

Quindi non ci pensa e digita in maniera veloce.

To: Mattè
Non credo Manuel venga, è indietro con lo studio. Ci possiamo beccare noi due. Dimmi solo dove.


**


Manuel è arrabbiato. Forse meglio dire infastidito.

Forse triste. Forse tutte queste cose insieme, se mai è possibile contenere così tante sensazioni ed emozioni all'interno di un unico individuo.

Fa su e giù sotto al porticato della villetta dalle pareti gialle, mentre il proprio sguardo perennemente guizza poco lontano, sulla sdraio in giardino dove si è sistemato Simone, con una felpa verde scuro che gli sta larga addosso e gli occhiali da sole. Di quello ce n'è poco e, per essere vicini all'inverno, non riscalda poi così tanto.

«Che stupido» borbotta Manuel, tra sé, le mani sui fianchi e ancora i piedi che lo fanno muovere in qualunque direzione che quasi rischia di consumare il pavimento.

Dante è seduto al lungo tavolo di legno che presenzia in quel luogo. Ha un libro davanti, che sta tentando invano di leggere. «Manuel...» sibila, non distaccando gli occhi dalle righe del romanzo che non si sta sforzando di comprendere. «Se vuoi dirgli che è uno stupido, ti dovresti avvicinare. Non te sente da qua».

Manuel si blocca d'improvviso. Fissa il professore, sgranando gli occhi. «Gliel'ho già detto!» esclama «In più d'una occasione. Una volta m'ha pure risposto che non se prendono in giro i ragazzini malati e si è messo a ridere».

Dante sospira e rinuncia alla propria lettura. Congiunge le mani sopra la superficie piana e rivolge l'attenzione al ragazzo. «Perlomeno non ha perso il senso dell'umorismo» commenta.

Manuel aggrotta le sopracciglia, perplesso. Poi scuote il capo e muove qualche passo distratto. «Te pare normale che se ne va a corre da solo?» sbotta. «E se si sente male? Se me collassa in mezzo alla strada e non ce sta nessuno attorno? Dio, ma perché non ce pensa a 'ste cose». Cammina ancora, nervoso, fino a che non si siede di fronte all'altro. Rivolge l'ennesima rapida occhiata a Simone, torcendo appena il busto per farlo.

Socchiude le palpebre e butta giù a fatica della saliva. «Me sento come se...» soffoca «Come se stessi sbagliando tutto».

«Tutto cosa?».

«Co' Simone» replica e si passa una mano sul viso. «Pare quasi che - ogni cosa che faccio non va bene, ogni cosa che dico viene vista come 'na minaccia e poi finiamo per discutere per niente».

Fa ancora cenno di no con la testa e gli sfugge una risata sull'orlo dell'isterismo. «Passiamo più tempo a litigá che a fa' altro» prosegue «Questo sto sbagliando».

Dante ascolta in silenzio le sue parole. Lo fa passando lo sguardo dal suo volto al profilo del proprio figlio che può scorgere poco distante oltre le spalle del ragazzo che ha di fronte. Un sorriso amaro gli si delinea sulle labbra per una frazione di secondo.

«Non credo ci sia un manuale di istruzioni per questo» dice, a bassa voce.

«Dovrebbe esserci» biascica Manuel, arrendevole. «Perché la maggior parte delle volte non so che devo fa'. Se me preoccupo, lo faccio troppo e divento - opprimente. Se non lo faccio, allora è troppo poco e sembra che non me ne frega niente». Smette di parlare per un attimo, non perché voglia, anzi, ma uno strano magone lo blocca, gli smorza il respiro. Sta annaspando.

Dante se ne rende conto di quella sua difficoltà, non gli viene difficile. «Lo so che è difficile» dice «È una situazione veramente - di merda, scusami il termine».

A Manuel sfugge una risata, isterica. «Seh, scusato» biascica.

«Probabilmente litigherete ancora un sacco» riprende Dante «E poi farete pace, una infinità di volte. Però non credo tu stia sbagliando qualcosa, Manuel, anzi. Stai affrontando tutto questo nel miglior modo possibile». Fa una breve pausa, prendendo un respiro profondo. «Io credevo addirittura fosse qualcosa di troppo grande per te e che avresti - che saresti scappato. Ora mi rendo conto che non lo farai mai».

«Dove dovrei andare, professó?» ribatte Manuel, nell'immediato «Quel - coglione di Simone è diventato la vita mia».

«Lo so» attesta Dante «E lo sa pure lui».

E lo sanno tutti, in realtà.

«Dagli solo un po' di tempo e lo capirà da solo che non stai sbagliando nulla».

Conclude il dialogo in tal modo, frattanto che chiude il libro. Si alza in piedi poco dopo, compiendo mezzo giro intorno al tavolo per poter posare per un breve attimo una mano sulla spalla del ragazzo. Lo fa un po' per mostrargli conforto, per incoraggiamento e comprensione. Alla fine, è come se avesse a che fare con un altro figlio, considerando il bene che ha imparato a volergli. Gli rivolge un ultimo sorriso, prima di allontanarsi, abbandonando il romanzo sul tavolo, per rientrare in casa.

Manuel lo osserva sparire oltre la porta di legno.

In seguito, il proprio sguardo torna su Simone sulla sdraio. Lo vede con il capo inclinato su di un lato e il petto che si alza e abbassa in maniera lenta e regolare. Immagina si sia addormentato e vorrebbe svegliarlo e rimproverarlo per averlo fatto in giardino dove fa freddo.

Tuttavia, non fa nulla del genere. Piuttosto si desta e cammina rapido verso la dépendance, soltanto per entrarvi e raccattare una coperta a scacchi blu e verde in precedenza abbandonata sui cuscini del divano, che è la stessa che dispiega e, tornato in giardino, adagia sul corpo di Simone - non si è sbagliato, si è addormentato sul serio. Rimuove con delicatezza gli occhiali da sole, notando come essi gli abbiano lasciato due segni rossi sui lati del naso. Soppesa quell'oggetto in mano, mentre scruta il suo viso rilassato nel sonno.

E pensa a quanto Simone si stia comportando da stupido perché ha paura, ma pure che è troppo cocciuto per ammetterlo, per mostrarsi vulnerabile come se dovesse per forza indossare una maschera in quel momento, per dover sembrare invincibile pure contro la malattia.

E poi pensa pure a quanto sia bello con i tiepidi raggi del sole che gli scaldano i lineamenti del volto, ignorando del tutto le sue guance appena incavate e i segni scuri attorno agli occhi.

Pensa a quanto sia fortunato ad averlo nella propria vita. E al fatto che possa andarsene, lui...

No. A quello non vuole pensarci.

Tira su con il naso e si piega in avanti, soltanto per poter depositare un fugace bacio sulla sua tempia.

Sei una testa di cazzo, pensa.

E però ti amo.

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