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Cap 2 Chiudi la bocca

"Alex?"

"Mmmm"

"Tesorino della mamma, che se non si alza farà tardi a scuola?"

"E' presto..."

"No, bimba, non è presto e tu devi ancora preparare lo zaino. Su!"

Improvvisamente la luce del primo sole del mattino mi pugnalò le pupille, mentre con

affanno, cercai di nascondermi ancora più giù, sotto le coperte.

"Dai bimba, papà sta già facendo la barba e se non ti sbrighi, partirà senza di te e tu

dovrai fare ben sessantacinque passi a piedi, prima di arrivare alla fermata dello

scuolabus!"

"Ufff!"

Decisi di trovare la strada della luce, fuori dalle coperte. Mi misi seduta sul letto,

stropicciai gli occhi e finalmente fui pronta al risveglio.

Nell'esatto istante in cui le mie palpebre trovavano le forze di sollevarsi, mia madre

usciva dalla camera nel corridoio. La sentii ricattarmi di nuovo:

"Se non ti sbrighi a lavarti e vestirti, finisco quel poco di crostata rimasta sul tavolo,

dopo il passaggio di tuo padre..."

Scattai come una Ferrari in pole position, presi in derapata la prima curva a destra,

riuscii a non schiantarmi contro il muro e, solo sbattendo un po' sui cordoli, riuscii a

infilarmi nella porta del bagno piccolo.

Sentivo mio padre fischiettare pochi passi più in là. Quella mattina sembrava allegro.

Uscimmo praticamente in sincronia sul corridoio. Avevo ancora l'asciugamano in

testa e correvo al buio verso la camera, alla ricerca disperata del mio super potente

phon professionale, regalo di Natale della nonna. Avevo ancora un quarto d'ora.

Con soddisfazione guardai allo specchio il lavoro finale: capelli che, con molta

fantasia, si potevano definire lisci; leggings neri, che stanno bene con tutto; maglietta nera a

maniche lunghe, con una bellissima applicazione di strass rossi sul davanti a formare un enorme cuore.

Non sono mai stata una tipa freddolosa e, anche se eravamo già a gennaio, non avrei

aggiunto né felpe né maglioncini. Poi si suda e se si suda... vabbé lasciamo stare.

Scesi, convinta di aver fatto un bel lavoro, al piano di sotto, pronta per la mia agognata

colazione.

Mi sedetti al tavolo, arraffai la prima fetta di crostata nelle vicinanze, ingurgitai un

boccone immenso e fui pronta a salutare i miei genitori.

Sarebbe dovuta essere una giornata come tante. Sarebbe dovuto andare tutto liscio

come sempre. Avrei potuto non farci caso. Avrei dovuto, sicuramente, tenere la bocca

chiusa.

Tutto quello che riuscii a fare invece, fu urlare terrorizzata e scappare in fondo alla

cucina, un piede già fuori dalla porta.

"Alex? Che ti succede?" sentii pronunciare dall'altro lato della cucina.

Non ero ancora in grado di capire. Il mio cervello di bambina non aveva sufficienti

informazioni, a quell'epoca, per dare un senso alle immagini che venivano riportate

dal nervo ottico. Feci l'unica cosa che si può fare quando si è ancora così piccoli:

piansi, urlai di nuovo e piansi.

Mia madre si avvicinò con cautela, cercando di tranquillizzarmi, ma più diminuiva la

distanza tra di noi, più l'immagine diventava nitida e terrificante.

Così spostai lo sguardo su mio padre, ignorando deliberatamente le parole dolci che

quella povera signora nella mia cucina cercava di indirizzarmi.

Analizzai la figura alta e slanciata dell'uomo ancora oggi più importante per me. Fra

di noi c'era ancora un amore viscerale, fatto di serate passate ad addormentarmi sulle sue

gambe, accoccolati in poltrona.

L'uomo che aveva rischiarato tutti i miei momenti bui, tutte le mie giornate strane, era

lì, immobile, esterrefatto; inspiegabilmente nei suoi occhi trovai un'ombra, profonda,

celata, ma visibile. Fu ciò che mi permise di fare la mia prima associazione.

Quell'ombra, in fondo all'anima della persona a me più vicina durante la mia infanzia, fu la

prima chiave. Era di un grigio scuro, ma non troppo. Sembrava come se i suoi occhi

riflettessero l'immagine di un piccolo coniglio dal pelo grigio. Lo stesso colore che in

quel momento avevano i suoi capelli. Stesso colore, stessa consistenza soffice.

Per un breve attimo la mia mano avrebbe voluto sollevarsi e toccare quella chioma, di

solito di uno spettacolare nero profondo; ne capii immediatamente la stupidità e la

mano ricadde inerme al mio fianco.

Papà era completamente ricoperto di quella patina grigia, a tal punto, da risultare

fumoso, inconsistente, nebuloso come una nuvola pronta a far cadere la sua dose di

pioggia sulla città.

Surreale, ma disperatamente vero.

Mi fu subito chiaro che non stavo sognando, che non era un'allucinazione; troppo

presa a chiedermi cosa diavolo stava succedendo, per concepire la possibilità che

fossi io quella anormale.

In quel momento, mia madre mi raggiunse e mi toccò un braccio.

La mia attenzione si spostò su di lei e dovetti fare uno sforzo immane per non

fuggire. Sembrava una statua di sabbia, avana dalla testa ai piedi. Lei, che nella mia a

quel tempo ancora breve vita, l'avevo vista sempre vestita di colori, a cominciare dai

suoi capelli quasi carota. Adesso era monocromatica e spaventosa.

Pensai che era scoppiata una bomba chimica in giardino, una di quelle di cui parlava

sempre un mio compagno di banco di allora, amante di non so quale stupido cartone

di mostri.

Mostri, pensai, i miei genitori sono diventati dei mostri.

Inevitabilmente, la mente di una bambina di dieci anni attuò l'unico meccanismo di

difesa possibile: chiuse tutti i canali di accesso al mondo esterno e io mi accasciai sul

pavimento. L'ultima cosa che ricordo di quel momento è la voce disperata di mio

padre che gridava: "Prendila!" e io ho pensato che non l'avrei rivisto più.

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