Cap 17 Il coraggio è un optional
Ero sicura che in quel momento sarebbe stato meglio pianificare il mio incontro; molto probabilmente avrei dovuto riflettere meglio su quello che avevo deciso di fare; invece, me ne restavo seduta a canticchiare a bassa voce una canzone che, per un motivo o per un altro, mi ricordava Anna.
Averla con noi a Washington per quasi un mese, prima in ospedale e poi a casa con noi, era stato così rinfrescante che, adesso che era tornata in Italia, mi sentivo come quando sei in piena escursione nel deserto e ti accorgi che l'acqua nella borraccia è finita: cerchi di rassicurarti che presto troverai una fonte, un fortino, un accampamento, un'oasi e tutto si sistemerà; solo che, nello stesso istante, ti viene una gran sete e la gola ti si inaridisce di botto.
Anna rimaneva la mia acqua. Erano passati più di dieci anni da quando avevo lasciato l'Italia, ma non avevo incontrato amiche che potessero anche solo annebbiare la mia voglia di averla con me. Le avevo promesso che stavolta avrei trovato il modo di tornare da lei, magari pochi giorni, subito dopo qualche missione, quando mi concedevano tre settimane di riposo.
Ero rimasta quasi scioccata dall'enorme carriera che aveva portato avanti nel campo scientifico, finito il liceo e l'università di chimica. Era una delle poche nel nostro paese che veniva addirittura pagata per portare avanti i suoi test chimici. Lavorava al CNR da più di quattro anni, quando venne da me negli States.
Saperla circondata da miriadi di provette, qualche scialbo collega e zero amici, però, mi aveva rattristato non poco. Per lei, l'improvvisa sparizione di Antonio, poco dopo la mia stessa partenza, era stato un trauma, che le aveva impedito di legarsi ad altre persone, di farsi nuovi amici, di avere relazioni stabili.
Quando ci eravamo rese conto che nessuna autorità si stava preoccupando di capire dove fosse potuta andare a finire un'intera famiglia scomparsa nel nulla, capimmo nel medesimo istante che, sicuramente, si trattava di un nuovo imboscamento del programma di protezione. Perché Antonio, o qualche membro della sua famiglia, ne avesse bisogno, non ci fu mai dato scoprirlo.
Essere abbandonati da una persona che per anni è stata parte integrate della tua anima, così, senza una spiegazione, non deve essere stato facile per Anna; soprattutto dopo che io stessa le avevo voltato le spalle, per seguire Giulio e la mia stravagante natura in un paese così lontano.
Vidi dallo specchietto retrovisore la porta in metallo, dell'ingresso posteriore della Green FunPark, aprirsi lentamente e rumorosamente, mentre un uomo slanciato, sui sessant' anni, capelli brizzolati, impeccabile completo grigio di taglio sartoriale, salutava ad alta voce qualcuno all'interno del locale, impartendogli gli ultimi ordini.
Era accompagnato da un armadio a sei ante, la cui andatura ricordava molto quella di King Kong. Era ancora più raccapricciante, laggiù in fondo alla strada, nell'oscurità di quell'ora tarda della sera.
In quel momento, finalmente, pensai di star facendo un'enorme cazzata. Eppure, qualcosa in fondo all'animo mi diceva che andava fatta, che non c'era altro modo, anche se sarebbe andata male, dovevo proprio percorrere quella via.
Aprii lo sportello e scesi dall'auto, piazzandomi in mezzo alla strada in cui stavano transitando i due uomini, intenti a raggiungere la loro auto, quattro posteggi più avanti di dove avevo parcheggiato la mia.
"Buonasera, Sig. Cisco" lo apostrofai, quando fu sufficientemente vicino da sentirmi.
Per un istante, vidi il suo sguardo percorrere la mia figura, forse alla ricerca di un indizio o un ricordo che gli permettesse di capire chi fossi. Non giudicandomi alla fine pericolosa, rispose cordiale: "Siii?"
"Sono il tenente Alex Barbera. Avrei bisogno di parlare con lei." sputai tutto di un fiato.
"In centrale?" chiese sorridendo beffardo, per nulla preoccupato. Mi aveva sicuramente scambiato per un poliziotto.
"Non ce ne sarà bisogno. In realtà dovrei chiederle un favore..." precisai. Il suo colore primario, nonostante fosse notte, brillava di un effervescente porpora, vagamente tendente al lilla. Era senza ombra di dubbio un uomo sicuro di sé, soddisfatto della sua vita, pieno di un ego gigantesco che non gli faceva temere nessuno. Nonostante avesse pensato di me che ero della Polizia, non si era macchiato minimamente né di verde né di blu.
Si avvicinò ancora a me e alla mia auto, con un sorrisetto malizioso in faccia:
"E che cosa offriresti in cambio, sentiamo?" toccò con poco rispetto l'orlo della mia canottiera, ad un millimetro dal mio ombelico.
Sogghignai, scuotendo la testa: "Che cosa le fa pensare che io abbia intenzione di offrire qualcosa?"
Vederlo così, a dieci centimetri di distanza, mi fece capire che era un bell'uomo di mezza età, con un modo di gesticolare contenuto ed elegante, due spettacolari occhi neri, taglienti e furbi... ma io ero più alta di lui!
"Darling, ti presenti qui, con quei jeans aderenti mozzafiato, la canottierina militare, gli stivaletti e speri che il mio uccello non si alzi per te?" mi chiese, spingendomi all'improvviso contro l'auto e appiccicandosi a me.
Il suo profumo intenso mi fece scoppiare le narici, il suo sguardo divenne famelico e, a terrorizzarmi ancora di più, ci fu la vicinanza del suo gorilla che non mosse un muscolo.
Si stava strusciando su di me, le mani poggiate ai lati della mia testa e il bacino che spingeva viscido tra le mie gambe, solo che... non era quello che tutti i suoi conoscenti si sarebbero aspettati da quel grande boss.
Ebbi un'idea: era pericolosa, ma dovevo tentare. Ero preparata all'eventualità che poteva finire male per me, quindi mi imposi di rimanere razionale e di non farmi prendere dal panico.
Avendo le mani libere, ne piazzai una sul suo inguine: un modo come un altro per poterlo toccare con le miei mani e attuare il mio piano.
Ne fu piacevolmente sorpreso, così il suo sorriso divenne più eccitato: "Vedo che sei d'accordo con me, dolcezza!" fu la sua conclusione, schiacciando la mia mano tra i nostri corpi.
Scossi la testa in segno di diniego, mentre dal suo basso ventre, una chiara macchia di color pesca stava mescolandosi con il suo porpora. Stava funzionando. Era il momento di scrollarmelo di dosso.
Alzai la mano libera in segno di stop, verso l'alto, verso il tetto del palazzo di fronte. Vidi il suo sguardo assottigliarsi e spostarsi nella direzione del mio braccio. Arricciò le labbra in segno di disgusto, ma non mostrò nessuna paura.
Gli poggiai allora la mano sulla spalla, perché non abbassasse la testa e non decidesse di baciarmi il collo nudo: quella sarebbe stata la sua prossima mossa, ne ero certa. Un'altra enorme macchia color pesca si allargò inesorabile. Il mio potere stava facendo effetto e decisi di procedere.
"Credo che, da quello che sento qui," gli strizzai i genitali "non rimarrei poi così soddisfatta. Forse dovrei scambiarti con due ragazzetti di trent'anni..." lo provocai, sussurrandogli l'insulto all'orecchio, perché il tirapiedi non mi sentisse.
Diventò di ghiaccio, i suoi occhi si cristallizzarono in un nero profondo, ma oramai avevo preso il controllo dei suoi sentimenti e, invece di picchiarmi o insultarmi, si sollevò da me e scoppiò a ridere.
Divenne drammaticamente blu per pochi, significativi, rivelatori istanti. Infine, mi trafisse con un pensiero velato e allo stesso tempo infuocato, ben camuffato tra le sue risate.
Chiusi e riaprii lentamente le ciglia, ancora alla sua mercé, accettando in silenzio la sua supplica di tacere. Allora, solo allora, mise in scena il suo teatrino, a favore del suo gorillone.
"Bella, impertinente e meravigliosamente coraggiosa!" esclamò con fin troppo entusiasmo. Infilò le mani in tasca, subliminale messaggio che non mi avrebbe fatto alcun male.
"Dobbiamo essere amici! Non mi capita tutti i giorni gente con attributi così duri!" Socchiuse gli occhi, per sottolineare il doppio senso.
Gli sorrisi di rimando. Non ero certo lì per far sapere al mondo che il sig. Cisco aveva problemi di erezione.
Ritornò sincero e tranquillo, lo vedevo.
Con un gesto plateale mi invitò verso la porta del locale: "Vieni, voglio offrirti da bere, mia cara. Alex, giusto?" mi chiese allegro e soddisfatto.
"Sì, signor Cisco" risposi cordiale.
"No, no, tu puoi chiamarmi Gio' da oggi in poi"
Mi si accese una scintilla: "Pensavo fosse messicano!" gli chiesi meravigliata.
"No, tesoro, sono di Caserta, Italia!" specificò con un leggero tono malinconico.
"Anch'io sono Italiana..." !"
"Ah, lo sapevo! Gli americani non sono così brillanti!"
Ridemmo, mentre la porta del Green FunPark si riapriva per noi. "Voglio che mi racconti tutto di te e del favore che vuoi chiedermi."
Alzai di nuovo lo sguardo verso il tetto del palazzo, un istante piccolissimo prima di varcare la porta. Se ne accorse lo stesso.
"Non ho capito bene: FBI?" mi chiese curioso, ma era evidente che per lui non avrebbe più fatto differenza.
"CIA" risposi sinceramente, perché con quel pezzo grosso della malavita americana, da quel momento, la sincerità sarebbe stata la mia carta vincente.
Fui accolta da un fracasso gigantesco, peggio di uno zoo pieno di animali urlanti. Il Green Funpark era in definitiva un parco giochi al chiuso per bambini. C'erano enormi liane che scendevano dal soffitto a vetro, immensi alberi da cui si diramavano passerelle di legno e piattaforme sospese, da cui i bambini si lanciavano nel vuoto o con le liane. Il pavimento ai loro piedi era una distesa di tappeti gonfiabili alti un metro, su cui si poteva atterrare senza rischi. Il verde della vegetazione, la luce forte, gli alberi, gli urli: per un secondo ebbi l'impressione di essere nella giungla. Mi resi conto solo dopo che era proprio l'obiettivo del parco.
"Ancora così pieno a quest'ora?" domandai stupita.
"Ci sono molti più bambini che faticano a prendere sonno di quanti vadano a dormire all'ora auspicata dai genitori! E poi, se guardi bene, alcuni non sono più tanto piccoli..." mi suggerì, alzando lo sguardo verso i ponteggi.
Aguzzai la vista, come mi aveva suggerito e notai parecchi adolescenti appesi alle corde più alte. Un modo per passare una serata in compagnia, conclusi.
"Vieni, qui non riusciremmo a parlare."
Mi guidò verso una sala piena di tavolini da caffè, dove una moltitudine di gente di tutte le età consumava cocktails, chiacchierando. Arrivati in fondo aprì una porta scorrevole e ci ritrovammo in un salotto, molto simile a quello che chiunque si aspetterebbe in un appartamento. Mi fece segno di accomodarmi su uno dei tre divani di pelle bianca, sistemati su un bellissimo tappeto a pelo lungo color ghiaccio. Era un posto molto elegante: chissà perché avevo pensato di lui che fosse uno spocchioso messicano kitsch!
"Cosa ti offro?" mi riportò alla realtà dal bancone bar.
"Un Bellini, grazie." risposi, continuando a guardarmi in giro.
"Diciamo che mia moglie ha un gran gusto per l'arredamento..." spiegò senza che io avessi chiesto "e che pretende che il mio ufficio sia accogliente, visto il tempo che vi trascorro".
Si sedette sul lato opposto del mio stesso divano e appoggiò una flûte sul tavolinetto in cristallo trasparente vicino a me, facendo attenzione a posizionarlo sopra ad un sottobicchiere.
"Davvero delizioso." mi congratulai, riferendomi alla stanza e non al cocktail che ancora non avevo assaggiato.
"Grazie, mia cara." inclinò leggermente la testa per ringraziarmi, poi accavallò con eleganza una gamba sull'altra, mettendosi comodo.
"Allora, cosa posso fare per te?" passò al punto nevralgico dell'incontro.
Bevvi un sorso, posai lentamente di nuovo il bicchiere, riflettendo sul modo migliore di dire la verità a quell'uomo potente, senza che si infuriasse, intendo.
"Io ero al Trump Hotel..." avrei potuto raccontare tante cose, ma mi fermai lì, perché ero di fronte ad un uomo intelligente.
"Mmhmm!" affermò. Come avevo previsto, aveva capito. Tirò fuori il cellulare dalla tasca e fece partire una chiamata:
"Giuly? Vorresti portarmi in salotto il registro 961?" ordinò con dolcezza. "Sì, darling, proprio quello." aggiunse. Chiuse la telefonata e mi sorrise: "Adesso ti dico quello che ne so io, okay?" chiarì per me.
Presi una foto dalla tasca posteriore dei miei jeans e gliela porsi.
La osservò con molta attenzione, rigirandola sui quattro lati. Infine, allungò una mano e aprì un cassetto del comò alle spalle del divano dove eravamo seduti. Ne tirò fuori una gigantesca lente d'ingrandimento e si mise a studiare la foto sotto la luce limpida della grande lampada in ceramica, che faceva bella mostra di sé sopra il tavolinetto in cristallo.
"Americano. 2005." lesse.
In quel momento, entrò la sua segretaria e lo vidi sorriderle con tenerezza; mentre gli porgeva un grosso registro di pelle scura, i suoi colori si accesero di piccole macchie gialle.
"Grazie, tesoro. La mamma?" le domandò.
"Dice che tra qualche minuto andiamo a casa." rispose la ragazzetta sui vent'anni, smilza, ma altissima, con le gambe quasi sproporzionate per quante erano lunghe.
"Okay, io arrivo tra poco" concluse laconico. La ragazza se ne andò, chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle. Non mi aveva neanche guardato di sfuggita.
"E' la figlia di mia moglie." volle farmi sapere. "Molto promettente."
Poi aprì il fascicolo e si tuffò nelle pagine, alla ricerca. Lo lasciai fare in silenzio. Passarono parecchi minuti, con il sottofondo solo delle pagine che venivano voltate: pagine talmente piene di scritte ed elenchi da risultare rigide.
Infine, sembrò aver trovato ciò che stavamo cercando ed esultò.
"Bingo! Venduto il 03 Marzo di questo anno". I suoi occhi si fecero piccoli piccoli e le sopracciglia quasi si unirono sulle rughe, apparse sulla sua fronte alta e abbronzata.
"Come fate ad averlo voi? Era diretto in Azerbaigian."
"Sì, beh... diciamo che l'uomo a cui l'hai venduto non è stato molto attento..." sorrisi beffarda. Subito dopo ritornai seria:
"Credi che potrebbe essere lo stesso del Trump?" Finalmente posi la domanda per cui ero venuta da lui.
"Bambina, al Trump ne hanno usato una quantità che nessun compratore privato potrebbe mai permettersi!" rispose allargando le mani.
"Non ho capito..." dichiarai esterrefatta.
"Alex, non mi dire che nessuno dei tuoi grandi analisti ti ha messo al corrente di un particolare così evidente?" mi fissò, ma vedendomi brancolare nel buio, sottolineò quello che per lui, uno dei più grandi trafficanti di armi al mondo, era palese: "E' stata opera di un governo straniero, forse africano! Ma davvero non avete capito che, per buttare giù due palazzi come quelli, servono artificieri esperti e milioni di dollari di C4?"
Le mie labbra si aprirono, ma l'aria non uscì. Ero pietrificata. Forse fu per questo che mi scosse dolcemente: "Alex, è stato un attentato. Un gigantesco, sanguinoso, terrificante avvertimento al governo americano. A dieci minuti a piedi dalla Casa Bianca... da non credere!"
Rimasi a guardare il vuoto, sconvolta.
"Siete sicuri sull'esplosivo?" mi chiese dopo diversi attimi di silenzio.
"Penso di sì, perché?" domandai ancora più in allerta.
"Perché non capisco a che scopo usare un esplosivo quando avrebbero potuto farlo esplodere con un razzo, un missile terra-aria... ci sono tante armi più potenti, perché piazzare tonnellate di C4 e sbagliare così clamorosamente i calcoli? C'erano troppe cose che non quadravano, a cominciare dal fatto che ero stata attirata lì...
"Forse non li hanno sbagliati! Forse volevano che lo scoppio includesse anche l'albergo..."
Riorganizzai le idee e decisi che, per il momento, potevo fidarmi di sole due persone a Washington e una era di fronte a me.
"Riusciresti a sapere la provenienza di quell'esplosivo?" Parlai seria, ma mi accorsi che fu quasi una supplica.
"Farò qualche domanda..." rispose disponibile il mio nuovo fidato amico.
"Grazie, Giò. Mi sei stato di grande aiuto."
Galantemente, si alzò in piedi e mi porse la mano per aiutarmi a sollevarmi dal divano. Infine allungai la mia mano verso di lui. Cisco la prese fra le sue e si piegò leggermente, mentre la sfiorava con le labbra.
Quando mi guardò di nuovo era serissimo:
"Alex, se ti dovessi sentire in pericolo, braccata o minacciata, voglio che vieni da me, okay? Ho letto i giornali, so che sei stata parecchio in ospedale con il tuo fidanzato. Non hanno detto, ma io so che c'era di più al Trump di una semplice visita di controllo..." deglutii emozionata. "Se ti volevano lì, forse gli stai dando fastidio. Tieni le tue spalle ben coperte, come stasera. Non agire più da sola, me lo prometti?"
Gli sorrisi con affetto: "Sì, signore!"
Il gorillone mi accompagnò fino alla porta d'ingresso e l'aprì per me. Un passo prima di uscire, mi voltai verso di lui e gli chiesi a bruciapelo: "Tu come ti chiami?".
Il ragazzone, sicuramente italiano anche lui, molto più giovane di quello che avevo pensato vedendolo uscire dal locale, mi sorrise e strizzandomi l'occhio, rispose: "Joe, con la J e la E"
Gli scoppiai a ridere in faccia e salutandolo con la mano, uscii.
Raggiunsi l'auto, aprii gli sportelli, mi sedetti al volante, inserii la chiave nel cruscotto e una mano molto più grande della mia venne a bloccarmi. Mi voltai verso il sedile del passeggero e quello che vi trovai mi gelò il sangue.
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