Cap 10 Nell'universo ogni cosa ha un peso
L'ufficio postale era silenzioso. Dall'esterno sembrava tutto tranquillo, anche se le inferriate delle vetrate erano calate e la porta scorrevole verso l'esterno era rimasta aperta. Una normale mattinata di sole. L'unica differenza era la mancanza di continuo viavai di persone. Nessun pedone sul marciapiede, nessuna macchina sul piazzale, niente traffico sul vialone su cui era affacciata la casetta in legno, con il tetto spiovente e le enormi finestre, sulla cui facciata troneggiava la consueta scritta "Post Office".
Vidi un leggero movimento provenire dalle tende chiuse, vicino all'ingresso. Anche se fosse stato lui, non avrebbe fatto differenza: i vetri erano antiproiettile. Decisi che avevo girato fin troppo su me stessa, così iniziai ad avanzare verso l'ingresso. Superai la porta esterna molto lentamente, per dargli il tempo di osservarmi ancora. Mi fermai sopra il largo tappeto di moquette e aspettai una sua mossa, paziente, anche se le braccia, tenute alzate già da diversi minuti, cominciavano ad indolenzirsi.
Finalmente sentii scattare la serratura dell'ingresso interno. Non sapevamo di preciso come avesse forzato le chiusure automatiche di sicurezza e non ci interessava. Quello che contava era che aveva accettato di parlare con me e mentre lo faceva, i ventisei ostaggi rimanevano ancora vivi.
"Tu chi sei?" chiese brutale, rimanendo nascosto dietro una colonna del portone vetrato.
Nell'istante in cui aprii bocca, sentii un sussurro provenire dall'altro lato del portone e spostai impercettibilmente il dito indice della mano destra, per far capire agli agenti, nascosti poco dietro di me, dove si trovava il vero attentatore. Io, in realtà, stavo parlando con un ostaggio.
"Sono il tenente Alex Barbera, il tuo negoziatore" risposi a voce più alta del normale.
L'uomo dietro la tenda di sinistra venne ad aprire, mi guardò con occhi terrorizzati e si fece da parte per farmi entrare. Sentii subito dopo scattare di nuovo la serratura e, nel medesimo istante, una mano robusta aggrapparsi con cattiveria alla mia coda di capelli.
"Ciao dolcezza... Hanno mandato te per farmi divertire nell'attesa? Regalo apprezzato, devo proprio ammetterlo..." Lo sentii annusare la mia testa. Più di tutto però, analizzai il tubo gelato che stava scavando dentro il mio fianco destro. Non tremava neanche un po'.
Oramai però non mi spaventavo più, di fronte a questa gente. Non ero più la bambina stralunata strappata dal suo habitat; non ero più l'insicura adolescente che si era ritrovata per caso in una città difficile e infida come Washington. Oramai ero per tutti il Tenente Barbera, la risolutrice più sexy degli States, soltanto perché la maggior parte dei colleghi maschi faticava ad ammettere che nessuno sarebbe mai riuscito a risolvere situazioni di tensione come questa, con la mia stessa facilità.
"Non sarebbe molto divertente, considerando la puzza che c'è qui dentro..." puntualizzai. Sapevo che cos'era quell'odore e quanto tempo avrei impiegato per togliermelo dal naso.
Sogghignò: "Forse hai ragione, ma quello stupido ha voluto fare l'eroe..."
"Dov'è?" chiesi senza tanti giri di parole.
"Sicura che il tuo stomaco possa reggere quello spettacolo?" giocò ancora con me.
Con cautela iniziai ad abbassare le braccia, feci due passi avanti per allontanarmi da lui che, come mi aspettavo, lasciò la presa. Iniziai a studiare la situazione. C'erano diverse persone a terra, davanti agli sportelli, cassieri compresi. C'era un silenzio terrificante. Identificai una madre con due bambini molto piccoli, avvinghiati alle sue braccia così stretti da comparire come un unico fagotto. Fogli e borse erano sparpagliati sul pavimento di marmo del salone. Non vedevo il direttore che dalle foto segnaletiche sapevo essere un uomo alto, con un taglio corto di capelli sale e pepe. Dalla planimetria che mi avevano mostrato i colleghi, la porta chiusa in fondo alla sala, conduceva al suo ufficio e da lì si accedeva alla cassaforte.
"Sicuro che vuoi continuare a sentire questa puzza?" impostai il primo passo della mia trattativa.
Mi spinse con la canna della pistola verso l'ufficio del direttore, che trovai morto sul tappeto, il cranio bucato da un proiettile. Poco distante, appoggiata in malo modo all'anta di un armadio pieno di scartoffie, c'era una donna, sulla quarantina, bionda o almeno lo doveva essere stata, perché adesso i suoi capelli erano solo rossi, appiccicati da una spaventosa colata di sangue che fuoriusciva dal foro di proiettile conficcato sulla sua nuca. Forse si era lasciata prendere dal panico e aveva iniziato ad urlare fino a che, disturbato dal rumore, l'uomo l'aveva uccisa.
Feci finta di non provare pena e nausea per quello scempio, imponendomi di non lasciarmi toccare da quella visione. Spostai invece la mia attenzione su altro.
Contando questi due, arrivavo a venticinque persone. Mancava qualcuno, forse nascosto dentro qualche armadio. Poteva diventare un pericolo per tutti, se avesse deciso di fare l'eroe anche lui. Dovevo trovarlo. La mia giornata si anticipava drammaticamente lunga.
"Hai intenzione di lasciarli qui ad appestare l'aria?" riprovai, esibendo la mia più sincera espressione di disgusto.
"Vorresti che li facessi portare via, magari da qualche giovane uomo aitante presente di là? Non ci casco, dolcezza!" rispose ancora divertito non sapevo bene da cosa.
"Veramente stavo per proporti di farlo io, ma devo ammettere che la tua idea mi piace. Due cadaveri in meno, due uomini forti a sufficienza da buttarti a terra se gli passi vicino, una madre con due bambini piccoli che tra non molto inizieranno a piangere dalla fame. Tutti fuori, senza rischi per te, perché farebbero tutto da soli e tu puoi rimanere nascosto e al sicuro..."
Gli diedi il tempo di ragionare, mentre passeggiavo vicino al cadavere del direttore e intanto studiavo che sì, la cassaforte era ancora chiusa.
"Perché lo hai ucciso? Forse era l'unico che poteva aprire la cassaforte?" sviai il discorso, come se il precedente fosse stato già approvato.
"Mi prendi per uno stupido? La cassaforte è a tempo e si aprirà solo domattina" rispose sicuro di sé.
Mi voltai e per la prima volta ebbi la possibilità di studiarlo bene. Era giovane, dieci anni meno di me se non di più, capelli lisci fino alle spalle, altissimo e ben piazzato. Non sudava, non tremava ed era spaventosamente viola. Non lo faceva per i soldi dunque, c'era sotto qualcosa di più grave. Non si preoccupava più per se stesso, accecato da un dolore che oscurava persino la sana vecchia naturale paura di morire e questo faceva di lui un soggetto tremendamente pericoloso.
"Oramai la cassaforte non si aprirà più, è scattato l'allarme ricordi? Le poste avranno oramai adempiuto a tutti i passaggi necessari per blindare l'ufficio. Credo che tu debba passare al piano B..." spiegai con un tono di voce tranquillo e rispettoso, come se io stessa capissi la sua necessità.
"Allora dimmi Risolutrice, tu che faresti a questo punto?" mi sfidò, ma non vidi comparire nessun riflesso blu o verde su di lui: perché non aveva paura?
"Io intanto ripulirei un po' l'aria e poi, non so... potrebbe essermi utile sapere perché tieni queste persone in ostaggio e che cosa vuoi in cambio: ti ricordo che sei tu che tieni tutti in pugno qui!"
Il lato destro delle sue labbra si sollevò in un ghigno di compiacimento, mentre le sue pupille brillarono a quel pensiero. Avevo fatto centro.
Con la canna della pistola mi fece segno di uscire da quell'ufficio e di tornare verso il salone. Mi spinse, con neanche tanta forza, su una poltroncina di legno dell'area di attesa e mi legò una mano, con un cordoncino di plastica da pacchi, alla barra di ferro tra le due sedute: era fissata a terra da grosse viti, quindi non avrei potuto liberarmi facilmente.
Tornò verso gli ostaggi in assoluto silenzio, slegò la mamma con i due bambini e li posizionò davanti all'ingresso, intimandogli di non muoversi, cosa che non credo avessero neanche valutato. Poi fece alzare di nuovo l'uomo che era venuto ad aprire la porta quando ero entrata, aveva entrambe le mani legate da un laccetto di plastica come me, ma lo spinse comunque nell'ufficio e gli fece prendere il corpo della signora per un braccio. Assistemmo tutti, in un silenzio di commiato, al passaggio di quella povera anima e fissammo a lungo la scia di sangue lasciata sul pavimento fino alla porta a vetri.
Intanto, il sequestratore aveva costretto un ragazzo sui vent'anni, pieno di tatuaggi e con i capelli rasati, la cui apparenza d'insieme dava l'idea di essere poco soggiogabile, a trasportare il corpo del direttore. Nessuno sembrava avere intenzione di fare niente di più che uscire di lì e di questo mi rallegrai, perché ero io l'unica che si doveva preoccupare di fermare quel pazzo.
Aprì dunque il portone vetrato, senza spostarsi da dietro la colonna di cemento e fece loro segno di uscire fuori. Per un attimo, rimasero tutti attoniti a guardare la canna della pistola che si spostava verso l'uscita, poi si mossero all'unisono correndo fuori terrorizzati. Intravidi i colleghi affrettarsi per prenderli in custodia e sospirai: bene, questa era fatta, senza neanche tanta fatica.
Lo vidi guardare attraverso i vetri, come a studiare la situazione là fuori, ma il suo colore non cambiò: nemmeno una sbavatura di verde o blu! Questa faccenda mi stava preoccupando parecchio.
"Mi spieghi come hai fatto a sbloccare la porta d'ingresso?" lo interrogai, cercando si riportarlo a me.
"Sono un perito informatico: craccare i sistemi è il mio pane quotidiano..." mi rispose distrattamente, continuando a guardare un unico punto, fuori dalle finestre.
"Allora potevi fare in modo che la cassaforte non si chiudesse..." cercai di capirci qualcosa di più.
Non rispose, ma un leggero ghigno ironico comparve per un attimo sulle sue labbra, quasi fosse divertito dalla mia stupidità. Solo che io ero stata addestrata per questo e altro e capii subito la cruda verità: non era lì per i soldi, non era lì per ottenere chissà cosa, era lì per morire e non se ne preoccupava affatto. Questo poteva voler dire due cose: aveva minato l'edificio e saremmo saltati tutti in aria, oppure ancor peggio, stava aspettando la mossa di un complice.
"Vogliamo parlare delle tue richieste?" gli chiesi con un tono calmo e accondiscendente.
"Non ce ne sono..."
"Cazzo, cazzo, cazzo! Siamo tutti morti!" urlò disperata una ragazza stesa a terra. A volte avevo la tendenza a dimenticarmi che, oltre all'attentatore e me, c'erano degli ostaggi senzienti.
Il ragazzone si voltò verso di lei e con cattiveria le gridò contro: "Se non la pianti subito, tu sarai morta tra dieci secondi!" La ragazza si poggiò a terra con la testa sulle mani, cercando di non piangere o almeno, di non farglielo sentire.
Il problema era che aveva ragione, non potevo trattare nessuna resa, se non aveva richieste da fare. Sentii il peso degli sguardi disperati di tutte quelle persone poggiarsi supplichevole sulle mie spalle. Avevo un'unica chance, non riuscivo ancora a stabilizzarmi, ma dovevo provare per il bene di tutti.
"Se non hai richieste da fare, io andrei..." feci cenno agli ostaggi di rimanere in silenzio, prima che pensassero che me ne stavo fregando di loro.
"Avrei una richiesta per te, invece." rispose scrutandomi curioso. "Hai mai perso una scommessa? Perché gettarsi a sangue freddo in una situazione come questa è una scommessa rischiosa, non credi?"
"E' il mio mestiere" sintetizzai. Ogni volta era come inghiottire un boccone amaro. Sì, era quello che facevo, anche se in realtà non era di sicuro quello che avevo pensato per la mia vita. Ogni volta però mi ricordavo del mio dolce Spiderman e mi convincevo che un giorno anch'io avrei capito il mio ruolo nel mondo. Poi riflettevo su Giulio, a quanto mi mancava sempre, a quanto avrei voluto che fosse con me in quel momento per indirizzarmi nella giusta direzione: era sicuro lui, non cercava una spiegazione logica alla nostra situazione; semplicemente aveva accettato il nostro stato e aveva agito di conseguenza. Giulio era un vero supereroe, io non potevo paragonarmi neanche a zia May: non ero brava nemmeno con i consigli.
"Beh, non ti invidio. Fino a una settimana fa, mi sarei tenuto lontano da situazioni così, poi però le cose cambiano e la speranza muore..." si confessò, avvicinandosi con il viso al mio e abbassando un po' la voce, perché gli altri non lo sentissero.
Lentamente sollevai la mano libera e andai a togliergli un ciuffo di capelli dal viso. Non era di sicuro un gesto di affetto premeditato, ma lo vidi comunque socchiudere le palpebre.
"Lo faceva anche mia sorella..." continuò calmo.
Approfittai di quell'attimo di riflessione ed intimità per toccargli la spalla e la magia si ripeté di nuovo. La mia mano sembrò illuminarsi dall'interno e un tenue color pesca iniziò a spandersi sulla spalla del ragazzo.
"Quanti anni aveva?" chiesi sussurrando, per non interrompere quel momento e poter continuare il mio lavoro. Percepii i respiri sospesi di tutti gli ostaggi che, al contrario dell'attentatore, avevano intuito che stavo facendo qualcosa per convincerlo a rilasciarci tutti.
"Quattordici..." sospirò fuori, mentre il suo viola riacquistava colore. Strinsi allora la mia mano per cercare di lenire la sua sofferenza, ma era talmente immerso nel suo dramma che quasi non servì. Allora cercai di aiutarlo con un po' di affetto, mostrandogli che sentivo il suo stato d'animo e che volevo aiutarlo.
Invece, mi guardò cattivo: "Avevano promesso che l'avrebbero salvata, che l'avrebbero curata in un centro specializzato in leucemie, ma hanno aspettato troppo e quando finalmente l'hanno spostata, era oramai troppo debole e il suo cuore non ha retto alle terapie..."
"... e hai deciso di vendicarti del sistema..." conclusi io per lui.
Straordinariamente, decise di sedersi accanto a me. Come se avesse intuito che il mio tocco leniva la sua sofferenza, prese la mia mano libera e la strinse nella sua. Fu allora che il mio potere trovò la forza di espandersi e il color pesca iniziò centimetro dopo centimetro a sostituire il suo viola.
"Ho solo deciso di dare una mano a chi lo farà dopo di me" rispose inaspettatamente. Non ero sicura di aver capito. Non era solo quindi? Se aveva dei complici, perché ancora non erano intervenuti?
Fu però in quel momento che intravidi una scarpa muoversi con circospezione dietro il totem dei francobolli. Il mio ostaggio mancante. Dovevo fermarlo, prima che il suo comportamento irrazionale e fuori del mio controllo, ci portasse tutti alla morte. Non potevo però farlo scoprire o l'avrebbe ucciso sicuramente.
"Credo che sia ora di far andare gli ostaggi in bagno..." cercai così di spostare l'attenzione del ragazzo dalla zona d'ingresso, dove era il totem.
L'attentatore si voltò infatti verso gli sportelli, a guardare le persone terrorizzate in nostra compagnia, poi tagliò con un coltellino il nastro che teneva immobilizzata la mia mano.
"Ti tengo sotto tiro, quindi non fare niente che mi costringa ad ucciderti." mi minacciò. Annuii convinta in risposta.
"Bene! Porta le signore in bagno." mi ordinò, spostando subito dopo lo sguardo verso gli uomini sdraiati a terra. "Io mi occuperò dei signori..." Improvvisamente, sembrò stanco.
Era il mio segnale. "Perché invece non li lasciamo andare..." provai a spingerlo verso la soluzione di quel maledetto impiccio.
Mentre mi osservava serio e vedevo tutti i pensieri che gli passavano per la testa, sentii un rumore alla nostra destra. Fu un attimo. L'ostaggio nascosto uscì allo scoperto con un bastone, forse un tubo di ferro, in mano. Cercò di colpirlo alla testa, ma non fu sufficientemente veloce e la pistola sparò di nuovo, spargendo un boato assordante per il salone. Tutti iniziarono ad urlare, qualcuno si alzò anche in piedi, pronto a fuggire.
Giuro che non avrei mai voluto, che se avessi potuto salvarlo l'avrei fatto, ma non potevo proprio lasciarlo sparare ancora. Tirai fuori la pistola dalla fondina nascosta nel mio stivaletto e sparai. Vidi l'uomo con la spranga di ferro bloccarsi di colpo, vidi gli occhi del ragazzo cercare i miei, prima interrogativi e poi diventare coscienti di ciò che avevo fatto. Lo vidi abbassare la testa e con una mano premere sulla ferita al torace, come a voler verificare che fosse vero. Infine lo vidi accasciarsi a terra, nel momento in cui le sue gambe non ebbero più la forza di sostenere il peso del suo corpo. La pistola cadde.
"Che nessuno si muova!" urlai in mezzo alla confusione.
Come per magia, tutti si bloccarono all'unisono e ricademmo in un silenzio tombale.
Mi avvicinai a lui, spostai con un calcio la pistola, che scivolò gracchiando sul marmo e mi inginocchiai accanto a quel povero ragazzo. Forse sapeva che quel giorno sarebbe stato l'ultimo per lui, perché continuò a non agitarsi affatto, mentre tutte le sue membra si spegnevano una a una. Finalmente il suo viola prese una tonalità celeste acceso, per dimostrarmi una volta di più che ciò che era venuto a fare lì era semplicemente trovare pace.
Mi guardò e nel suo ultimo respiro, mi sussurrò: "Era solo un diversivo..." I suoi occhi divennero rigidi e tutto si spense in lui. Ero preparata a tante cose, dopo l'addestramento, ma non certo a veder un ragazzo suicidarsi in quel modo. Forse il suo gesto voleva attirare l'attenzione, forse aveva sperato che qualcuno lo potesse tirar fuori dal suo dolore assoluto. anche se non c'era traccia di speranza nei suoi colori.
Mi risollevai da terra e andai ad aprire il portone d'ingresso. Feci cenno ai colleghi che tutto era risolto, poi uscii da lì. Credo di aver ricevuto parecchi elogi, pacche sulle spalle, strette di mano e insignificanti complimenti, ma io pensai solo ad andare a riprendere la mia auto per ritornare a casa. Per quel giorno, avevo finito il mio dovere.
Fu solo molto più tardi, nel cuore della notte, che mi ridestai dallo shock e capii a cosa avevo davvero assistito quel giorno. Mi sollevai di colpo seduta sul materasso e presi il cellulare:
"Michael? Scusa lo so, è tardissimo, anzi, è prestissimo. Dobbiamo parlare, subito!"
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