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Cap 30 Nata dalla polvere


Ripresi coscienza nel fango. Senza eufemismi. Ero letteralmente in un pantano, melmoso e puzzolente, circondata da una semi oscurità gocciolante.

La mia pelle rabbrividiva, a contatto con il vischiume freddo del terreno su cui ero distesa. A parte ciò, non mi doleva niente, quindi conclusi di star bene.

Sollevai il busto mettendomi seduta, come se in quella posizione potessi riflettere meglio. In un certo qual modo, fu proprio così: iniziai a guardarmi intorno cercando di fare mente locale.

Non ero certa che, quello che era rimasto del mio sogno, fosse sufficiente per disquisire sulla veridicità o meno dell'accaduto. Decisi che per il momento, mi sarei basata sui fatti e niente di più.

Punto primo: ero senza ombra di dubbio in una fogna. Come ci fossi finita, mi parve meno rilevante del come ne sarei uscita. Mi misi in piedi e iniziai a studiare l'oscurità alla ricerca di un tunnel, di un passaggio, qualcosa che mi potesse indicare una direzione. Capii quasi subito che mi ero svegliata distesa su quello che, all'apparenza, doveva essere un marciapiede che rasentava il canale di scolo della fognatura. Questo voleva dire che dovevo cercare due cose: la scala di un tombino, con la speranza di riuscire poi a sollevarne il coperchio e le targhette delle strade che servivano agli addetti a non perdersi nei tunnel.

Scale non ne vidi, a malapena riuscivo a vedere il muro di mattoni accanto a me, aiutata solo dalla leggera luce di deboli lampade, posizionate in alto, ogni cinquanta metri. Dopo parecchi passi al gelo, trovai una targhetta sul muro di mattoni che mi si parò davanti, dove il tunnel si separava in due: "Mount Olivet Road".

Avete presente quando sapete di conoscere un volto, un nome, un luogo, ma proprio non vi ricordate in che occasione lo avete incontrato? Ecco, io ero certa di essere stata in quella strada, ma quando e perché erano immersi in una nebbia fitta. Doveva essere un posto fortunato però, perché vicino alla targa, c'era anche una scala di ferro che conduceva ad un'uscita.

Mi ci arrampicai senza esitazione e mi corrosi i polpastrelli, mentre spingevo il coperchio con tutte le mie forze. Sentii i muscoli della braccia gonfiarsi dallo sforzo, goccioline di sudore correre lungo le mie guance, sul collo e lungo la schiena.

Mi ci volle un tempo lunghissimo, per far muovere il tombino dal suo incastro, sicuramente reso immobile dal tappeto di sporcizia intorno alle sue guide. Alla fine, lo sentii sollevarsi leggermente da un lato e mi fiondai con tutte e due le mani a dare spinte energiche proprio in quel punto, fino a che, sfinita, vidi la luce del giorno.

Dopo tutto quel buio e quel silenzio, mi ritrovai in mezzo ad un incrocio, davanti ad un fast food, che mi fece subito gola; mentre alle mie spalle c'era un prato molto curato, recintato da un muretto in pietra. Solo quando guardai un po' più all'interno, di quello che avevo creduto un immenso giardino, capii la macabra verità e tutto fu disperatamente chiaro.

Il Mount Olivet è una strada di Washington, che prende il nome dalla collina che le scorre accanto e che ospita il più grande cimitero della città, dove avevano seppellito Proud. Considerando la mia posizione, io ero sicuramente venuta da quella direzione.

Scacciai subito l'immagine del mio corpo in putrefazione in una di quelle tombe: ero viva, giusto? Per sicurezza strinsi forte le mie braccia e le mie cosce. Non ero uno scheletro, inspirai di sollievo, ma scoprii di essere spudoratamente nuda, ad un incrocio, a quella che, a occhio e croce, era l'ora dell'inizio della scuola.

Avendo eccellentemente concluso il punto uno, passai dunque in fretta a risolvere il punto due: mi ero svegliata nuda come un verme e avevo urgente bisogno di vestiti.

Attraversai la strada di corsa, approfittando dell'assenza ancora di auto. Mi riparai dietro i locali di servizio del ristorante e studiai la situazione: ero in una piazzetta condominiale, su cui affacciava una palazzina di circa trenta appartamenti, molto probabilmente abitati. Mi intrufolai, di corsa, nel giardino posteriore di una piccola abitazione lì accanto e osservai dalla porta finestra sul retro: sembrava che non ci fosse nessuno.

Appoggiai i polpastrelli sul vetro, feci pressione sollevandolo di poco verso l'alto, fino a che non riuscii a far entrare un dito al di sotto della lastra. Dopodiché, fu facile far cedere la cornice di legno che lo fissava alla porta. Lo sfilai e lo poggiati a terra in silenzio.

Entrai nella casetta con circospezione, sperando che fosse davvero vuota. Dopo un veloce sopralluogo, stabilii che il piano giorno era disabitato, così iniziai a salire al piano notte. Erano circa le sette del mattino: ci poteva essere ancora qualcuno che dormiva.

Non mi arrivò però nessun sospiro o altro, quindi decisi di aprire la porta di una camera e controllare all'interno. Era vuota. Feci allora un'ispezione più ampia e stabilii che non c'era davvero nessuno. Solo dopo, aprii gli armadi alla ricerca di qualcosa da indossare.

Trovai un insulso vestitino a fiori della mia taglia e in un cassetto una scatola di slip nuovi ancora con l'etichetta. Poteva essere sufficiente.

Entrai in bagno e chiusi a chiave la porta. Poi, con un profondo sospiro di sollievo, entrai nel box doccia. Punto due completato, ma passare al punto tre era decisamente più difficile, così tergiversai sotto il getto d'acqua bollente, in cerca di un po' di forza.

Quando ti insegnano a sopravvivere in ogni situazione, ti insegnano anche a mantenerti lucida e concentrata sugli obiettivi. Analizzare la situazione e trovare risposte è il passo successivo. Essendo per il momento in un luogo sicuro e non esposta, la prima domanda a cui dovevo dare una risposta era: che cazzo ci facevo nelle fogne sotto al cimitero di Washington?

Mi sedetti a terra, lasciandomi cullare dal calore. Incrociai le gambe e lasciai che il cervello riordinasse tutte le informazioni in mio possesso, mentre l'acqua mi lavava dal fango. Avevo un grande spirito di sintesi, quindi sicuramente lasciando la mia mente a briglia sciolta, avrei trovato delle risposte. O semplicemente, mi avrebbe suggerito la prossima mossa.

Non ero sicura di ciò che era successo nelle precedenti trentasei ore, se il giorno corrispondeva a quello che pensavo, così cercai di ricordare anche i più piccoli dettagli.

Sapevo per certo che ero in ospedale, che quasi sicuramente ero entrata in coma a causa del veleno inalato. Mi avevano drogata con la belladonna, non facile da reperire negli Stati Uniti. Mi ripromisi di passare nei laboratori del centro immunologico per scoprirne la provenienza.

Di quello che era successo dopo, non sapevo assolutamente cosa pensare. L'ipotesi più plausibile era che lo stato di coma aveva fuorviato la mia mente. C'era solo un punto che non quadrava: se avevo, per così dire, sognato, come avevo fatto ad arrivare fino al cimitero? Perché ero nuda e ricoperta di fango?

Se invece fosse stato tutto reale, sarebbe stato quasi ovvio ritrovarmi in un luogo da cui... mi faceva rivoltare lo stomaco solo considerarne l'ipotesi, sarei potuta... risorgere? Rinascere dalle ceneri, come la mitologica Fenice? Avrebbe spiegato la mia nudità.

Scoppiai a ridere. La mia mente stava davvero trovando un senso logico a tutta quell'assurdità?

Forse la verità è che ero impazzita, mi ero trascinata di notte fuori dall'ospedale e non so come mi ero ritrovata nelle fogne. Avrei potuto cadere in una buca e camminare al buio, per ore, dentro i tunnel delle fognature.

Capii da sola che non era possibile. Quando avevo chiuso gli occhi, non riuscivo nemmeno a sollevare una mano, figuriamoci trascinarmi per chilometri tra la melma.

Eppure, in un modo o in un altro, io ero sicuramente lì. Le escoriazioni sulle mani e sui piedi mi dimostravano l'autenticità del momento. Per non parlare della puzza che emanava ancora la mia pelle.

Mi risollevai e presi un barattolo di bagnoschiuma appoggiato vicino a me. Mi insaponai, mi strofinai la pelle fino ad arrossirla. Infine, passai lo shampoo sui capelli. Fu confortante.

Uscii dalla doccia e mi avvolsi in un telo di spugna appeso dietro la porta. I profumi mi indicarono che era sicuramente una donna a servirsene. Mi asciugai i capelli con un asciugamano più piccolo. Non ero tranquilla ad accendere il phon: troppo rumore, che avrebbe potuto attirare l'attenzione di qualche vicino, magari a conoscenza che a quell'ora la casa avrebbe dovuto essere vuota; troppo rumore anche per me, che non avrei potuto sentire l'arrivo del padrone di casa o altro.

Mi vestii e mi ritrovai, come d'abitudine, a specchiarmi.

Nonostante le occhiaie, sembravo piuttosto in salute. Fu mentre guardavo la mia immagine riflessa però, che ricordai le mani di Giulio circondarmi la vita, mentre le sue labbra si posavano delicate sulla mia pelle ancora calda.

Tutte le lacrime trattenute dall'addestramento, scivolarono silenziose sulle mie guance. Qualunque cosa fosse successa, la conclusione era sempre la stessa: mi avevano separata da lui e mi mancava, così tanto da sentire delle fitte profonde in mezzo al petto.

Mi concessi parecchi minuti di disperazione, senza singhiozzi, ma forse per questo più dolorosa, con le mani appoggiate al lavandino. Non riuscivo più a sentirlo, c'era un assenza di segnale, che creava come una voragine in tutto il mio essere. Se mi aveva creduta morta e adesso non era più a Washington, avrei dovuto trovare il modo di contattarlo. Scansai in malo modo l'ipotesi che non avesse avuto il coraggio di andare avanti senza di me. I suoi occhi tristi, visti attraverso il cinema di un ipotetico mondo dell'aldilà, erano drammaticamente realistici.

Sentii il sangue uscire dal labbro che continuavo a mordere con forza, mentre cercavo un modo di far smettere le lacrime di scendere senza sosta. Sentivo solo la mia voce più profonda, che in lontani sussurri, stava cercando di risollevarmi dal baratro.

Fino a che il cervello traditore non palesò l'idea che mi trafisse il cuore e non riuscii più a trattenere i singhiozzi: se Giulio mi credeva deceduta, forse già sepolta, magari proprio da lui, era giusto ritornare nella sua vita? Sconvolgerlo con un ipotetico risveglio dalla morte? Conoscendolo, sarebbe stato capace di spararmi come ad uno zombie!

Le immagini di lui che continuava da solo la sua vita, separato da me, convinto di avermi perso, fecero di nuovo illuminare le mie mani. Le guardai tra le lacrime, interdetta. Le avevo viste così durante il mio sogno e questo poteva voler dire che, dopotutto, proprio immaginario non era stato.

Chiusi i palmi a pugno, scacciando in fondo all'anima il panico, nato dalla consapevolezza che non potevo più essere così scettica sulla mia natura, come fino a quel momento mi ero imposta. Sì, con la forza, perché una parte di me, quella che non aveva a che fare con il cervello, sentiva nel profondo la verità, spaventosa, ineluttabile, oramai imprescindibile da me.

Questo però non significava che avrei avuto il coraggio di rinunciare a Giulio. Mi dissi che era un soldato, il mio protettore e non mi avrebbe mai perdonato, se lo avessi tenuto all'oscuro sulla mia sorte, nel bene o nel male. Inoltre, non avevo la vocazione del martirio e vivere lontano da lui, per me, stava diventando un vero supplizio.

Mi appoggiai alla porta del bagno e mi asciugai le lacrime. se non altro la mente l'aveva vinta sul cervello, la razionalità aveva distratto il cuore.

Mi accorsi che laa questione temporale era divenuta pressante, come quando non sapevamo ancora di preciso quanto tempo potevamo resistere stando lontani.

Aprii la porta del bagno e uscii dalla camera, senza pormi il problema di controllare se qualcuno fosse rientrato in casa. Scesi le scale di corsa e accesi la televisione, premendo il tasto muto. Cercai la CNN e finalmente ripresi a respirare: calcolando che avevo perso i sensi di giovedì pomeriggio e che era sabato mattina, avevo un buco di trentasei ore. Un vuoto che la ragione non riusciva ancora a colmare, ma il cuore considerò sufficientemente corto per tornare da Giulio. Era bastato questo per farmi ritornare la forza e la speranza. Tutte le altre spiegazioni potevano aspettare.

Solo in quel momento, mi accorsi dell'apparecchio telefonico accanto al televisore.

Lo osservai per diversi istanti, indecisa e perplessa.

In tutto quel caos che era diventata la mia vita, rimaneva la certezza di ciò che stavo subendo, oramai da diversi mesi: qualcuno stava cercando di eliminarmi. Non avevo ancora definito come mi ero salvata stavolta, ma era indubbio che me l'ero vista veramente brutta.

Se fossi davero morta e poi risorta, cosa che mi fece storcere la bocca dalla nausea, per il resto del mondo ero oramai cibo per i vermi.

Non potei fare a meno di lasciar sollevare le mie labbra in un tenue sorriso, il primo dopo talmente tanti giorni, che quasi mi sorpresi a sentire i muscoli del mio volto tirarsi. Nonostante tutto, questo poteva essere il vero lato positivo della situazione.

Nessuno cerca di uccidere una persona che notoriamente è già morta.

Alla fine, avevo trovato il prossimo obiettivo: rimanere nascosta ai miei carnefici.

Questo implicava, in primis, non potermi presentare a casa, da mio marito. Avevo bisogno di aiuto, non avrei potuto restare in quella casa ancora per molto; ma per andarmene, serviva una protezione...

Avrei premuto il segnalatore sul braccio o sarei rimasta nascosta anche alla CIA?

Di chi mi fidavo, nella mia nuova vita?

Una persona, oltre Giulio, c'era.

Riflettei con tristezza che, nonostante i miei ricordi rivelassero il contrario, nella vita reale ancora non riuscivo a fidarmi di Hermann, di cui, tra l'altro, non avevo notizie certe.

Di conseguenza, la mia scelta non poté essere che una: alzai la cornetta del telefono e chiamai il mio numero amico.

"Pronto?" rispose una voce scocciata e vigile, come al solito.

"Sono io..." sussurrai, in apprensione.

"Bambina? Dio mio... cosa è successo? Stai bene?" parlò di getto, quasi mangiandosi le parole, rivelandomi la sua gioia nel sentirmi.

"Sì, diciamo di sì, ma ho bisogno di copertura, urgente." tagliai corto, per non dover dare spiegazioni per telefono.

"Posizione, senza nomi" rispose pronto. A volte dimostrava una disinvoltura nel risolvere i problemi, che mi faceva pensare che in un'altra vita, fosse stato un militare.

"Incrocio, ristorante, la sepoltura di un collega, lato sud." risposi in codice.

"Cinque minuti" e riattaccò la telefonata.

Inspirai ed espirai due volte. Avevo aperto la prima pagina della mia nuova vita, adesso toccava a me scegliere che libro vivere.

Salii di sopra, rimisi tutto in ordine, poi scesi di sotto e cercai di incastrare il vetro, in modo almeno che sembrasse accidentale nel momento in cui sarebbe caduto.

Avevo dimenticato di cercare le scarpe, così scesi in strada a piedi nudi, sull'asfalto tiepido del piazzale del ristorante, fortunatamente ancora vuoto.

Pochi secondi dopo, una berlina grigio scuro mi si fermò davanti. I due sportelli anteriori si aprirono all'unisono e ne scesero due uomini giganteschi, con jeans, giubbotti di pelle nera e mitra. Osservarono con minuzia tutti i dintorni, mentre si avvicinavano a me. Io attesi.

Uno di loro bussò sul vetro dello sportello posteriore e quando si aprì, un uomo gigantesco ne riempì il vano. Aveva un completo nero, mi osservò con cipiglio, mi si avvicinò e nel farlo, si sfilò la giacca del vestito. Quando me la poggiò sulle spalle, mi resi conto che mi faceva da cappotto.

Un attimo dopo, fui stritolata dal suo abbraccio, silenzioso ed emozionato. Questo non me lo ero aspettato davvero, così cercai di smorzare un po' la tensione con un tono mezzo divertito:

"Ciao, Joe! Come va?"

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