Cap 20 L'odio ha un profumo irresistibile
Il pavimento in pietra era stato dotato di una lunga grata di scarico, che attraversava la stanza da parete a parete. L'intento era quello di mantenere le mattonelle il più possibile pulite, ma non era sufficiente. L'acqua continuava a gorgogliare mentre trovava l'uscita in quelle fessure, solo che la sua violenza di caduta era di un volume troppo ampio, perché fuoriuscisse tutta subito. Era solo per questo che sul pavimento continuava a persistere uno strato liquido di circa due centimentri d'altezza. Sarebbe forse stato un bene, se fosse stata acqua: avrebbe ripulito e trascinato via con sé la sporcizia e il fetore di quell'ambiente malsano. Purtroppo però, invischiato insieme c'era un altro liquido, che non usciva dal rubinetto posizionato sul soffitto.
Rimasi al margine di quel lago, dove il dislivello del pavimento permetteva di non sporcarsi le scarpe con quel liquame.
Da lì, mi permisi di sollevare lo sguardo da terra, a cercare l'altro inquilino di quella specie di prigione.
Le sue mani non avevano più la forza di allacciarsi tra loro, ma rimanevano comunque unite grazie alla catena arrugginita che circondava i polsi. L'avevo vista all'inizio, che non era più brillante, perché in quel momento era talmente impregnata di sangue che il suo colore originario ne veniva sepolto.
Anche quelle lunghe braccia appese al soffitto avevano perso l'immagine iniziale e rimanevano nere di lividi e sporcizia, tese dal peso di un corpo stanco e martoriato, come due tendini senz'ossa.
Se mi avessero pronosticato il giorno prima la mia indifferenza in quella stanza, avrei forse riso di una possibilità così remota. Invece, dopo otto ore di tortura, la mia mente si era abituata ai lividi, alle escoriazioni, al sangue. Rimanevano lontano dal mio animo perfino i gemiti disperati.
Osservai la bocca dell'uomo cercare di ingogliare meno acqua possibile, ma dopo pochi secondi, fu comunque costretto ad aprire le labbra, impossibilitato a respirare dalla violenta cascata che si abbatteva inesorabile sul suo viso, sulle sue narici, sulla sua bocca colma. Lo vedevo sforzarsi di sputare più liquido possibile, inutilmente.
Per una frazione di secondo avevo anche gioito, quando Giulio aveva aperto la doccia gelata: avrebbe lavato un po' del sangue da quel corpo.
Presi la pistola taser e sparai le due piccole sonde, che inesorabili si conficcarono sul fianco dell'uomo. La corrente fece vibrare il corpo con una tale violenza, che i suoi piedi sbatterono uno contro l'altro, come se applaudissero. La sua testa si piegò di lato, a dimostrazione che era entrato in uno stato di incoscienza.
Neanche quell'ennesima immagine mi turbò.
Sentii lo sguardo del mio capitano seguire i miei movimenti, sicuri e tutt'altro che esitanti. Posai la pistola sul tavolinetto e andai a chiudere la valvola dell'acqua. Solo dopo, mi voltai a guardare Giulio in faccia. Era teso e preoccupato. I suoi occhi erano due cristalli opachi, circondati da profondi segni scuri. Le sue nocche erano escoriate dai pugni inferti al testimone e, mentre cercava di capire il mio stato d'animo, notai che aveva le mani così sporche di sangue da dovermi vergognare.
Non avevo mai chiesto una pausa, non avevo mai sentito un moto di compassione, mentre le mani forti del mio compagno lasciavano lacerazioni sulla pelle di quell'uomo appeso. Invece, l'unico sentimento a saturare la mia mente in quel lungo pomeriggio, era stato l'odio.
Allungai la mano e azionai la leva alla parete. I ganci al soffitto, che tenevano l'uomo agganciato come un quarto di bue al macello, scattarono con un colpo secco e il corpo cadde sul pavimento bagnato, schizzando di acqua e sangue i jeans del mio partner.
Non se ne curò, troppo concentrato a studiarmi.
"Alex..." cercò di farmi ragionare.
"Sì, lo so!" troncai i suoi rimproveri "Se sviene, non può parlare!"
Presi il manganello e mi inoltrai in quel pantano, verso l'uomo svenuto.
Gli sferrai un calcio all'altezza dell'ombelico, molto più energico di quello che mi sarebbe stato permesso in presenza di un altro capitano. C'erano le telecamere a riprendere l'interrogatorio, ma Giulio le aveva disattivate già da una buona mezz'ora e gli altri compagni di squadra, fino a quel momento, non avevano accennato a nessuna protesta, pur osservandoci.
"Alex, ora basta..." riprovò ancora Giulio, forse convinto che quell'uomo non avrebbe detto una sola parola.
"No, io vedo la sua soddisfazione! Ci sta prendendo per il culo, il soldatino!" gli assestai un colpo con il manganello in pieno volto, che ebbe l'effetto di risvegliarlo del tutto. "Ho provato a convincerlo con le buone e mi ha sputato in faccia!" replicai arrabbiata.
"Alzati, stronzo! Non mi fermerò finché non avrò sentito il suono della tua voce!" gli urlai all'orecchio, strattonandolo per la camicia oramai a brandelli.
Con una forza che non sapevo neanche di avere ancora, aggrappai una mano ai suoi capelli strattonandogli la testa.
"Okay, Liebling..." furono le parole impastate provenire dal pavimento.
Giulio lo prese per le braccia ancora legate e lo posizionò sullo sgabello. Non reagì, ma lentamente, lo vidi sollevare il viso verso di me. Un sorriso amaro gli deformò gli zigomi tumefatti, mentre dal labbro inferiore un rivolo di sangue colò sul mento e sul collo.
"Non è difficile: devi solo dirmi chi ti ha mandato in quel parco con uno zaino pieno di C4." riprovai ancora per l'ennesima volta.
"Cosa..." deglutì vistosamente, pulendosi i denti dal sangue con la lingua "Cosa ti fa credere che non sia stata una mia idea?" domandò a sua volta. Vedevo il suo corpo tremare, stremato dai colpi inferti. Eppure, trovava ancora la forza di prendermi in giro.
"Quando capirai che non puoi giocare con me? Io vedo la tua paura!" gli urlai contro, se possibile ancora più arrabbiata.
"Non credo..." fu la risposta lanciata verso di me come un guanto di sfida, energica e vigorosa, come se tutto quello che aveva subito quel giorno non lo avesse scalfito.
Per la prima volta in quella stanza, decisi di fare da sola e gli assestai un pugno rabbioso sul mento. Vidi la sua testa voltarsi di scatto, ma non ebbi il tempo di gustarmi il risultato, perché Giulio si spostò verso di me e mi trascinò in un angolo della stanza. "Alex, adesso basta! Non puoi parlare così, ci sono i ragazzi di là..." mi sussurrò vicinissimo.
I suoi occhi stanchi andarono a scavare nei miei anfratti più segreti, cercando la ragazza dolce ed equilibrata che conosceva. Fui quasi tentata di ascoltarlo, leggendo nel suo sguardo la meraviglia mischiata al dolore: lo stavo facendo vergognare di me.
Di nuovo però tornò quell'invadente sensazione di disagio, che non mi aveva ancora abbandonata dal giorno prima: chi era quest'uomo? Perché conosceva il mio schema di colori?
Continuavo a mantenerla sotto pelle, quell'agitazione, come se il mio cervello non volesse davvero fermarsi a riflettere sul panico che aveva annebbiato la mia pietà. Quell'uomo doveva darmi tutte le informazioni possibili, era il mio unico ponte verso coloro che stavano tramando alle mie spalle. Sì, avevo fretta, quel pomeriggio, fretta di capire cosa diavolo stava succedendo alla mia vita e sì, avevo dannatamente paura!
Dovette leggerla nel fondo delle mie pupille, perché Giulio abbassò lo sguardo e lasciò andare il mio braccio, ammettendo così che la ragione era dalla mia parte.
Presi un frustino liscio e lungo, lo accarezzai con soddisfazione per tutta la sua lunghezza. Terminava con una piccola croce di ferro, talmente sottile che mi fu facile deliziarmi nell'immagine di come avrebbe scorticato la pelle di quel terrorista.
Mi avvicinai di nuovo a lui e non lasciai che la mia presa tremasse, mentre la usavo per risollevargli il mento.
La mia voce divenne sinuosa, rauca e letale:
"Hai solo due possibilità: dirmi chi ti ha mandato a morire in quel parco e uscire da qui in barella, diretto verso l'infermeria; oppure lasciare che io ti scuoi vivo, fino a vedere il tuo cuore scoppiare di dolore."
Per la prima volta lo vidi deglutire, sintomo che mi aveva creduto.
"Ti sei accorto che nessuno sa che sei qui? Perché continuare a proteggere i tuoi capi? Mandandoti a morire, con quello zaino pieno di esplosivo, non mi sembra che fossero interessati alla tua incolumità!" lo beffeggiai, girandogli intorno e lasciando che la punta della frusta solcasse la sua schiena. Anche così delicatamente, lo stava comunque tagliando, dove la camicia non riusciva a proteggere più la sua pelle.
Vidi una linea sottile rosso sangue attraversare longitudinalmente il suo dorso, dove io ero appena passata.
"Avrai da me solo il mio nome..." negò con la testa, a sottolineare il suo rifiuto a collaborare.
"So già chi sei: sei lo sfigato di turno che avrebbero sacrificato per la causa..." risposi indifferente, alzando le spalle. "A questo punto potresti anche dirmi che sei americano, cosa cambierebbe?" lo punzecchiai.
Mi fissò per alcuni attimi, ancora con quel sorriso amaro stampato sul viso. Vidi le sue ciglia chiudersi, i suoi polmoni gonfiarsi d'aria.
Sapevo che aveva qualcosa da dirci. Il suo modo di guardarmi con sufficienza, come a ribadire che non ci stavo capendo niente, di lui e della sua stramaledetta organizzazione, mi mandava in bestia.
Afferrai il frustino con la mano libera, mentre con quella con cui tenevo saldamente il manico inizia a fare pressione. Quando vidi l'arma flettesi quasi a novanta gradi, la lasciai andare con uno scatto secco. Colpii alla perfezione la ferita sulla sua coscia, lasciatagli dalla pallottola del fucile di Giulio il giorno prima. Era stato medicato, prima di essere portato lì, ma oramai delle sue bende non rimanevano che pochi cenci sporchi di sangue.
Sussultò, incapace di trattenere il suo corpo di fronte a quel dolore acuto. Per un attimo si scompose, trattenendo il respiro. Abbassò la testa per non mostrarci la sua sofferenza, ma fu solo per pochi istanti, poi risollevò fiero il mento verso di me. Il suo sorriso canzonatorio tornò quasi subito a graffiare la sua faccia e a stuzzicare la mia collera.
"Da quanto?" chiese con un sussurro rauco.
Giulio gli si avvicinò dalla parte opposta a dove ero io, gli strattonò i capelli per farsi guardare in faccia.
"Cosa?" chiese spazientito anche lui, finalmente.
Gli occhi dell'uomo, per quasi tutto il tempo che eravamo lì, erano stati puntati su di me, mai sul mio capitano. Adesso invece, si voltarono a guardare Giulio dal basso verso l'alto, ma sempre strafottenti.
"Da quanto tempo?" chiese con voce più alta.
Giulio mi indirizzò uno sguardo interrogativo, ma fui costretta a ripagarlo con la stessa moneta. Nessuno dei due aveva capito a cosa si stesse riferendo.
L'uomo sogghignò tra sé, divertito della nostra ignoranza, ma decise che era venuto il momento di chiarirsi, forse stanco di essere torturato.
"Da quanto sei il suo ufficiale?" chiese a Giulio, perdendo del tutto l'ironia e diventando serissimo.
Mi convinsi che stava cercando di sviarci, parlando di tutto e di niente, creando un'attenzione su altro ripetto a ciò che volevo sapere. Quando lo avevano portato, ferito e claudicante, non mi ero aspettata che avrebbe resistito così stoico per tutte quelle ore. Forse il suo abbigliamento elegante aveva falsato l'idea che ci eravamo fatti di lui: un uomo distinto, traviato da qualche organizzazione terroristica che gli aveva inculcato idee di distruzione di massa, magari per vendicarsi di qualche torto subito dal governo americano. Un banchiere, un broker, un industriale.
La sua resistenza al dolore; i suoi muscoli tonici, che avevano assorbito con indifferenza i pugni di Giulio; il modo in cui incassava senza sorprendersi più di tanto; tutto il suo atteggiamento mi aveva dimostrato però che ci eravamo sbagliati.
Quell'uomo era un combattente, non un fanatico, era addestrato forse anche meglio di noi, dunque doveva sapere cosa stava facendo e perché.
Presi un bel respiro e iniziai a pensare che era arrivato il momento di andare a casa, farmi una bella doccia calda, anzi, un bel bagno nell'idromassaggio e addormentarmi tra le braccia di Giulio; tanto non avrebbe parlato.
Mi guardai intorno, cercando di capire che cosa dovevo portarmi via da quello schifo di posto e, allo stesso tempo, cercando di ignorare il senso di frustazione che continuava a fomentare la mia rabbia.
Fu per quello forse che non fui minimamente preparata alle sue parole:
"Riesci a percepirla anche a grandi distanze?"
Mi voltai con la bocca spalancata, il terrore che mi camminava violento nelle vene.
"Come hai detto?" chiese Giulio, incapace di concepire come reale quello che avevamo appena sentito.
"Di cosa stai parlando?" cercò di farlo continuare il mio capitano, incredulo quanto me, mentre gli urlava contro e lo scuoteva come una tovaglia fuori dal balcone.
L'uomo cadde di nuovo a terra, sbattendo lo zigomo sul pavimento di pietra, impossibilitato dalle catene a pararsi la caduta con le mani. Per un istante sembrò annebbiarsi, poi invece, cercò come poté di puntellarsi con le dita e lentamente si sollevò da terra, fino a ritrovare la posizione eretta.
Come se all'improvviso non avesse più nessun interesse nei miei confronti, mi diede le spalle e scrutò Giulio, avvicinandosi di un passo.
"Credo che non succedesse da più di quattrocento anni..." continuò imperterrito il suo discorso, come se noi sapessimo a cosa stava riferendosi.
La paura, che aveva istigato la mia violenza in quel lungo interrogatorio, mi stava paralizzando in un angolo della stanza: incapace di articolare una qualsiasi forma di suono dalle mie labbra, impedendo al mio corpo di smettere di tremare.
"Sono stanco e non mi interessano i tuoi vaneggiamenti..." replicò Giulio, allontanandosi da lui e muovendo un passo verso di me.
Lo abbracciai con lo sguardo, mi aggrappai al colore dei suoi occhi, mentre mi si avvicinava e contemporaneamente cercava di farmi capire che non dovevo credergli. Quando mi fu sufficientemente vicino, mi passò il braccio sulle spalle, come era suo solito fare. Per pochi attimi, sembrò che riuscisse a tranquillizzarmi.
Guardò verso il vetro a specchio e fece cenno ai ragazzi di farla finita lì, tanto oramai l'uomo stava vaneggiando.
Avevo già allungato la mano verso la porta, intenzionata a bussare alla guardia di fuori perché ci aprisse. Ero già con la mente lontano da quel pazzo, quando la sua voce mi trapassò, come un fantasma:
"Scusa se ti ho fatto assaporare il dolce sapore dell'odio, Alex. Purtroppo, solo tu sei arcobaleno in questo secolo..." quando mi voltai, mi ritrovai i suoi occhi fissi nei miei, intensi e penetranti. Come se il nostro voler andar via fosse stato per lui l'ultimo tassello di un grande puzzle, quello mancante, quello definitivo, quello che gli permetteva finalmente di aprirsi con noi; il suo atteggiamento improvvisamente cambiò, divenne tranquillo e sereno, la sua voce vellutata e carezzevole.
Io invece, iniziai a tremare sotto il braccio di Giulio, che cercò di sostenermi afferrandomi con la mano la spalla e stringendomi più a sé. Fu peggio, perché in quel modo mi resi conto che anche lui stava tremando. Era però più forte di me, più preparato alle sorprese, più soldato e meno agente. Fu per questo che trovò le parole al mio posto:
"Invece tu chi sei?" chiese lentamente, scandendo le parole una alla volta, come se stavolta non avrebbe più sopportato stronzate da parte di quell'uomo.
I suoi occhi si riempirono inaspettatamente di dolcezza e dolore, fissò a lungo il mio capitano, come se volesse ringraziarlo, poi accarezzò tutta la mia figura con grazia, senza malizia, come se fossi davvero preziosa per lui. Infine, un sorriso caldo gli rischiarò il volto martoriato e le parole uscirono dalla sua bocca come note di una canzone d'amore:
"Io sono Hermann, dein Bruder..." i suoi occhi nocciola brillarono nei miei. "Tuo fratello, mein Schatz. Felice di averti ritrovato, finalmente!"
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