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Come nelle favole

«Così te dà fastidio?» Manuel lo chiede in un sussurro. È sdraiato sul letto, con Simone che gli è addosso. Gli ha lasciato appoggiare la testa sul proprio petto, mentre con una mano gli cinge le spalle. Stanno cercando una posizione che sia comoda per entrambi, ma è difficile.

Difficile perché a Simone viene la nausea in qualunque modo si metta oppure gli fa male qualche parte del corpo. Tuttavia, è qualcosa che tenta di nascondere al compagno e quindi «Va bene così» lo rassicura.

Non va molto bene, ma tenta di regolarizzare il proprio respiro e sopportare.

«Sicuro?» Manuel insiste.

«Sicuro». Simone cerca di rilassarsi, almeno un briciolo.

La bandana che ha in testa - azzurra, con delle minuscole stelle bianche disegnate sopra - è della misura giusta, per cui non stringe troppo. Socchiude le palpebre. Da quella posizione è in grado di percepire il battito del cuore dell'altro ragazzo: è decisamente più forte rispetto al proprio.

Ma è sempre stato così: sono due opposti, in qualunque ambito.

Per esempio, Manuel ha la pelle calda, quasi bollente. È letteralmente un fuoco che scoppietta, che abbaglia, e ciò si riflette sul suo carattere. Le situazioni le affronta allo sbaraglio, perde spesso la pazienza; quando è in difficoltà e si sente alle strette, dalla bocca gli escono parole taglienti, alcune manco le pensa. Perché Manuel è quel fuoco che arde incontrollabile.

Simone ha la pelle più fredda, più pallida. È ghiaccio immobile, chiuso e riservato, che, quando tenta di aprirsi e sciogliersi, delle volte combina solo disastri. Fa un sacco di errori, di scelte sbagliate.

Perché Simone è quel ghiaccio che fatica a diventare acqua.

Sono fuoco e ghiaccio.

Sono Manuel e Simone.

E Simone pensa spesso a questo. Pensa alle proprie scelte sbagliate. E pensa che Manuel non è mai stato tra di esse.

Che probabilmente Manuel è la miglior scelta che ha mai fatto.

Che non è stato un caso che si sono incontrati, che non lo è stato ciò che hanno passato insieme, che neppure le urla durante i loro litigi sono mai state vane.

Che qualunque cosa fosse successa, inevitabilmente i loro cammini si sarebbero incrociati.

Di questo, ne è certo.

Del fatto che siano anime gemelle.

E a volte ci si accorge di avere un'anima gemella soltanto quando si rischia di perderla.

«Oh, Simó, ma te ricordi quando c'hanno beccato a pomicià nel bagno a scuola?» esclama Manuel ad un tratto.

La sua voce arriva alle orecchie di Simone appena ovattata. Ha le palpebre pesanti, ma un leggero sorriso si dipinge sulle proprie labbra. «Ci - volevano sos... Sospendere» biascica e quel ricordo un briciolo lo fa ridere, per quanto sia offuscato nella propria testa.

Manuel sfrega un palmo sulla parte superiore del suo braccio, per scaldarlo, perché lo sente tremare. «Pe' tre giorni» aggiunge «Ma te pare? Mica ce stavamo a menà».

«Prima ce - ci...».

«Prima ce menavamo sempre, 'o so. Ma eri tu ad attaccarme».

«No».

«Come no, sì! Me lo ricordo benissimo». Gli sfugge una fiacca risata. Ci sta provando ad essere divertito, leggero, ad avere un dialogo che non pesi per entrambi. Almeno quello lo può fare.

«Tipo in palestra, no? Una volta mi hai buttato a terra pe' niente» racconta. «Te stavo antipatico, eh?».

«N-no, dovevo solo conoscerti».

«Ah, un metodo tuo allora».

Simone si accascia un po' di più sul compagno. «Però ti – amavo già» biascica «Da sempre».

Da sempre, per sempre.

A quello non ci ha mai creduto. Non è mai stato convinto di un tempo così lungo: da matematico, da estremamente razionale in ogni ambito, Simone non ha mai ritenuto fosse possibile il per sempre, soprattutto per quel che concerne le persone.

Perché le persone cambiano, i rapporti evolvono e mai niente rimane statico.

Eppure con Manuel la propria parte logica si è quietata, lasciando spazio ad una sognante, forse ingenua - quella più infantile che crede ancora nelle favole.

E quindi sì, Manuel è per sempre.

Manuel è di Simone per sempre. E viceversa.

Ed è questo pensiero che lo culla docilmente, mentre un flebile sussurro gli esce di bocca. È a stento percettibile quel «Per sempre».

Manuel non lo sente.

Ha lo sguardo rivolto altrove, da tale posizione non riesce a scorgere il suo viso. Piuttosto sta continuando a sfregare un palmo sul suo braccio e ride ancora. «Ma invece quella volta in quinto, mh? Che eravamo in gita e non ci volevano dà la camera assieme? Quello te lo ricordi, Simó?».

Pone un nuovo quesito, leggero anche stavolta.

Tuttavia, una risposta non sopraggiunge.

La propria risata si affievolisce. «Simó?» lo richiama ancora. «Te lo ricordi?».

Di nuovo niente.

Manuel esita per un istante, prima di spostarsi col busto. Ed è in tal momento, mentre compie un accenno di movimento per discostarsi che si accorge che il corpo di Simone ha un peso diverso. Se ne rende conto nell'attimo in cui il suo capo gli grava addosso e un suo braccio cade sul materasso, privo di controllo. Privo di apparente vita.

Manuel cerca di non farsi prendere dal panico. Deve farlo altrimenti non potrebbe essere lucido. Scivola sul letto quel che è sufficiente per inginocchiarsi su di esso. Davanti a lui, Simone giace in posizione supina, gli occhi chiusi e la testa sul cuscino.

Porta due dita - anulare e medio - sul collo dell'altro ragazzo, proprio sulla giugulare perché così gli hanno insegnato in ospedale quando ha chiesto, quando si è informato su come percepire i battiti del suo cuore.

E non sente niente.

Non sente niente perché il cuore di Simone non sta battendo. Perché lui non sta neppure respirando.

«No, no, no, non ci provare» cantilena Manuel «Non ce provà, Simó, oh! Non...». Scuote il capo. Le mani gli stanno tremando quando le porta sullo sterno del compagno, quando comincia a premere con forza, ad intervalli regolari - perché pure quello gli hanno insegnato, o meglio, ha voluto imparare.

«Devi restà co' me, Simó» biascica. Sebbene gli occhi gli pizzichino, non sta piangendo. Probabilmente le lacrime gli si sono bloccate, hanno deciso che non è il caso di far capolinea, non ancora.

«Resta... Con... Me» scandisce di nuovo, ogni parola corrisponde ad un ulteriore colpo assestato al centro del petto di Simone, quel che occorre in tal tentativo disperato di rianimarlo.

Però non serve.

Non ha successo.

Lo realizza quando quelle spinte divengono fiacche e Simone ancora non si muove.

Oppure dopo quando urla e sopraggiungono nella stanza Dante e Anita e ogni suono, per Manuel, diviene muto, si azzera, sparisce, poi si trasforma in un fischio continuo che gli graffia i timpani, che gli lacera la pelle.

Ed è lo stesso che peggiora nell'istante in cui è Anita a tirarlo via con forza dal corpo inerme di Simone.

Manuel piange, si dispera, grida ancora, sbraita che non possono portarlo via da Simone, che gli deve stare vicino, che non può perderlo in quel modo. E che Anita lo implori di non toccarlo - che non esiste la sola remota ipotesi che non possa toccare Simone - che non deve guardare frattanto che lei cerca di racchiuderlo in un abbraccio per trascinarlo lontano...

A Manuel non importa. Nessuno riuscirebbe a portarlo via da quella stanza.

Nessuna preghiera, nessuno.

Niente.

Neppure i paramedici che sopraggiungono nella camera improvvisamente troppo piena di gente - non c'è mai stata così tanta gente lì dentro e non dovrebbe esserci in quello che è il loro posto.

Non dovrebbe. Non con tutte quelle facce affrante e tristi, mentre muovono le labbra e con Manuel ci parlano pure per dirgli che è accaduto ciò che per mesi hanno evitato e che dicono ancora che sono dispiaciuti e altrettante frasi di finta cortesia che non servono a nulla e che...





Manuel si sveglia di soprassalto. È completamente sudato, i ricci gli si sono appiccicati in fronte, come la maglietta bianca che usa come pigiama. La stanza è illuminata dalla fioca luce dell'abat-jour sul comodino.

Si passa una mano sul volto.

Simone è al proprio fianco, con gli occhi chiusi; il suo petto si alza e abbassa ad intervalli regolari. In testa ha una bandana arancione con delle strisce bianche orizzontali. A Manuel viene naturale e spontaneo allungare un braccio e posare due dita sul lato del suo collo. Percepisce il battito del suo cuore lieve sotto i polpastrelli e tira un sospiro di sollievo.

Ha il fiatone. Lo ha solo sognato, ma ciò che ha vissuto durante il sonno lo ha distrutto, in ogni senso possibile.

Si passa una mano sul volto, mentre si trascina fuori dal piumone. Rabbrividisce al gelo delle mattonelle sotto ai piedi, però non ci fa caso. Lo fa di più con lo spiraglio di luce che vede filtrare dalla porta della camera appena socchiusa. Non ricorda di aver lasciato il lampadario della cucina acceso, ma ultimamente molte cose gli passano di mente, per cui tutto può essere.

Lancia ancora una rapida occhiata a Simone, che dorme tranquillo, prima di abbandonare la stanza - che tanto ormai è sveglio e non crede riuscirà a sprofondare di nuovo nel sonno, non a breve. Neppure vuole, del resto.

Raggiunge la cucina in maniera lenta ed è lì che si accorge che non è solo: vede Dante, davanti ai fornelli dove c'è un pentolino in acciaio e il fuoco acceso sotto.

«Professó?» lo richiama, con voce rauca e grattandosi in maniera distratta dietro ad un orecchio.

Dante tiene le mani congiunte dietro alla schiena quando si volta e abbozza un sorriso. «Che ci fai sveglio a quest'ora?» domanda.

«Che ce fai te qua a quest'ora, piuttosto» è la replica spontanea che arriva.

Scrolla le spalle. «Ogni tanto passo a controllare che sia tutto a posto» spiega, in tranquillità «Soprattutto se non riesco a dormire». Fa una breve pausa e osserva l'acqua dentro al pentolino che inizia a bollire. «Sto facendo una camomilla» dice «Ne vuoi un po'?».

A Manuel manco piace la camomilla. Tuttavia, si ritrova ad annuire, frattanto che va a sedersi al tavolo ovale. La porta della camera l'ha lasciata parzialmente aperta perché ogni tanto guarda verso la stanza, giusto per assicurarsi che Simone ci sia ancora e nessuno glielo abbia portato via.

Nel frattempo, Dante ha recuperato due tazze azzurre dalla credenza, insieme alle bustine di camomilla che ci mette dentro; dopo ci versa l'acqua bollente. Con i due oggetti in mano, prende posto di fronte all'altro ragazzo. «Stai bene, Manuel?» chiede «Hai una faccia...».

Sta bene?

A quella domanda, specie nell'ultimo periodo, ha risposto con mezze frasi utili solo a sviare l'argomento. Perché non sta bene. Ci prova ad esserlo, a sorridere, ad essere ottimista, ma al momento è schiacciato da un peso opprimente che la maggior parte delle volte gli fa mancare il respiro.

«Ho avuto un incubo» confessa e abbassa lo sguardo sul leggero fumo che fuoriesce dalla tazza di ceramica che ha davanti. Tiene i pugni chiusi sulla superficie piana e le mani gli stanno ancora tremando. Non spiega cosa è successo in quel brutto sogno, forse non ce n'è davvero bisogno - comunque Dante lo capisce senza bisogno di parlare.

«È che - mi sto sforzando tutti i giorni di essere ottimista, di dire che andrà tutto bene, è solo che...» il proprio tono di voce si incrina e deve fingere un colpo di tosse per riprendersi. «È solo che ogni giorno che passa è peggio» soffoca e ora alza gli occhi, gli stessi che vanno ad incrociarsi con quelli del professore.

«Ogni giorno che passa, lui sta peggio» biascica ancora «E io non - non posso farci niente».

Per un istante, Dante rimane in silenzio, serra la mandibola e non dice nulla. Dopo fa cenno di sì con la testa e «Lo hanno detto, i medici» esclama «Che l'ultimo ciclo sarebbe stato tosto e che lo avrebbe fatto stare peggio».

«Non pensavo - così tanto» Manuel confessa. «Dio, non - non si regge in piedi e non... Ieri sera, lui... Lui manco riusciva a dire il mio nome. Ci provava e non gli veniva e io... Non sapevo cosa fare».

«Ci hanno detto che sarebbe potuto succedere anche questo».

«C'hanno detto un sacco di cose» lo interrompe «Sulla terapia, sull'operazione, sulla - percentuale di sopravvivenza che è così bassa da mettere i brividi». Si blocca, scuote il capo. Ha gli occhi lucidi. Non crede riuscirà a trattenere le lacrime, non in quel momento in cui si sente estremamente vulnerabile.

Lo sguardo gli ricade ancora una volta verso la porta lasciata aperta. Sta parlando a bassa voce e dubita che Simone possa in qualche modo sentirlo. «Ho - paura che quell'incubo diventi la realtà» confessa «Che 'na mattina me alzo e trovo il letto vuoto perché lui non c'è più, perché questa cosa me l'ha portato via».

Dante resta ancora in silenzio. Allunga una mano sopra al tavolo, va a frenare il tremolio di quelle del ragazzo. «Lo so» dice «Non è solo in incubo tuo».

Manuel si sente quasi in colpa ad esternare una simile confessione, come se quel dolore riguardasse solo sé stesso; immagina sia persino da egoisti, forse, sotto un certo punto di vista.

«Ho già perso un figlio, Manuel» sussurra Dante e sforza un sorriso, amaro. «E l'idea di poterne perdere un altro mi devasta». Fa una breve pausa, mantenendo il contatto con chi ha di fronte. «Però la speranza non la voglio perdere» prosegue «Voglio - pensare che questo dolore sarà utile, che dopo l'ultimo ciclo di terapia, Simone potrà operarsi e i medici potranno - togliere di mezzo quel mostro che lo sta divorando e dargli pure due calci nel sedere». Ride, sull'ultima parte della frase, il che va a contrapporsi alle lacrime che cominciano a bagnargli le guance. «E poi starà bene» conclude «Io - sono sicuro che Simone starà bene».

Manuel vorrebbe averla quella stessa sicurezza e si è sforzato in modo che fosse così, almeno fino a tal momento. Eppure crede di averla persa, crede che la sofferenza stia avendo la meglio e che, pezzo dopo pezzo, stia portando via ogni visione positiva di tutta la situazione. Perché ora riesce soltanto a vedere il peggio.

«E se non dovesse - se non dovesse essere così?» biascica. «Perché ci penso. Ci penso troppo spesso a 'sta cosa, penso che se... Se Simone muore, io che faccio? Dopo, io... Io manco ce vado mai ai funerali, me mettono ansia, ma al suo dovrei andarci. E penso troppo spesso a questo, al fatto che dovrei andá al funerale suo, che magari dovrei pure dì qualcosa di fronte a tutti perché sono - ero il ragazzo suo. E poi...».

Si ferma, sta soffocando.

Sta tremando.

Sta impazzendo.

«E poi dopo che - che cosa faccio? Resto qui, in questa casa dove ce stanno tutte le cose sue e dovrei toglierle? Con che coraggio dovrei togliere tutto dopo. Poi io che faccio senza di lui? Senza - senza lui che canticchia in cucina e balla come un cretino mentre aspetta che esca il caffè? Senza di lui che ride, senza - senza le robe che trova al mercatino dell'usato e porta qui e non sappiamo più dove mette... Io... Io che faccio in quel letto grande da solo, senza lui che me abbraccia, senza lui che... E poi me lo dimenticherei col tempo e... Mi fa impazzire l'idea di andare avanti e dimenticarlo».

Il panico sta prendendo il sopravvento. Dante è costretto a frenare quel flusso di parole dilanianti, portando una mano sulla sua spalla e «Manuel, Manuel, basta, ehi» tenta di rassicurarlo. «Non devi pensare a tutte queste cose adesso, okay?».

«Ma se...».

«Ai se non ci dobbiamo pensare. Non adesso».

Quello, Manuel lo sa. È stata una delle prime cose che lui e Dante si sono detti, sin dall'inizio. Che alle ipotesi catastrofiche non devono pensarci, che devono solo considerare il meglio.

Ma risulta difficile, ormai, sperare in meglio.

Manuel crede di aver raggiunto il proprio limite e sa quanto sia sbagliato. Sa che, soprattutto davanti a Simone, non deve crollare, non deve fargli presupporre o anche solo considerare che andrà male.

Deve tenere tutto dentro, finché tutto, davvero, non andrà bene.

**

Nei tre giorni successivi, Manuel ha il terrore di addormentarsi.

Lo ha avuto anche prima, lo ha dal giorno della diagnosi, in realtà, solo che adesso è peggio.

Peggio, perché gli incubi tornano a tormentarlo ogni notte. Nemmeno la camomilla lo aiuta, sebbene si sforzi di berla – per quanto manco gli piaccia.

Probabilmente non funziona poiché la contrappone ad una dose massiccia di caffè che annulla ogni possibile effetto benefico, ma questo è un altro discorso.

Adesso è in cucina, davanti ai fornelli. Su uno di essi, ha posizionato la moka di tre tazze che ha preparato. Per un attimo, si perde a fissare la fiammella, appoggiando le mani sul ripiano.

Prende un respiro profondo, prima di voltarsi.

Simone è accomodato sul divano, con le spalle contro lo schienale morbido. Lo ha aiutato poco prima ad arrivarci: porta la stessa bandana arancione con le strisce bianche.

Manuel trascina i piedi ricoperti soltanto da un sottile calzino sul pavimento, va a sedergli accanto; subito gli prende una mano, la porta vicino alla bocca e deposita un bacio fugace sul suo dorso.

Simone sforza un sorriso, stanco. Dei profondi cerchi scuri gli segnano entrambi gli occhi, sono ben evidenti e non prova nemmeno più a mascherarli in qualche modo. L'ultimo ciclo di terapia è stato pesante, devastante. Lo sa lui, lo sa Manuel, lo sanno tutti. Ma fingono che non sia niente.

«Sei stanco» mormora e non è una domanda, non ha necessità di una risposta.

«Sto bene» si affretta a replicare Manuel. Deve essere positivo, no? Lo ha promesso nuovamente a Dante, quindi no, davanti a Simone non deve crollare, neppure per mezzo secondo. «Tu stai bene?».

Si morde la lingua subito dopo – che domanda stupida, pensa. Tuttavia, non fa in tempo a ritrarla, che già Simone sta annuendo e «Sto bene» attesta. Fa una breve pausa e «Me lo dai un bacio?» sussurra, dopo, e tenta di allargare il sorriso, per quanto sia possibile, per quanto quello stesso gesto non raggiunga anche gli occhi stanchi.

A Manuel sfugge una risata, dal momento che di quella stessa richiesta, solitamente, ne è l'artefice. Non ha bisogno di esitare, di pensarci troppo per sporgersi nella sua direzione e far incontrare in maniera delicata le loro bocche. Ultimamente, i loro baci hanno sempre un sapore diverso. Sono gli stessi che gli fanno venir voglia di piangere e poi ridere e poi entrambe le cose insieme. Non crede sia possibile per davvero, però è quel che sente.

Dura poco il contatto tra di loro. Manuel si distacca piano, sfiora la punta del suo naso con la propria.

Simone è bellissimo anche così. Lo pensa davvero, nonostante tutto, nonostante l'assenza di capelli, nonostante le occhiaie, il pallore, le labbra ruvide e screpolate, le guance incavate, la perdita evidente di peso. Glielo ha detto già mille volte e lo farebbe per altre mille.

Per tutta la vita.

Dall'altra parte, Simone ha valutato in molte occasioni l'idea di domandarglielo, se in quel modo gli piace ancora. Il quesito, tuttavia, non lo ha mai posto. Un po' per paura della risposta, un po' perché spesso gli è sufficiente incrociare il suo sguardo colmo di amore e devozione per capire che, forse, neppure serve chiedergliela una cosa del genere.

«Sai che cosa manca adesso, Simò?» sussurra Manuel, a pochi centimetri dal suo viso, e con un pollice gli accarezza una guancia.

«Cosa?».

«Sta uscendo il caffè» spiega, accennando una ulteriore risata. «Manca quello che fai tu mentre aspetti che esce il caffè».

Simone lo capisce subito a che si riferisce e dunque «Non ci – riesco a... Stare in piedi bene».

«Ti reggo io».

«Non ci – ce la fai».

«Sì che ce la faccio». Ti reggo sempre, pensa Manuel, ma ad alta voce non lo dice.

Si scosta appena, si alza dal divano. Gli tende una mano, col palmo rivolto verso l'alto. Non attende che l'altro lo afferri, comunque; piuttosto lo afferra per un braccio e dal busto, lo solleva quasi di peso. Lo mantiene per i fianchi, mentre gli fa appoggiare entrambe le mani sulle proprie spalle.

Simone socchiude le palpebre. Un briciolo si sente addirittura instabile, però è una sensazione che svanisce presto.

Svanisce poiché Manuel lo regge e lo sa che non lo lascerà cadere.

Manuel non lo fa mai cadere. Lui è quello che lo regge e assesta sempre. È quello che gli fa da scudo, che gli fa da armatura.

Stretti l'uno all'altro, dondolano su loro stessi. È un movimento decisamente lento, diverso dal solito; diverso da quei balletti stupidi che Simone metteva in atto fino a qualche mese prima, frattanto che l'odore del caffè si spargeva per la cucina, insieme alle loro risate.

Adesso è tutto mescolato a quello del disinfettante e di risate ce ne sono davvero poche.

«Mmh» biascica Simone, ad un tratto. Vorrebbe richiamare il suo nome, solo che non è in grado di pronunciarlo, come è già successo.

«Sono qui» lo rassicura da subito Manuel.

«Restiamo – così per sempre?».

Prima di fornire una replica, lo bacia lievemente sull'angolo della bocca. «'Na volta m'hai detto che il per sempre non esiste» sussurra.

«Esiste» sussurra il compagno, con la voce che un briciolo gli si spezza in gola. «Se ci – ci sei tu, allora esiste».

A Manuel trema il petto ad udire una simile affermazione. È un miscuglio di cose: sono i suoi occhi scuri e profondi che lo scrutano da così vicino, il suo respiro flebile che percepisce sulla pelle, il suo peso che gli grava completamente addosso e che sta facendo fatica a reggere.

Eppure, per quanto si sia ripromesso di non mostrare nulla al suo cospetto, di rimanere positivo e allegro, in quel momento qualcosa lo tradisce. Se ne rende conto quando percepisce delle calde lacrime scorrergli sulle guance, le stesse che non può fermare.

Perché manco ne sarebbe in grado.

Che poi dirsi per sempre ora non ha senso, lo sa benissimo, soprattutto quando sono consapevoli che possa non esserci neanche un domani.

Ma non ha importanza quando allarga un sorriso, che si scontra col pianto che lo ha travolto, e allora «Per sempre come nelle favole, Simò» mormora.

E Simone, un briciolo, nelle favole vuole crederci.

Per quanto da piccolo non lo abbia mai fatto per davvero, per quanto risulti cinico la maggior parte delle volte.

Ma adesso vuole davvero crederci.

Il fatto è che le favole nella vita reale non funzionano, non possono esistere.

Come se un lieto fine fosse soltanto una utopia.

O forse semplicemente destinato a qualcun altro.

Il borbottio della caffettiera riempie l'ambiente, insieme all'odore di quella bevanda calda.

Gli occhi di Simone e Manuel sono incastonati gli uni dentro gli altri, i loro volti ancora vicini.

Per sempre, come nelle favole.

Se ci sei tu, esiste il per sempre.

Per sempre, come Simone e Manuel.


Tali parole risuonano nella mente di Simone in quell'attimo, mentre osserva il viso di Manuel, i suoi occhi lucidi, le sue guance bagnate dalle lacrime. E pensa sia bellissimo come ultima cosa da vedere.

Come ultima cosa da vedere prima che le proprie palpebre si chiudano e lui crolli sul pavimento.

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