Cap 22 Per amore e per giustizia
Ho sempre pensato, fin da quando ero piccola, di non essere brava come bugiarda. Tutti, a cominciare da mia madre, si rendevano subito conto che le mie parole erano piene di quella tensione nervosa che accompagna le bugie. Eppure, lo sguardo di Giulio in quel momento, il suo scrutarmi dentro, il suo voler capire fino a che punto fossi capace di arrivare, mi fece rendere conto che sì, in quegli ultimi tempi, ero stata davvero brava a nascondermi.
Quel dubbio, diventato all'improvviso certezza, quell'angoscia martellante e destabilizzante l'avevo tenuta per me, semplicemente evitando anche solo di soffermarmici sopra, senza mai una parola sull'argomento. Non dire equivale a mentire, con una sola differenza: un verbo non è attivo, l'altro sì; uno implica la stasi, l'altro l'azione; ed io avevo scelto di non agire, rimanendo in attesa per giorni, con la speranza di riuscire a sistemare le cose, senza che il mio compagno fosse coinvolto.
Il mio cuore aveva sopportato in silenzio per giorni la più grande delusione della mia vita ed ero certa di averlo fatto solo per proteggere lui.
"Alex, rispondimi, per favore..."
Giulio era un ragazzo sveglio e di certo la mia espressione da sola, gli stava dimostrando che c'era di più in me, un segreto di cui non l'avevo reso partecipe. Invece di infuriarsi, mi stava promettendo che, se lo avessi rivelato in quel momento, avrebbe cercato di capire.
Solo che non era per niente semplice decidere, volontariamente, di far soffrire la persona che ami. Nello stesso istante in cui decisi che era una possibilità che proprio non riuscivo a contemplare, capii che ero disposta a subire la sua rabbia, pur di proteggere il suo cuore.
Sollevai lo sguardo su di lui, oramai ferma e inafferrabile:
"Mi dispiace, ma non posso."
Percepii lo sbandamento che colpì il mio compagno, una vertigine potente che riuscì a far oscillare l'intero suo corpo, in avanti e indietro. Osservai con disperazione il suo sguardo farsi vacuo e poi rabbioso:
"E' così dunque?"
Con un movimento velocissimo, le sue iridi controllarono la reazione di Giò. Lo osservai riflettere tra sé e sé, aprire la bocca per fare una nuova domanda, poi desistere e accettare con rassegnazione la realtà dei fatti.
"Vorrà dire che cercherò risposte da solo..." mi scrutò in volto, pensando che quelle parole potessero in qualche modo modificare la mia decisione. Quando capì che ero irremovibile, si sollevò stanco e deluso dalla sua sedia, prese la sua pistola dalla tovaglia e la rinfoderò sotto il braccio. Salutò Giò con un leggero gesto, che per gli uomini di qualche decina di anni fa sarebbe stato più facile, semplicemente toccandosi un'immaginaria visiera di un assente cappello. Un gesto elegante e dignitoso, per un grande combattente, costretto a declamare sconfitta.
Si voltò e uscì in silenzio dal salottino che aveva ospitato il nostro pranzo.
Giò lo seguì con lo sguardo, poi si voltò furioso verso di me.
"Sei impazzita o cosa? Vuoi forse dirmi che non ti fidi più di lui?" Credo che neanche mio padre mi abbia mai parlato con un tono così drammaticamente di rimprovero.
Abbassai lo sguardo, nonostante fossi sicura e salda nelle mie posizioni.
"Le tue scoperte mi hanno dato la certezza di qualcosa che lo ferirà nel profondo e... no, non sarò io a dargli questa notizia, a vedere il suo volto distrutto dal dolore. Non potrei resistere..."
"E' così grave?" chiese preoccupato, ma non più furioso, il mio ospite.
"Sì" annuì desolata.
Calò il silenzio tra di noi. Ancora mi stupivo di quanto in sintonia riuscivo ad essere con quell'uomo, entrato nella mia vita come una sferzata di vento ghiacciato in una giornata afosa: rinfrescante, ma poco salutare.
Ad un tratto, vidi la sua mano sollevarsi dal tavagliolo e poggiarsi sulla mia chioma. Sentii il peso di quel gesto, come se lo stesse facendo al mio cuore e, quando attirò la mia testa verso di lui e vi posò un bacio rassicurante, non potei fare a meno di espirare tutta l'aria che avevo trattenuto, da quando Giulio aveva lasciato il ristorante.
"Ti ammiro molto per questa scelta. Non so se io sarei riuscito a rimanere così determinato, di fronte alla sua ira."
"Meglio vederlo arrabbiato che colmo di dolore..." precisai.
Un sorriso amaro solcò il suo viso.
"C'è qualcosa che posso ancora fare per te, darling?"
Fu solo allora che puntai lo sguardo nelle sue iridi, mostrandogli tutta la mia forza:
"Sarebbe possibile sapere la provenienza di quell'esplosivo?"
Stavolta il suo sorriso si aprì entusiasta per questo nuovo incarico, inchinandosi come un vero cavaliere:
"Americano?" mi rispose cercando di mettermi alla prova.
Sollevai un sopracciglio, facendogli capire che non ero solita cadere in certi trabocchetti: "So già che non lo è!"
Giò annuì, fiero di me.
"E tu intanto che farai? Sei ancora in pericolo, te ne rendi conto?" mi ricordò, mentre un velo di preoccupazione solcava il suo sguardo.
"Io lascerò che Giulio resti incollato al mio sedere, coprendomi le spalle... ho ancora molte cose da verificare."
"Pensavo che se ne fosse appena andato..." mi provocò il mio interlocutore.
Lo osservai divertita, mentre la tenerezza mi costringeva a sorridere:
"Sai perché sono venuta a chiederti aiuto?" lo fissai, felice di renderlo partecipe di questa mia piccola debolezza. A lui potevo dirlo, avrebbe capito.
"Perché sono il più grande trafficante di armi in circolazione?" si pavoneggiò.
"Perché di te ne avevo sentite tante, di pessime a dire il vero, ma mai che avevi tradito un alleato. Il tradimento mi ha accompagnato per tutta la vita, da quando a dieci anni ho scoperto chi ero davvero. Tu avresti potuto non accettare e sarebbe finita lì, ma se mi avessi concesso il tuo aiuto avrei guadagnato un amico leale e come hai detto tu, vale oro!"
Giò annuì, sorridendomi e dandomi ragione. Poi però, un pensiero triste attraversò il suo sguardo: "Mi stai dicendo che non ti fidi di Giulio?"
"Tu ti fidi del tuo cuore?" lo apostrofai a bruciapelo, mentre raccoglievo la mia borsa e mi sollevavo dalla sedia. Percepii il suo slancio, la sua sicurezza nella risposta che aveva scelto e poi, di colpo, ripensarci, rifletterci, ponderare che forse stava prendendo un abbaglio. Rimase lì, pensieroso e indeciso. Gli diedi una pacca sulla spalla e un bacio sulla guancia e lo salutai con una smorfia serena e amara allo stesso tempo: "Appunto!"
"Ma non puoi farne a meno!" mi urlò, mentre con un piede avevo già varcato la soglia.
"No, non posso!" confessai, strizzandogli l'occhio.
Quando Proud mi aveva raggiunto al terzo piano del centro operativo, sapevo che non avrei ascoltato buone notizie. La mia mente continuava a ripetermi che ero solo una presuntuosa, convinta che solo perché riuscivo a vedere i colori dei sentimenti delle persone, allora ero magica. Purtroppo però quella voce in fondo all'anima, quel sesto senso che mi faceva percepire i pericoli, quello spirito di sintesi con cui ero nata, non sbagliava mai. Non lo fece neanche quel giorno, l'ultimo in cui vidi Proud ancora vivo.
"Ciao, Alex, dove?" mi sussurrò in un orecchio, senza dare a vedere che ci stavamo davvero parlando.
Continuai a camminare, senza fretta, come se lui non mi camminasse accanto.
In fondo al corridoio, però, proprio di fronte a noi, sentii due voci familiari discutere con un certo affanno. Presa in contropiede, inventai d'emblée. Agganciai il braccio del tenente e lo strattonai verso di me, mentre le mie spalle aprivano la porta delle toilettes del piano.
Fu solo con la coda dell'occhio, che potei intravedere il Capitano Derise voltare l'angolo nel nostro corridoio, mentre le sue sopracciglia si corrucciavano, nello scoprire che un membro della sua squadra stava imboscandosi con un tenente di un altro dipartimento.
Dietro la porta oramai chiusa, lo sentii passarci davanti, il tono preoccupato e scocciato, ma non mi smascherò e non mi chiese mai nulla del mio rapporto con Proud, almeno fino al giorno del suo omicidio.
"Se hai intenzione di baciarmi..." sentii la voce del tenente alle mie spalle, prendersi gioco di me e della mia idea stramba, una volta che il corridoio fu di nuovo silenzioso.
Mi voltai e, sogghignando, gli risposi: "Oggi passo!"
"Allora parliamo di affari..." esordì, aprendo sopra il lavandino una cartellina Top Secret. "Sintetizzando, posso solo dirti che... avevi ragione!" sollevò le spalle, come per delineare meglio il fatto che non si era aspettato niente di meno da me.
Mi accigliai subito, perché invece io avevo sperato fino all'ultimo di aver preso un granchio.
"Nei grattacieli di fronte al Post Office?" chiesi incerta.
"Proprio lì di fronte. Ho controllato anche dalle vetrate ed erano perfettamente visibili!" il suo volto divenne serissimo. "Lo stesso giorno, nel laboratorio chimico all'ottantaseesimo piano, hanno rubato delle formule chimiche per la creazione di nuovi esplosivi al plastico: l'ONC, inventato di recente proprio da un chimico americano. L'IRC ha un intero fascicolo sull'azienda chimica proprietaria del laboratorio, ma sembra che non sia una frode: il furto è avvenuto davvero."
"Tu che cosa pensi?" gli chiesi, sperando che si fosse fatto un'idea un po' più precisa di me.
"Penso che qualcuno vorrà usarlo e che sarà meglio tenere gli occhi aperti!"
Quando lo salutai poco dopo, non avrei mai pensato che lo avrei rivisto solo con la gola tagliata.
Quando Derise mi chiese furioso, che cosa c'era fra noi, capii subito che non era a conoscenza del nostro colloquio e del perché ci aveva visto insieme. Eppure qualcuno aveva capito, qualcuno aveva cercato di far tacere Proud, qualcuno che ci aveva visto insieme, qualcuno all'interno della CIA.
Bussai.
"Avanti!" mi rispose una voce molto più indecisa di quanto mi ricordassi.
Quando i suoi occhi focalizzarono il mio volto, le sue palpebre si chiusero, mostrandomi la sua sconfitta.
"Alex..."
"Ciao, Michael" ricambiai il saluto con una punta di rabbia tra le parole.
"Non è un buon momento..." cercò di liquidarmi.
"Non per te almeno..." mi sentii controbattergli acida. Mi sedetti di fronte a lui e posai la mia pistola sulla sua scrivania. La osservò, come se un proiettile fosse già partito nella sua direzione. Sembrava stanco e agitato allo stesso tempo, preoccupato e deluso. L'unica che doveva parlare di delusione lì dentro però ero solo io.
"Qualunque sia il problema, adesso, per favore, non ho tempo." si riprese, continuando quello che stava facendo prima che io entrassi.
Lo osservai in silenzio, senza nessuna intenzione di andarmene. Lo vidi sistemare pile di scartoffie dentro due enormi scatoloni. In un primo momento quell'immagine non mi disse nulla. Poi però, il mio cervello sintetizzò ciò che stavo guardando e la situazione mi fu chiara.
"Dove stai andando?" gli chiesi con nonchalance, quasi non fossi davvero interessata.
"Ho chiesto un trasferimento. Avrei voluto avvisarvi, ma ultimamente mi è diventato quasi impossibile parlare con te..." si fermò a guardarmi "O con Giulio"
A volte mi è capitato di accorgermi di quanto ingenua e relativamente stupida io sia stata in alcune occasioni della mia vita: "Scusaci, eravamo convalescenti e poi, quell'attentato sventato per un soffio... l'interrogatori..." A quei tempi, però, avevo già imparato a leggere fra le righe e tutti i segnali di fumo conseguenti.
"A proposito degli interrogatori: quell'uomo che avete arrestato, io ti giuro che non lo conoscevo!"
Annuii senza guardarlo in volto, con aria disinteressata.
"E dove te ne vai?" chiesi evasiva, vagando con lo sguardo nella stanza che per anni avevo identificato come parte della mia casa.
"Budapest. Ho bisogno di un periodo tranquillo e da quelle parti ultimamente non succede mai nulla!"
"A Giulio dispiacerà..." mi sollevai dalla sedia e guardai il favoloso panorama dalla sua finestra. Stavolta, il sole stava quasi per tramontare. Realizzai che il suo nuovo ufficio da direttore doveva essere diametralmente opposto a quello che aveva avuto prima, quando ancora eravamo amici.
Michael si era fermato al centro della stanza: stava iniziando a capire, pur non avedogli ancora rivelato nulla.
"Mi spieghi perché all'improvviso noi due non siamo più stati amici?" mi apostrofò, con aria melliflua e viscida, o almeno così la percepii sulla mia pelle.
"Solo se tu vorrai dirmi perché hai sempre così tanta paura..." lasciai che le parole fluissero dalla mia bocca, ma non erano quelle che avrei voluto. Davvero gli stavo concedendo una possibilità di giustificare il suo tradimento?
"Alex, ascoltami." mi si avvicinò con uno scatto e mi strinse forte le braccia. "Tu devi lasciar perdere, è pericoloso. Possibile che non te ne renda conto?"
"Chi, Michael, chi è pericoloso?" gli chiesi a bruciapelo l'unica domanda che ero venuta a domandare.
Si ritrasse e mi fissò terrorizzato. Adesso eravamo a carte scoperte. Lo vidi indietreggiare di un passo, consapevole che io non avrei permesso la sua fuga. Lo seguii mentre si avvicinava alla sua scrivania e mettere a fuoco la sua borsa, già chiusa. Maledetta me che non capii le sue intenzioni e nella sua mano comparve la sua pistola, mentre la mia era troppo lontana per raggiungerla.
Sollevò un sopracciglio a schernirmi: "Mia piccola Alex... davvero pensavi di intrappolarmi con le parole? Non lascerò che mi prendano, nessuno infangherà il mio nome. Vuoi la verità? Ho dovuto, sono troppo potenti anche per noi..."
"Chi? Michael, chi c'è dietro?" gli urlai addosso, incurante della pistola.
Le sue labbra si aprirono, ma solo per far uscire un fiotto denso e carminio di sangue. Le sue pupille mi cercarono ancora una volta, incredule. Solo allora sentii il rimbombo del secondo sparo e mi voltai verso la finestra, mentre Michael franava sul pavimento da cui non si sarebbe più rialzato.
Stagliato nel tramonto, c'era un elicottero a mezz'aria, immobile come una libellula e dal suo portellone aperto, si sporgeva una delle poche persone al mondo in grado di sparare quel colpo da quella distanza: il mio Giulio, sul viso una maschera di dolore.
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