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XXXVI. Un'attenta riflessione

La cabina di Ventadour rispecchiava il carattere del suo proprietario, amante del lusso e delle comodità.
Sia la scrivania che l'impalcatura del letto – che da solo occupava più della metà della stanza – erano fatte d'ebano arrivato dal Madagascar, e le lenzuola e le fodere delle poltrone erano di seta finissima.
Seduto in una di quelle comode sedie, il capitano francese sorseggiava un vecchio brandy che aveva tenuto da parte nell'armadietto dei liquori e aspettava, giocherellando distrattamente con il calamaio d'avorio che aveva sulla scrivania.
D'un tratto, davanti alla grande vetrata che occupava quasi del tutto la parete della cabina che dava verso l'esterno sfrecciò una figura umana.
Le labbra di Ventadour si piegarono in un gran sorriso mentre all'esterno risuonavano gli scalpiccii dei suoi uomini che correvano da tutte le parti, obbedendo ai suoi ordini di non interferire. Pochi istanti dopo la porta si spalancò e Smokey fece il suo ingresso, le ali rigide e vibranti pronte a colpire e i capelli incollati sulla fronte dal sudore e dall'aria salmastra del porto.

«Vi avevo dato ben ventiquattr'ore di tempo per mollare gli ormeggi, eppure vi trovo ancora qui! Perché?»

«Potevate scagliarmi contro la Brigata Alata – le major Terrence sarebbe stata entusiasta nell'arrestarmi – eppure siete qui con me. Perché?»

Le dita di Smokey scattarono a sfregarsi la benda sull'occhio destro, poi la donna richiuse le protesi contro la schiena e si lasciò cadere sulla poltrona che Ventadour aveva disposto di fronte a sé, dall'altro lato della scrivania. Rifiutò con un gesto brusco il bicchiere di liquore che le veniva offerto e rovistò qualche istante nelle tasche alla ricerca di pipa e acciarino, sospirando contenta quando vide che quest'ultimo non era stato rovinato dal volo sull'Oceano; in breve una cortina di fumo grigio dal profumo di quercia riempì la stanza.
Smokey lo fissava da sopra la pipa, per metà sconfitta e per metà furiosa, e Ventadour ricambiò lo sguardo senza fiatare.

«Prima voi» borbottò infine lei.

Lui le allungò la lettera che aveva composto quella mattina dopo una notte insonne:
«È il mio rapporto all'Imperatore: volevo avere la vostra approvazione prima di inviarlo.»

Smokey inarcò un sopracciglio con aria beffarda, ma man mano che leggeva la sua espressione si fece confusa, poi irritata:
«Mi prendete in giro? Qui non c'è scritto un bel niente!»

«Al contrario: è un resoconto lungo ben tre pagine e mezza, scritte con grafia minuta! Il mio precettore sarebbe fiero di me.»

«Sapete bene cosa intendo! Non fate parola né di Kaluaduipa, né di ciò che vi abbiamo trovato! E vorreste farmi credere che questo è tutto ciò che volete riferire? Sembra che il vostro viaggio sia stato un buco nell'acqua!»

«Ahimè, non tutte le missioni hanno un esito positivo. Questo dovreste saperlo anche voi.»

Smokey lo scrutò più attentamente: dietro le battute scherzose, Ventadour aveva gli occhi stanchi e seri.
«Ammettiamo che questa sia la verità – badate bene, non mi sto fidando di voi, ma vi sto concedendo quel benemerito beneficio del dubbio che desideravate l'altro giorno. Vorreste davvero mentire al vostro Imperatore?»

«Sì, è quello che farò. Con o senza la vostra benedizione.»

«È tradimento!»

«Credete che non lo sappia? Sono consapevole dei rischi a cui vado incontro e ho i miei motivi per fare una cosa del genere.»

«Quali?»

«Perché vi interessa?»

«Per Dio, Ventadour, smettetela di rispondere a una domanda con un'altra domanda!»

Ventadour poggiò il bicchiere vuoto sulla scrivania e lanciò un'occhiata colma di desiderio alla bottiglia di brandy aperta, ma poi preferì rinunciare a versarsene un altro po'.

«Sono un uomo d'onore» mormorò dopo qualche istante di silenzio. «Dite quel che volete di me, ma sono sempre stato un uomo d'onore. Ho i miei principi e li ho sempre rispettati a qualsiasi prezzo – finora. Vedete, il mio dovere da ufficiale e da amico era obbedire all'Imperatore e scoprire quanto più possibile su questo complotto, in modo che anche la Francia potesse beneficiarne; ma più indagavo e più m'immergevo nelle nefandezze di cui l'essere umano è capace. Rapimenti, schiavitù, uccisioni... Questo Raymard, chiunque egli sia, si è lasciato dietro una rivoltante scia di barbarie.
Un dubbio ha iniziato a rodermi l'anima.
Potevo giurare in tutta coscienza che, una volta venuto a conoscenza dei fatti, l'Imperatore sarebbe stato disgustato quanto lo ero io? Che si sarebbe tirato indietro, come avrei fatto io, da ogni associazione con quella razza di uomini che non si fanno scrupoli a mettere le catene ai polsi dei loro simili, fossero pure loro nemici?»

Gli occhi del francese si fecero, se possibile, ancora più cupi e tristi.

«Io e Jean-Louis siamo cresciuti insieme e lo amo quanto amo i miei fratelli di sangue, forse anche di più; non è un uomo malvagio, anche se so che le mie parole vanno sprecate con voi che siete inglese. Ma è un sovrano, e come tale agisce spinto anche dalla ragion di Stato: e la verità è che le nostre casse languono e quel commercio di schiavi ci farebbe comodo per rimpinguarle – all'alto comando poco importa se dovremo venderci l'anima in cambio. Però è un prezzo che io, invece, non ho intenzione di pagare.»
Si lasciò scappare una risata amara:
«Ecco, ora sapete perché sono rimasto a Calcutta finché non siete venuta a cercarmi: se devo rimanere impresso nella vostra memoria come un traditore, allora voglio che sia chiaro che io non ho tradito voi, ma tutto il resto e voi siete solo uno dei motivi che mi hanno spinto a farlo...
Bene, credo che sia il vostro turno, ora.»

Smokey, che non era riuscita a nascondere l'agitazione che l'aveva colta nel sentire quelle accorate parole, alla fine fu costretta a distogliere lo sguardo per riguadagnare controllo di sé.

«Il prigioniero che abbiamo interrogato su Kaluaduipa è stato giustiziato stamattina all'alba. Fino alla fine ha ripetuto, giurando e spergiurando, che aveva detto tutta la verità che sapeva.»

«E voi siete tentata di credergli.»

«Di più, sono ormai convinta che ci sia un fondo di realtà dietro i suoi vaneggiamenti, seppur mescolato e offuscato dalle menzogne che Raymard ha inventato per assicurarsi la collaborazione dei thogi. Ricordate ciò che ha detto? La magia del lampo senza fiamma che fa volare gli uomini... Qualcosa che noi abbiamo senza poterlo controllare...»

«La magia non esiste!»

«Molti secoli fa ciò che oggi chiamiamo scienza era considerato magia – lo è tutt'ora per i bambini e per chi non sa come interpretarla. Prima del Crollo, tutti sarebbero stati d'accordo nell'affermare che l'uomo non sarebbe mai stato in grado di volare o di respirare sott'acqua, eppure oggi queste magie sono realtà. Com'è possibile, Ventadour? Com'è possibile che in un momento di profonda incertezza, mentre intere nazioni venivano sommerse e altre andavano in rovina, l'uomo sia riuscito a scoprire all'improvviso qualcosa che cercava da millenni?»

L'uomo si strinse nelle spalle.
«La situazione era disperata, il Crollo pareva la fine del mondo e si credeva che l'intero pianeta fosse destinato a essere inghiottito dalle acque... Tentarono di trovare una via di scampo e vi riuscirono.»

«Si, ma come?»

«Ma avranno fatto delle ricerche, degli studi, non lo so!»

«Appunto, non lo sa nessuno!
Ascoltatemi: prima del Crollo la conoscenza del sistema nervoso umano è approssimativa e lacunosa. Nei primi anni dopo il disastro, in Europa si raggiunge un tale livello di padronanza nell'arte della medicina e della scienza che si riescono a connettere i nervi periferici con protesi metalliche, addirittura vengono inventate le membrane degli occhi degli squamati! E poi, per novant'anni dopo questo rapidissimo e inspiegabile avanzamento tecnico, lo studio del cervello e dei nervi ristagna, langue e procede a rilento. Perché?»  

«Beh, immagino sia perché è venuta meno la necessità impellente che aveva spinto gli uomini a creare le protesi. Magari non conosciamo appieno i segreti del nostro cervello, ma ormai siamo in grado di sfruttare il flusso che scorre nei nostri nervi, la cosiddetta elettricità, per i nostri scopi: la ricerca in questo senso non è più pratica, ma puramente accademica e perciò ritenuta poco rilevante. Continuo a non capire cosa c'entri tutto questo con la nostra questione.»

«C'entra. Di cosa sono fatti i nervi biomeccanici delle vostre ali?»

Ventadour boccheggiò come se fosse stato appena colpito da un pugno:
«Rame!»

«Già. È l'elettricità, capite? È lo stesso fenomeno dei fulmini, una forza che l'uomo non è in grado di imbrigliare... Tranne quando si tratta delle protesi.»

«Non vi seguo.»

«Per quanto ne sappiamo sul sistema nervoso, due ali sono solo due pezzi di metallo attaccati alle nostre schiene, che non dovrebbero risentire del controllo del nostro cervello. Eppure noi due siamo in grado di alzarci in volo!»

«Sono sicuro che un mastro artigiano saprebbe spiegarvi come...»

«Esatto! Sappiamo come si fa a innestare un paio d'ali, ma non perché queste ci permettano di volare. Di solito è il contrario, di solito bisogna conoscere un meccanismo per poterlo replicare, ma in novant'anni di relativa tranquillità non siamo riusciti a scoprirlo – pensate davvero che un pugno di uomini disperati abbiano fatto una scoperta di tale portata con i mezzi limitati che avevano durante il Crollo? E poi, che fine hanno fatto le loro ricerche? Perché non sono sopravvissute fino a noi?»

«Cosa state dicendo, che la soluzione al mistero gli cadde in grembo dal cielo?»

«Qualcosa del genere. Sono sicura che qualcuno li abbia aiutati!»

«Così come eravate sicura che dietro i rapimenti ci fosse William Harvey?»
Ventadour alzò una mano per prevenire il suo scoppio d'ira.
«Non voglio offendervi, sto solo cercando di essere realistico. Chi avrebbe potuto aiutare i nostri antenati a progettare le ali? Un qualche dio, forse? O un mago, tanto per restare in tema?»

«Non lo so ancora. È per questo che intendo recarmi a Baltia e scoprirlo!»

«Baltia? Baltia è un mito, una balla! Ne parlavano gli antichi greci e romani: credevano che fosse un'isola fatta d'ambra situata a Nord, ai confini del mondo!»

«Ogni leggenda ha un fondo di verità.»

Ventadour si versò un altro bicchiere di brandy:
«E io che credevo che foste venuta qui perché eravate disposta ad ascoltare la mia patetica storia nonostante i miei trascorsi! Invece eravate solo in cerca di un passaggio!»

Smokey sorrise con aria astuta.
«Su, non fate quella faccia afflitta: cosa vi aspettavate dalla donna che avete raggirato?»

«Sono stato sciocco, lo ammetto, ma speravo nel vostro perdono...»

Ventadour la vide avvampare e sibilare un'imprecazione tra i denti: era salita sulla Victoire decisa a mantenere il controllo della conversazione, che sarebbe dovuta essere fredda, efficiente e impersonale; invece si era lasciata trascinare dalle ipotesi e dai sentimenti inespressi che correvano tra loro e il suo volto imbronciato gli strappò un sorriso.

«Io ammetto che non siete l'unico a cui avrei potuto chiedere di accompagnarmi fin lassù» borbottò infine Smokey, di malavoglia.

«Dunque ve lo chiedo di nuovo: perché siete qui, Smokey?»

«Perché volevo... Volevo vedervi ancora. Nonostante i vostri scopi poco chiari, nonostante non mi fidi del tutto di voi, volevo stare di nuovo con voi.»

Adesso che aveva confessato a voce alta, Smokey si sentiva più leggera, come se una mano invisibile le avesse sollevato un grosso peso dal petto.
In quei giorni non aveva mai permesso alle vaghe emozioni che provava in presenza del francese di trasformarsi in qualcosa di più corposo, che sarebbe stato più difficile da ignorare; ma in quel momento, realizzò, sarebbe stato inutile fingere oltre.
Aveva scelto di assecondare quel desiderio quando aveva messo piede in quella cabina, anzi, ancora prima – quando aveva deciso che sarebbe stato Ventadour e nessun'altro a portarla nelle Terre Bianche.

"Mi pentirò di questa scelta? Forse sì, più in là. Quando mi tradirà di nuovo, o quando saremo costretti a tornare a essere nemici... Ma qui e ora tutto ciò non ha importanza. Domani la mia vita potrebbe cambiare per sempre, come accadde a Kaluaduipa, e allora che senso avrà avuto amare o non amare quest'uomo? Perché privarmi ora di qualcosa che potrebbe poi essermi negato?"

Con quei pensieri in mente, Smokey non si oppose quando l'uomo aggirò con un balzo la scrivania per baciarla con passione, prenderla tra le braccia e trasportarla verso il letto.
D'istinto spalancò le ali, che cozzarono contro le colonne di legno del baldacchino e finirono per intrecciarsi con quelle di Ventadour mentre lui la spogliava con frenesia, scoprendo un lembo di pelle dopo l'altro con la stessa urgenza di un assetato.
Così avvinghiati caddero tra le lenzuola e Smokey si lasciò trascinare in un amplesso a tratti dolce e a tratti sfrenato, rispondendo con eguale ferocia e passione alle carezze e ai graffi, ai baci e ai morsi. Scoprì che Ventadour poteva essere selvaggio, impetuoso e pazzo quanto lo era lei e questa cosa le piacque.

Aveva avuto molti amanti, donne e uomini di razze diverse che parlavano decine di lingue: nessuna di esse le era parsa così seducente come le parole spezzate e sconnesse che lui le sussurrò all'orecchio mentre la possedeva. Le raccontò di quanto la trovava bella – e Smokey gli credette, nonostante le cicatrici, nonostante l'orbita vuota sotto la benda, nonostante il corpo che, a trentacinque anni, dimostrava tutti i segni della vita pericolosa che aveva condotto. Ventadour seguì il percorso di quelle ferite con le dita e la lingua senza chiedere nulla, ché già conosceva bene la ritrosia della donna a rivivere il suo passato.
Le disse che l'amava, lo gridò contro il cielo mentre le ali si irrigidivano e si riversava dentro di lei – e Smokey, appagata e felice, gli credette di nuovo ma si guardò bene dal rispondergli.  

S'ubriacò invece dell'odore della sua pelle, del sapore della sua lingua, della pesantezza di quel corpo che alla fine, spossato, si adagiò sopra il suo. Le piume metalliche delle protesi del francese si chiusero delicatamente attorno a lei, non per ferirla o imprigionarla, ma per proteggerla mentre entrambi si lasciavano andare a un sonnolento torpore.  
Per alcuni istanti – ma potevano anche essere passati ore, giorni, interi secoli – Smokey si sentì senza peso; strofinò la punta delle dita contro la seta delle lenzuola, disegnò dei pigri cerchi immaginari sul materasso e pensò che sarebbe stato davvero bello poter rimanere così per sempre.
Poi si riscosse e scivolò oltre l'abbraccio protettivo di Ventadour, iniziando a raccogliere i suoi vestiti mentre il cielo, oltre la vetrata della cabina, iniziava a imbrunire.
Il francese si mosse nel letto, voltandosi a guardarla con occhi attenti che la seguirono per la stanza, ma non disse nulla.

Sapevano entrambi che c'era ancora una cosa che Smokey doveva fare prima di lasciare Calcutta.

Lina stava fumando sul tetto della caserma, immobile come uno di quei gargoyle che adornavano le vecchie chiese europee: solo la brace del suo sigaro e il gesto meccanico con cui lo afferrava tra le dita per soffiare fuori una voluta di fumo rivelavano che la donna era in realtà viva e attenta.
Smokey atterrò pochi passi più in là, osservandola con tenerezza e rammarico. All'improvviso provò vergogna per essersi presentata lì con ancora addosso l'odore di un altro amante, un imbarazzo che non l'aveva mai colta in nessun'altra occasione.
Ma Lina era diversa, lo era sempre stata.
C'era stato un tempo – lontanissimo, ma per il suo cuore sembrava appena il giorno prima – in cui Smokey aveva pensato di passare il resto della sua vita con lei.

«Come cambiano le cose, eh?» mormorò il maggiore, quasi le avesse letto nel pensiero.
Le lanciò un'occhiata di sbieco al di là della cortina di fumo che l'avvolgeva e sorrise:
«Via, via... Non piangere. Sempre al contrario tu: non piangi mai, e poi piangi per un nonnulla!»

Smokey trovò naturale rispondere al sorriso e parte del rimpianto che la tormentava da quando era arrivata a Calcutta si dissolse, lavato via da quella risata leggera; rimasero solo il ricordo e il vago desiderio di aver fatto scelte diverse.

«Sai qual è il tuo problema?» disse Lina dopo un po', schiacciando il mozzicone del sigaro sotto il tacco dello stivale. «Tu ti affezioni sempre troppo in fretta alle persone: a me, a quel mascalzone di Blackraven, a quel francese... Ma ai luoghi mai. La terra ti scotta sempre sotto i piedi e ogni volta le tue ali fremono per arrivare giusto un po' più in là; il mondo non è infinito, Leticia, e prima o poi dovrai fermarti anche tu.»

Quelle parole suonavano sinistre ora che stava per salpare verso i confini del mondo, perciò Smokey sentì l'urgenza di sviare il discorso e abbozzò un sorrisetto.
«Chi lo sa, forse un giorno le mie ali mi porteranno di nuovo a Calcutta e magari... Magari potremmo scoprire come sarebbe andata se...»

Lina scosse la testa – senza rabbia o recriminazione, solo un gesto di pacata convinzione.
«Tu non tornerai: hai levato l'ancora quindici anni fa e queste settimane sono state solo una postilla, l'aggiunta necessaria per pareggiare i conti con Kaluaduipa. No, non credo proprio che ci incontreremo ancora.»

Smokey le sfiorò dolcemente una spalla, tentando di rievocare le emozioni che una volta quel contatto le procurava: brividi caldi lungo la schiena, gote arrossate, occhi accesi di sentimento...
"A Lina non piacciono gli abbracci, almeno quanto a me non piacciono gli addii."
Spiccò il volo con un balzo, all'improvviso, senza guardarsi indietro. Mentre la caserma si faceva sempre più piccola sotto i suoi piedi e il vento le asciugava sulle guance le ultime lacrime, un grido la rincorse.

«Una volta nella Brigata Alata!»

"Per sempre nella Brigata Alata!"

E così il "periodo indiano", come lo chiamo io 😝, giunge al termine. Forse non come voleva Smokey, perché i suoi traumi sono ancora tutti lì — ma Who cares quando parti verso l'ignoto con quel bel manzo di Ventadour, giusto? 😂

Questa storia sta correndo a rotta di collo verso la conclusione: ho un esame i primi d'ottobre ma ormai iscrivere Argon ai wattys è diventata una sfida con me stessa, quindi credo proprio che gli aggiornamenti settimanali da due saliranno a tre.

Enjoy ❤️

  Crilu

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