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Cap 7 Batman o Joker?

Le sue mani continuavano a muoversi impercettibilmente sopra il piano di formica verde, mentre con l'unghia dell'indice si sforzava di grattare senza far rumore la vernice trasparente.
Non potevo giurare che fossero pulite, soprattutto dopo aver notato l'ombra più scura tra le grinze delle sue dita. Non dopo aver analizzato nei minimi dettagli il suo aspetto. Trasandato, se gli si voleva fare un complimento.
I suoi capelli appiccicosi e di un riccio talmente crespo da rasentare il vello di una pecora, credo che non avessero più assaporato il dolce profumo di uno shampoo da almeno un anno.
I suoi vestiti lacerati e lisi in più punti, dalla t-shirt alla giacca di felpa poggiata sopra, non erano già più di moda quando sono nata io, quindi dovevano di sicuro aver resistito alle intemperie per più di sei lustri. Il che mi raccontava molto del carattere di quest'uomo seduto di fronte al tavolino della sala interrogatori.
Era chiaro che non era sempre vissuto allo sbando, la sua vita aveva conosciuto la disciplina e il Self control; era stato un uomo tenace ed equilibrato, prima che l'ultimo uragano lo travolgesse, spezzandolo.
Non era uno stupido, non potevo permettermi di trattarlo come tale. Il suo pianificare puntigliosamente gli attentati. Il suo preoccuparsi nei minimi dettagli di tutte le vie di fuga possibili. Il suo silenzio interrotto solo da brevi battute, studiate perché non rivelassero nulla della verità. C'era ancora una cosa però che mi sfuggiva: il suo immischiarsi in faccende troppo pericolose per un uomo di strada.  L'attentato lo capivo in fondo, visto l'odio che nutriva, ma il C4 proprio no.
Lo stavo osservando già da una buona mezz'ora, ponendo solo domande
insignificanti, come le sue generalità. Stentava a rispondere anche a quelle. Vigile e pronto al tranello che in esse avrei potuto celare.
Povero illuso! Non aveva idea che non sarebbero state le sue parole a tradirlo, ma ben altro, a me ben visibile.
Per tutto il tempo che rimasi in piedi girovagando per la stanza, il suo colore primario rimase un nero fondo. Cercai quindi di scovare qualcosa che lo facesse scoprire un po' a me, per capire da cosa nasceva questo profondo odio che lo possedeva così radicalmente.

"Hai paura di me?" gli chiesi a bruciapelo, sperando in un suo sbandamento.

Sollevò vagamente le spalle, a sminuire qualsiasi forma di importanza io avessi voluto istigare verso la mia persona.

"Allora cos'è questo silenzio? Hai paura che qualcuno venga a vendicarsi se parli con me? Il tuo capo, forse?" lo punzecchiai.

"Io non devo rispondere a nessuno!" mi urlò contro, alzandosi di scatto dalla sedia.
Il lato destro della mia bocca si sollevò di soddisfazione. Avevo ottenuto l'informazione che volevo. Il suo nero si era trasformato in un solo violento istante nel blu più scuro che avessi mai incontrato.
Senza scompormi di fronte al suo scatto d'ira, continuai a camminare per la stanza.
Sentivo il suo respiro meno tranquillo e silenzioso, mentre cercava con nonchalance di ritrovare la calma. Era rimasto in piedi, mi osservava muovermi senza guardarmi in faccia.

"Ti hanno mai detto che gli animali percepiscono le sensazioni delle loro prede?" chiesi, guardando fuori dall'enorme vetrata, purtroppo affacciata su un'altra ala del Dipartimento di Giustizia.

"Sì e allora?". Lo disse strafottente, ma non più calmo.

Mi avvicinai di colpo a lui, lo spinsi contro la parete, lo soffocai con il mio braccio sulla sua carotide e gli sputai in faccia la verità:

"Io lo vedo che tu hai paura, tanta paura! E fai bene, perché il signor Cisco non sarà per niente contento della tua bravata!"

"Non conosco nessun Cisco!" biascicò, gli occhi sgranati, il nero completamente cancellato dal blu.

"Ah no? O scusami, allora andrò direttamente dal signor Cisco, a chiedere chi ha comprato il C4 da lui. Perché vedi, che è stato lui a dartelo, per me è un dato di fatto." spiegai di nuovo calma, poggiandogli una mano sulla spalla.
Quando la tolsi, avevo lasciato un pallido palmo color pesca sulla sua giacca: doveva fidarsi di me e della giustizia. Io gli stavo inculcando questa fiducia. Come avevo imparato anni addietro, gli trasmisi un po ' di serenità, una punta di affetto per indurlo a parlare con me. Era stato piuttosto complicato capire la procedura di trasmissione,  senza creare troppo scompiglio nell'animo dell'altra persona. Anna era stata la mia cavia preferita. Avevo scoperto tanto di più sul mio potere. Avevo capito come e soprattutto cosa riuscivo a trasmettere. Purtroppo, insieme ci eravamo rese conto quasi subito che non era necessario che io provassi certe emozioni, per trasmetterle agli altri. Rimaneva per me sempre l'incubo di inculcare in una persona talmente tanto odio o paura, da trasformarlo in un mostro. La mia vita era rimasta sempre su quel filo di lama, affacciata sulla mia potenziale mostruosità. Avrei potuto scatenare una guerra nel giro di una settimana, se avessi voluto. Sarei potuta facilmente essere il nuovo, imprevedibile, pazzo Joker.

"Se lo farai, saprà che mi avete beccato." protestò stavolta visibilmente preoccupato.

"Dove hai preso i soldi per un panetto di C4?" tergiversai.

"Smettila di dire così, io non ho comprato l'esplosivo!" confessò, sempre più blu.

Lo toccai di nuovo. "E allora chi è stato?" Stavolta il color pesca si spanse.

Mi osservò per diversi minuti dentro la pupilla, cercando.

Infine sospirò, si andò a sedere di nuovo al tavolo e poggiò la testa sui pugni chiusi, legati insieme dalle manette.

"L'ho rubato a un tizio. Gli ho fregato lo zaino, mentre legava la bicicletta ad un palo della luce. Sono passato con il motorino e gliel'ho strappato via. Mi ha urlato dietro per parecchi metri, ma non è riuscito a raggiungermi."

"Che lingua parlava?" lo interruppi.

"Come?" mi chiese di rimando, girandosi verso di me.

"Secondo te, che lingua parlava?"

"Non saprei..." lo vidi riflettere. "Dell'est Europa? Non era arabo, ne sono certo. Troppo poco elegante..." sembrò ricordare.

"Russo? Ucraino? Bulgaro?" insistetti.

Il suo pesca si sparse a tutta la parte superiore del corpo. "Forse..."

Ci fu un silenzio carico di aspettativa. Non disse altro, non mi guardò più.

Gli poggiai di nuovo la mano sulla spalla. Conoscevo la sua storia, sapevo da dove venisse il suo odio per il mondo, ero certa che non avrebbe trovato il coraggio di attuare il suo piano strampalato di far saltare la sede dell'Agenzia delle Entrate.

"Chiederò una condanna minima per te. Tu approfitterai di questa vacanza in galera per rimetterti in sesto. La crisi economica non è più così grave, sei laureato e scaltro. Basta fare il clochard, adesso pretendo che tu ricominci una nuova vita. Basta con l'odio. Me lo prometti?"

Mise la sua mano ruvida sulla mia e sottovoce mi promise:

"Sì. Non so come tu abbia fatto a leggermi così dentro, ma sì, te lo prometto!"

Strinsi la sua spalla ancora di più e decisi di confessargli: "Il tuo odio, io lo vedo come una nuvola nera che ti acceca. Cerca il sole da oggi in poi, vivrai meglio..."

Mi diressi verso la porta, senza voltarmi e uscii dall'ufficio.

Entrai nella saletta di registrazione accanto e sentii scrosciare un applauso.

"Sei sempre la migliore, Alex!"

Il Tenente Derise era entusiasta di come riuscivo a tirare fuori le informazioni dai peggiori criminali. Non si era mai chiesto quale fosse il mio segreto, non aveva mai fatto domande strane sulle mie innate capacità: secondo lui, avevo un carisma così attraente, da disarmare qualsiasi colpevole. Di fronte al mio bel visino pulito, si abbassavano tutte le armi, diceva lui. Io non ero così entusiasta. Quando uscivo dalla sala interrogatori, di solito, mi sentivo stremata, dalla paura, che nasceva inevitabilmente di fronte alla consapevolezza di essere in presenza di un criminale, colpevole o innocente era mio compito scoprirlo; mentre in fondo all'anima, rimaneva radicata come un cancro, la paura di poter perdere il controllo di me stessa o della situazione, di poter improvvisamente scatenare l'inferno, semplicemente sfiorando e risvegliando la rabbia di colui che mi si parava davanti.

Per questo motivo, la prima cosa che feci, invece che ringraziare il mio capo, fu andare a cercare una sedia e franarci sopra esausta.

"Non abbiamo fatto grandi progressi, però" mi giustificai.

"Certo che li abbiamo fatti: escludere un indiziato è sempre un progresso!" mi rimproverò.

Annuii poco convinta.

"Va a casa Alex, per oggi hai fatto a sufficienza." mi disse, mentre mi aiutava a sollevarmi dalla sedia e mi spingeva con affetto verso il corridoio.

Il suo perenne amaranto mi lasciava senza fiato. Come poteva un agente della Cia avere questa inesauribile voglia di vivere? Io avevo sempre la nausea, quando ero in ufficio. Forse la sua cecità, sui veri colori dei suoi colleghi, poteva giustificare il suo buonumore. Di certo, giustificava la mia malinconia. In tutta la sede centrale di Langley, il suo era l'unico colore positivo che avessi visto. Il resto dei colleghi, in maggioranza erano blu paura, se andava bene potevano mescolarlo con un po' di verde ansia; se andava male, incontravi gente completamente ricoperta di viola dolore, il peggio in assoluto.

Difficilmente avevano famiglie felici, quasi tutti i miei compagni o avevano divorziato, o avevano un'amante. Per me, che consideravo la fiducia un bene primario, era davvero complicato vivergli accanto, scoprire i loro sotterfugi, le loro ansie di essere scoperti, il loro bisogno di fuggire anche la realtà quotidiana di una vita familiare. A me mancava tanto la vita in famiglia. Avrei voluto essere una mamma affettuosa, coccolare mio marito colmandolo di cascate d'amore. Con il mio potere, avrei potuto rendere i miei cari felici da scoppiare, sempre. Invece, la felicità non esiste. Nonostante io abbia convissuto per anni con il celeste serenità di Anna, la felicità non so neanche che colore abbia. Il mio potere non riesce a raggiungere cime così elevate. O forse non ci riesco io, perché non so cosa cercare, non so cosa sia davvero la felicità. Non dopo aver passato i miei migliori anni di gioventù all'inferno. Quello sì che lo conosco bene!

"Alex, ti accompagno?" mi sentii chiamare alle spalle.

Abbozzai un sorriso stanco: "E' tutto okay, tenente, grazie. A domani"

L'ascensore si richiuse alle mie spalle. Mentre scivolavo verso il basso, ebbi bisogno di appoggiarmi alla parete dell'abitacolo in discesa. Mi guardai vicinissima allo specchio di cui era fatta. Ero dimagrita molto negli ultimi anni, anche se rispetto al liceo ero cresciuta parecchio in altezza. A guardarmi così, sbiadita dall'impossibilità della pupilla di mettermi bene a fuoco, perché appoggiata con la fronte alla lastra di vetro che mi stava riflettendo, sembravo un insetto stecco, tutta braccia e gambe.

Mi ero ripromessa oggi di non pensare all'Italia e a ciò che avevo lasciato. Mi ero concentrata sulla mia vita presente, sul mio compito in ufficio, sui miei colleghi, sul mio dannato lavoro.

Una signora, la settimana scorsa, mentre eravamo in fila al supermercato, ascoltava spudoratamente una mia conversazione telefonica con il mio compagno di squadra, detto Burst, perché, oltre ad essere quello più ferrato in materia di esplosivi, è quello che di solito perde più facilmente le staffe durante le operazioni. Mi stava dando delle informazioni importanti, giuro che lo stavo ascoltando, ricordo tutto quello che mi ha detto; solo che nel frattempo stavo facendo la spesa. Era solo quello il motivo per cui rispondevo a monosillabi

"Credo che non sia l'uomo giusto per te, tesoro, se ti interessa così poco quello che ha da dirti..." fu il suo consiglio spassionato, mentre tiravo fuori il portafogli dalla borsa. Non risposi perché non meritava nessuna risposta. Continuò però a ritornarmi alla mente il tono che aveva usato: quasi un rimprovero alla mia falsità.

Aveva ragione lei. Ci misi due giorni a capirlo, ma alla fine dovetti ammettere che la mia vita presente è una gigantesca bugia e che vorrei poter tornare a casa, dai miei amici, da Giulio o almeno, dal mio enorme desiderio di lui.



"Buongiorno Alex, vieni, siediti qui vicino a noi. Papà ha un amico da presentarti."

Quella mattina di quindici anni fa, arrivata mentre stavo cercando di trovare un modo per risolvere il dramma di Antonio, mentre agognavo ogni piccolo fuggevole incontro con Giulio e i suoi misteriosi enigmi, fu per me l'anno zero, il giorno in cui tutto ricominciò irreversibilmente daccapo.

"Ciao Alex, io sono Michael." Si presentò l'amico di papà, con uno sconvolgente accento americano.

"Buongiorno" risposi rigida. Ero entrata in modalità "Defcon 1" nello stesso istante in cui avevo visto mio padre, di un preoccupante verde ansia, accostato al blu profondo della mamma. C'era sicuramente qualcosa di strano, quella mattina, nell'aria. Ne fui ancora più certa quando, analizzando più a fondo il colore di quel Michael, capii che il suo colore primario era l'indaco, che nella mia tabella delle emozioni corrispondeva al desiderio.

"La ascolto..." continuai, perché era ovvio che quell'Americano era lì per me.

"Stupefacente!" si rallegrò lui, "Come sai che sono qui per parlare con te?" arrivò subito al nocciolo della questione. Né mia madre né mio padre aprirono bocca, confermando le mie ipotesi.

"Sono empatica..." risposi guardinga.

"Sì, tuo padre me lo ha raccontato spesso, negli ultimi mesi. Sembra che tu pretenda di vedere le persone monocromatiche..., quindi dovresti soffrire di una rara forma di empatia visiva..."

Per un istante fui distratta dalla sua definizione di me stessa. La migliore che avessi sentito fino a quel momento della mia vita: ero un'empatica visiva! Sì, pensai che fosse davvero il modo scientifico più azzeccato per definirmi.

Solo in un secondo momento il mio cervello realizzò l'unica parola di quella frase che avrebbe dovuto attirare la mia attenzione: rara.

"Intende dire che ci sono stati altri casi come il mio?"

"Non così giovani e non così avanzati senza uno studio adeguato, ma sì, ce ne sono altri. Io sono qui per questo, vorrei che tu venissi con me in un centro in America, dove insieme potremmo studiare e valorizzare le tue capacità."

Presi coscienza che non ero matta, non ero un fenomeno da baraccone, non ero di sicuro unica come Spiderman! Ero però speciale e questo modo che aveva Michael di sottolinearlo, mi piacque molto.

Pensai che non avevo ancora trovato un modo di risolvere il problema di Antonio, che dirlo ad Anna sarebbe stato massacrante, che ero a metà dell'anno scolastico, che forse una scuola speciale di X-men non era proprio quello che avevo immaginato per la mia vita.

"Forse quest'estate potrei..."

Fui interrotta dal suono del campanello di casa.

Mia madre si alzò dal divano, sembrava sfinita, il suo blu si stava amalgamando di nuovo con il suo solito avana, anche se di una tonalità in quel momento quasi panna, come se stesse per perdere tutto da un momento all'altro.

Il portoncino d'ingresso venne aperto e, nel vano della porta, comparve l'ultima persona al mondo, che avrei potuto immaginare venisse a suonare a casa mia: Giulio, in tutto il suo splendore.

"Giulio?" chiesi esterrefatta.

La mia piccola divinità quotidiana mi salutò stavolta con un sorriso pieno, luminoso, come se fosse entusiasta per qualcosa. Poi si voltò verso l'Americano e gli strinse la mano, come a un vecchio amico. Le sue parole buttarono giù l'ultimo paletto della mia palizzata della resistenza, mettendo a fuoco e fiamme ogni altra scusa potessi presentare per non partire:

"Allora, che cosa ti ha risposto, viene con noi?"


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