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Capitolo 5: Reazione e rassegnazione

Il dolore peggiore

che un uomo può soffrire:

avere comprensione

su molte cose

e potere su nessuna.

(Erodoto)


A distanza di giorni, la Nebulosa della Catena – com'era stata ribattezzata da un astronomo norvegese, che per primo vi aveva scorto il disegno simile agli anelli di una catena – brillava ancora, tanto luminosa non solo da rischiarare il cielo notturno, ma addirittura da poter essere scorta in pieno giorno.

In piedi nel bel mezzo di Central Park, attorniato da sportivi della domenica e bambini schiamazzanti tenuti d'occhio dai genitori, Moloch, col naso puntato all'insù, osservava i residui della super­nova con espressione cupa e concentrata. L'esplosione di quella stella era la prova tangibile di una nascita di grande rilievo avvenuta tra gli angeli: non ce n'era mai stata l'eguale, probabilmente non ci sarebbe mai stata, e questo, per Moloch, era un brutto segno. Non tanto per quella che sarebbe potuta essere la potenza di quel nuovo angelo: c'erano già Nimuè e Mizal a capo dei suoi nemici, e la loro, di forza, non sarebbe mai stata surclassata da nessuno. No, quello che davvero preoccupava il demone era la sensazione che l'angelo misterioso sarebbe stato la chiave di volta nei suoi piani: un istinto quasi sconosciuto gli suggeriva insinuante che quell'essere appena nato avrebbe potuto spianargli la strada verso la vittoria o trascinarlo giù nella polvere, decretando la sconfitta sua e dei suoi simili. Aveva bisogno di saperne di più: doveva scoprire tutto quello che poteva, magari veder­lo, e spiarlo, se possibile, per capire se davvero poteva essere uno strumento per i propri piani.

Il demone scosse lentamente la testa, pensando a quanto tempo era stato perso. Forse il suo istinto aveva ragione, ma se anche fosse stato così, non poteva permettersi di aspettare ancora: doveva agi­re, mentre attendeva l'occasione di raccogliere nuove informazioni.

Inginocchiatosi a terra, Moloch accarezzò l'erba del prato in cui era stato fermo tanto a lungo; ne strappò qualche filo, poi grattò il terreno con le unghie, scavando oltre la superficie riarsa fino allo strato umido e morbido. Chiusi gli occhi, prese un respiro profondo e con un gesto secco affondò le dita nella terra.

Central Park tremò come una perlina in un sonaglio, e le crepe provocate dalla mano di Moloch si moltiplicarono, correndo in ogni direzione. Squarci si aprirono in più punti, inghiottendo parecchie persone urlanti; molti alberi, le cui radici avevano perso la presa sul terreno, crollarono sulla folla in fuga, schiacciandola. I fortunati sfuggiti alle voragini e alla caduta degli alberi corsero fuori dal parco, gridando il proprio spavento e invocando aiuto.

Moloch si confuse agli umani, fingendosi sconvolto; si lasciò trascinare verso una delle uscite sul­la Quinta Strada e, una volta arrivato sul marciapiede, contemplò il proprio operato. L'energia che aveva spinto nel terreno con tanta violenza aveva varcato i confini del parco: l'asfalto era percorso da una ragnatela di crepe sottili e in qualche punto si era spaccato, creando piccole buche in cui era­no finite le ruote di più automobili. Tutti si erano fermati, impauriti dal sisma, e si guardavano in­torno, quasi aspettandosi che i palazzi vicini crollassero sulle loro teste.

Il demone decise di essere soddisfatto. Placido, si allontanò dagli umani agitati e imboccò una strada a caso, allontanandosi dalla folla quel tanto che bastava per spiccare il volo indisturbato.

******

Quel giorno non ci fu bisogno che Marco guardasse il telegiornale, per scoprire del piccolo terremoto a Central Park: l'istinto di Cassiel – che dalla tempesta di sabbia era rimasto sul chi va là – lo fece scattare come una molla, apparentemente senza ragione.

«Cassiel?» chiamò Clelia, alzando lo sguardo da Ferahel che giocava sul tappeto.

Il Sapiente non rispose: evocò il Libro e lo sfogliò frenetico, una profonda ruga tra le sopracciglia aggrottate e la rabbia negli occhi.

«Non di nuovo» sibilò tra sé a denti stretti.

Troppo preso dai propri pensieri, Cassiel non si accorse che Clelia l'aveva raggiunto e sbirciava le pagine sporgendosi oltre il suo braccio. Se ne rese conto soltanto quando la mano di lei calò sulla sua spalla e la strinse dolorosamente.

«Cassiel» ripeté Clelia, stavolta con voce tagliente; la pressione della sua mano aumentò, costringendolo a voltarsi e fronteggiarla. Indicò il Libro, e le nuove righe color ruggine. «Questi Segni in­dicano un attacco demoniaco a New York, ma tu non sembri sorpreso. Come mai?»

Cassiel esitò solo per un istante: a qualcun altro le parole di Clelia sarebbero sembrate una domanda, ma lui sapeva perfettamente che si trattava di un ordine.

«I demoni stanno attaccando di nuovo» rivelò con voce bassa e misurata. «Questa non è la prima volta».

Le narici di Clelia fremettero mentre prendeva un respiro profondo dal naso. «E quand'è stata la prima volta?» lo incalzò a denti stretti.

«Un paio di settimane prima che Ferahel nascesse» rivelò l'altro.

Clelia chiuse gli occhi per un momento, mentre la furia montava dentro di lei. Quando li riaprì, scoccò uno sguardo rapido a Ferahel: la bambina, ignara di tutto, continuava a giocare placida sul tappeto. Rassicurata, tornò a guardare Cassiel. «Quando avevi intenzione di informarmi?»

«Nimuè ci ha ordinato di non dirti nulla» sospirò il Sapiente.

«"Ci"?» gli fece eco lei.

«È stato Marco a scoprire, per un caso fortuito, l'altro attacco, quello nel deserto di Nubia» spiegò Cassiel. «Io e Nimuè eravamo con lui, in quel momento. Marco sarebbe voluto venire subito da te e parlartene, ma Nimuè gli ha ingiunto di non farlo: desiderava che tu avessi un po' di tranquillità».

Lei accennò al Libro con il mento. «Chi è stato?»

Il Sapiente sfiorò la pagina con la punta delle dita e sospirò. «Moloch» annunciò grave. «Di nuovo Moloch, come nel deserto».

Clelia prese a camminare avanti e indietro, inquieta. «E voi siete sicuri che non ci siano stati altri attacchi, prima della tempesta di sabbia?»

«No» ammise Cassiel. «Ho cercato tra i Segni, ma non ho trovato nulla: temo si siano mossi con molta cautela, o magari hanno agito contro i singoli e con metodi umani, per non rischiare di attirare l'attenzione».

«Il che sarebbe una pessima notizia, perché significherebbe che adesso si sentono molto più sicuri di sé e stanno alzando il tiro» masticò lei tra i denti.

Il Sapiente le rivolse uno sguardo mesto. «Ho paura che stia ricominciando tutto da capo».

L'altra si costrinse a mantenere la calma e, suo malgrado, il suo sguardo fu di nuovo attratto da Ferahel: una creatura così piccola, ancora innocente, dipendente da lei in tutto. E senza il minimo sentore di quanta malvagità ci fosse fuori dalle braccia di sua madre.

«Sarebbe bello se ricominciasse tutto da capo, come quando c'era Lucifero a comandare i demoni» mormorò feroce. «Perché temo che stavolta sarà molto peggio».

******

In quella domenica sera, Luce aveva deciso di occupare il proprio tempo riguardando le foto che aveva scattato durante la festa di laurea di Clelia; quella brevissima parentesi di normalità – priva di pericoli e doveri – le era stata particolarmente cara, e in quei giorni non poteva fare a meno di ripensarci con qualcosa di molto simile al rimpianto.

Quando però si vide venire incontro sua sorella a passi lunghi e con un'espressione imperscrutabile sul volto, Luce non esitò un istante a scacciare quei ricordi: i momenti a cui ripensava con tanto piacere ormai erano lontani, probabilmente persi per sempre.

Clelia si fermò a un passo da Luce, che al suo arrivo si era alzata. Per un interminabile istante le due regine si fissarono con intensità, quasi senza respirare; poi, la seconda sospirò brevemente.

«Cassiel te l'ha detto, non è così?» domandò, saltando ogni preambolo.

«Dovevi immaginare che prima o poi l'avrebbe fatto: non solo deve obbedienza a me come a te, ma è anche il più affine al mio ministero. E, non meno importante, è il mio migliore amico» replicò Clelia.

Luce si lasciò ricadere sulla sedia. «Almeno, adesso hai meno preoccupazioni a occuparti la men­te» considerò. «Volevo solo proteggerti».

L'altra le sedette accanto, l'espressione pensosa.

«Credi davvero sia possibile farlo?» chiese retoricamente. «Nessuno può proteggerci, sorellina: il nostro fato ci condanna a tutelare senza essere tutelate a nostra volta». Scoccò un rapido sguardo a Cassiel, che si era fermato accanto alla porta e teneva in braccio Ferahel: la bambina ridacchiava mentre il Sapiente le sussurrava qualcosa all'orecchio, probabilmente storie antiche sull'infanzia sua e dei suoi fratelli. «Le nostre responsabilità ci precludono un simile lusso».

«Ciò non toglie che si possa quantomeno tentare» obiettò Luce.

«E a che pro?» domandò Clelia di rimando, scettica. «No, Nimuè: sappiamo entrambe fin troppo bene che non esisterà mai nessuno in grado di proteggerci dalle brutture che il destino ci riserverà. Neanche l'unica persona capace di amarci attraverso il Tempo e lo Spazio, la Vita e la Morte; neanche la metà del nostro Arcano» aggiunse amara. «Il potere che deteniamo rende impossibile anche solo sperarci».

L'altra si lasciò andare contro lo schienale della sedia. «È orribile, sentirti parlare in questo modo. Rende tutto così... triste. Triste, e demoralizzante».

«Forse» concesse Clelia, «ma ci permette di mantenere il contatto con la realtà. Troppe esistenze dipendono da noi: se ci nascondessimo dietro qualcun altro, che ne sarebbe di loro?». Rivolse un'altra occhiata alla piccola Forgiatrice. «Non posso più permettermi di abbassare la guardia, nemmeno per un istante» mormorò quasi tra sé.

Luce, che aveva seguito il suo sguardo, le afferrò la mano e la strinse. «Crescerà, Mizal, e in fretta» le fece notare. «Arriverà presto il momento in cui dovrai lasciare che assuma i compiti che le spettano, che impugni un'arma, che scenda in battaglia insieme a tutti noi. Nessuno può essere pro­tetto per sempre».

«Forse no, ma vorrei tanto provarci» ribatté sua sorella. Si alzò e raggiunse Cassiel, che stava guardando Ferahel con un pizzico di malinconia.

«Cresce così in fretta» commentò il Sapiente mentre la piccola Forgiatrice rideva delle smorfie buffe che Raffaele le rivolgeva dalla parte opposta della stanza.

«Già, è vero» mormorò Clelia, osservando con attenzione Ferahel: erano bastati pochi giorni di vita perché crescesse tanto da sembrare una bambina di oltre cinque anni. La prese dalle braccia di Cassiel e se la sistemò su un fianco. «Andiamo, Ferahel: è ora di mettersi a letto».

Tenendo ben stretta la piccola, Clelia imboccò il corridoio buio: al suo passaggio, le lampade a muro s'illuminarono fievoli per poi spegnersi non appena le ebbe superate. Salì una rampa di scale e percorse un altro corridoio; infine, si fermò davanti alla porta della camera adiacente la sua. Tenendo Ferahel con un braccio, allungò l'altro alla ricerca della maniglia, e poi dell'interruttore sulla parete.

Il lampadario si accese e la luce rimbalzò sulle pareti dipinte di un giallo chiaro, delicato. Clelia depose la bambina sul lettino in legno di ciliegio; poi si avvicinò a un armadio e ne trasse un pigia­ma. Sorrise tra sé: quando Raffaele si era presentato con quel regalo, solo il pomeriggio precedente, non aveva potuto credere che proprio lui avesse scelto quel completo bianco costellato di orsetti lilla. Cambiò rapidamente Ferahel e la mise sotto le coperte; quando fece per raddrizzarsi, però, la bambina si attaccò al suo braccio.

«Mamma, non mi lasciare da sola» pigolò.

Clelia s'inginocchiò di nuovo accanto al letto e le accarezzò la fronte. «Che c'è, stella mia?»

Le labbra di Ferahel tremolarono. «Non voglio stare al buio» ammise.

La donna sospirò: fin dalla sera della sua nascita aveva avuto il sentore che Ferahel avesse paura del buio, e anche se una parte di lei desiderava assecondarla, la voce della ragione le intimava di non cedere. Come poteva Ferahel avere paura delle tenebre se lei, sua madre, era la Signora dell'Oscurità?

«Non hai nulla da temere dal buio, Fera» disse con dolcezza. «L'oscurità cela ciò che non siamo pronti a conoscere, e nient'altro».

«Ma non si vede niente» protestò incerta la bambina.

«E per il momento, va bene così» replicò Clelia. Le passò delicatamente una mano sul viso, in modo da farle chiudere gli occhi. «Vedrai fin troppo, e fin troppo presto». Le depose un bacio sulla fronte. «Dormi, adesso».

Sciolta la presa delle dita di Ferahel, Clelia si rialzò, spense ogni luce e uscì dalla stanza, confondendosi con le ombre scure che avevano avvolto il corridoio. Chiuse gli occhi.

«Raffaele» mormorò.

Rispondendo prontamente alla sua chiamata, il Protettore apparve accanto a lei con un delicato fruscio.

«Comanda, regina».

Clelia indicò la stanza di Ferahel. «Veglia su mia figlia».

Raffaele chinò appena la testa in assenso e si piazzò di fronte alla porta, immobile, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo vigile, e la guardò andar via: poteva non essere un Sapiente, ma pur senza chiederlo, sapeva che in quel momento solo una cosa poteva allontanare Clelia da sua figlia.

******

Clelia mise i piedi nudi sull'erba uno dopo l'altro, lentamente, e ripiegò le ali fino a farle sparire. Il freddo di inizio novembre le accarezzò la pelle, rammentandole le sensazioni che le aveva suscitato da umana, quando il suo corpo era stato tanto più sensibile ai mutamenti. Quando si mosse, l'erba, che iniziava a rinsecchire, le solleticò appena le piante dei piedi.

Anche se il cielo iniziava a imbrunire, Central Park mostrava ancora tutta la devastazione che si era abbattuta lì poco prima; ma, come in un campo di battaglia abbandonato dopo la strage, nessuno era rimasto a regnare sulla terra spaccata e sugli alberi caduti. Solo i Vigili del Fuoco e i paramedici si facevano strada in quella che era stata un'oasi di pace nel grigiore della metropoli, scavalcando rami, fenditure nel terreno e oggetti abbandonati, alla ricerca di eventuali sopravvissuti e dei cada­veri.

Sospirando piano, Clelia si accovacciò e sfiorò la terra, percorrendo con le dita il bordo frastaglia­to di una di quelle ferite aperte. Sebbene una piccola parte di lei fosse in collera con Luce e Cassiel per non averle detto subito che i demoni si erano riorganizzati, un'altra parte, quella più razionale, riconobbe amaramente che, con ogni probabilità, neanche sapendolo sarebbe riuscita a impedire che Central Park venisse distrutto: se a Lucifero era sempre piaciuta la teatralità, Moloch, al contrario, univa la propensione alla segretezza e alla cautela alla stessa capacità tattica dell'angelo caduto. Ri­cordava con chiarezza le occasioni in cui era stato quel demone dall'aspetto quasi innocuo, a progettare attacchi a sorpresa e incursioni contro gli umani, prima che Lucifero si unisse alle loro schiere: per quanto lei e Cassiel si fossero sforzati, non erano mai, mai riusciti ad anticipare le mos­se di Moloch, e il Sapiente lo detestava quanto detestava solo un'unica, altra persona in tutto l'Uni­verso.

Suo malgrado, Clelia sorrise appena al ricordo della rabbia di Cassiel: il temperamento mite del Sapiente non aveva mai avuto la meglio sulla stizza e il bruciante senso di vergogna che gli causava l'essere battuto da qualcuno. E se quel qualcuno, poi, era un demone come Moloch, la furia di Cassiel era destinata a diventare grande quanto la sua Conoscenza. In quei momenti, Clelia aveva sempre visto con chiarezza l'impronta di Valentina in Cassiel: quando la rabbia lo infiammava, diveniva chiaro a tutti come lui e la Cupido fossero, nel profondo, realmente gemelli.

Quel fievole senso di pace svanì, scacciato dalle voci dei soccorritori che si avvicinavano al punto in cui Clelia si era fermata, e prima che potessero vederla, lei spiccò di nuovo il volo: non sapeva dove, ma era certa che, in almeno un luogo della Terra, ci fosse un demone intento a compiere altri misfatti.

******

Quando Clelia atterrò a Lione, a un paio di isolati dallo stadio, le strade erano invase dalla folla: la partita di Ligue 1 era finita da poco, e i tifosi si stavano riversando in massa in direzione di bar e pizzerie.

Un rapido sguardo nella calca le permise di individuare i suoi obiettivi: una mezza dozzina di uomini tra i trenta e i quarant'anni era ferma sul marciapiede, proprio accanto all'entrata di un locale ampio e affollato, e tutti scrutavano i passanti, soffermandosi con espressione calcolatrice su quelli dall'aspetto più rumoroso e aggressivo.

Clelia si avvicinò al gruppetto ad ampie falcate, ignorando gli umani che ridacchiarono nel notare i suoi piedi nudi, e quando fu a poco più di un metro di distanza, ancora nascosta dalla folla di tifo­si, sentì distintamente provenire dagli uomini l'odore di legno di sandalo bruciato. Non le servì altro: quell'indizio era più che sufficiente a darle le conferme che cercava.

Si lisciò i jeans con le mani prima raddrizzarsi, l'espressione gelida; poi sollevò l'orlo della maglietta nera ed estrasse una misericordia dai pantaloni. Strinse le dita intorno al manico del piccolo pugnale e vibrò con sicurezza un unico colpo nella nuca del demone più vicino: quello fremette per un istante prima di accasciarsi silenziosamente al suolo.

I suoi cinque compagni si voltarono all'unisono verso di lui. Quello che gli stava accanto – un omone che superava il metro e novanta – neanche vide la misericordia colpirlo fulminea alla gola; ma gli altri sì, e d'istinto serrarono i ranghi.

Gli umani presenti ci misero parecchi secondi a capire cosa stesse accadendo. I più vicini furono i primi a comprendere la situazione: alcuni di gridarono di sconcerto, altri di paura, e si allontanarono da Clelia spintonando la massa caotica di persone che li circondava.

Incurante degli esseri umani che si defilavano, Clelia sorrise feroce. Mentre faceva roteare la misericordia, raggiunse con un balzo uno dei quattro demoni ancora in piedi e lo colpì tra gli occhi con il manico dell'arma: il colpo fu così violento da spezzargli il cranio. Gli altri tre si mossero come un sol uomo per fuggire; Clelia sgambettò il più vicino, facendolo franare sui suoi compagni, e tutti finirono a terra. Rapida come il lampo, Clelia si avventò su due di loro, finendoli con altrettanti colpi secchi.

L'unico demone ancora in vita tentò di scappare, ma prima che potesse riuscirci, Clelia lo afferrò per la gola e portò il naso a un centimetro dal suo.

«Va' da lui, e digli che io so» scandì con rabbia, fissandolo negli occhi. Spinse indietro il demone, che finì di nuovo sull'asfalto; rimase immobile a guardarlo rimettersi in piedi, incespicare e farsi largo a gomitate tra la folla per allontanarsi il più velocemente possibile.

Cassiel planò accanto a lei.

«Toglimi una curiosità, Mizal: che senso ha tutto questo?» domandò secco, accennando ai demoni ormai quasi ridotti in cenere e agli umani terrorizzati che li scrutavano a distanza di sicurezza.

«Volevo che Moloch sapesse che sono al corrente di quello che fa» rispose Clelia, con una leggerezza che male si accordava con la sua espressione feroce.

«E così hai spaventato senza motivo dei poveri esseri umani ignari di tutto» commentò sarcastico il suo migliore amico.

«Ignari di tutto? Io non credo» replicò Clelia. Si voltò verso la folla, che nel vedersi oggetto della sua attenzione, indietreggiò di un paio di passi. Allargò le braccia e si sforzò di sorridere in modo conciliante. «Vi chiedo scusa per avervi messo in allarme» esordì in francese. «Sono certa che tutti voi sapete cos'è successo a Roma nel luglio di quattro anni fa; sono circolati foto, filmati, interviste di chi era presente in quei giorni, e scommetto che ormai avete capito chi erano queste persone» proseguì, indicando la cenere in cui si erano trasformati i cadaveri dei demoni. Parecchi umani an­nuirono. «Non sono qui per voi, ma per loro. Dovevo impedire che creassero scompiglio, che ucci­dessero anche uno solo dei presenti. Non avete nulla da temere, da me». Li osservò tutti. «Domande?»

Nessuno fiatò.

«Visto?» disse soddisfatta Clelia, voltandosi di nuovo verso Cassiel. «Tutto a posto».

Il Sapiente alzò gli occhi al cielo con espressione sarcastica. «Hanno talmente paura di te, che non parlerebbero neanche sotto tortura».

Lei si strinse nelle spalle. «Vorrà dire che mi crederanno quando me ne sarò andata di qui senza toccare nessuno di loro». Si voltò di nuovo verso gli umani e rivolse loro un inchino. «Buon proseguimento a tutti» disse ironica prima di spiccare il volo.

Cassiel scosse la testa per l'ennesima volta e si affrettò a seguirla. Solo quando furono a casa, nel­l'ingresso scarsamente illuminato, il Sapiente riuscì a bloccarla.

«Davvero, qual è il tuo problema?» chiese brusco, seguendola così da vicino da starle col fiato sul collo.

«Quello di tutti noi: i demoni» ringhiò Clelia in risposta. «E adesso, lasciami sola».

Esasperato dall'ostinazione con cui Clelia tentava di evitare quella conversazione, Cassiel l'afferrò per un braccio e con un movimento brusco la costrinse a voltarsi. Le pupille di Clelia si dilatarono: il gesto rude di Cassiel risvegliò la parte di lei istintivamente votata al comando, e proprio quel­la parte ruggì la propria indignazione per quell'atto che sfiorava l'offesa e l'insubordinazione.

«Come osi?» sibilò Clelia con voce vibrante di rabbia.

Ma Cassiel non si lasciò intimorire.

«Ricaccia pure indietro la regina che è in te, Mizal» rispose impaziente. «È il tuo migliore amico che vuole parlarti, non il Sapiente».

Raffaele e Michele, che persino a distanza avevano la capacità di fiutare le avvisaglie di una disputa, arrivarono di corsa solo per bloccarsi, silenziosi e increduli: Cassiel e Clelia che si fronteggiavano arrabbiati era qualcosa che nessuno di loro aveva mai visto.

«Se avessi accettato giustificazioni del genere da tutti quelli che, nel tempo infinito del mio comando, hanno avuto da lamentarsi o ribellarsi contro di me, a quest'ora dell'Ordine non resterebbe che cenere» disse Clelia a denti stretti. «Non farò un'eccezione per te, Cassiel, sarà bene che tu lo comprenda subito!»

«Io non devo comprendere un bel niente: io ho la Conoscenza, ministero che tu stessa mi hai affi­dato perché lo condividessi con te» replicò mordace il Sapiente. «Non starò in silenzio solo perché non vuoi sentirti dire che stanotte hai agito per il giusto fine, ma in modi e con mezzi assolutamente sbagliati!»

«Cos'è successo?» si arrischiò a chiedere Michele: era sempre stato il più impaziente, tra gli angeli, e sentirsi tagliato fuori dalla conversazione non aiutava.

«Poco fa Mizal si è scaraventata a Lione e ha ucciso un gruppo di demoni...» esordì arrabbiato Cassiel, prima che potesse farlo Clelia.

«Bene. Anzi, molto bene» commentò soddisfatto Michele.

«...in mezzo a una folla di mortali ignari» proseguì duro il Sapiente. «Terrorizzandoli a morte, ci tengo a precisare» aggiunse sarcastico.

«Oh» disse solo Raffaele, passandosi una mano tra i capelli. «Mi rincresce ammetterlo, regina, ma non è stata una grande idea. Tu dovresti far sì che gli umani smettano di temerti, e così non ti aiuti».

«Io devo, prima di ogni altra cosa, proteggerli!» ruggì Clelia.

«Temo tu sia un po' confusa, Mizal» disse pungente Cassiel. «Cerca di limitare l'istinto materno a Ferahel: sarà molto, molto meglio».

«Cassiel...» esordì lei in tono d'avvertimento.

«Inutile pronunciare il mio nome in quel modo minaccioso» l'interruppe il Sapiente. «La verità è che eri frustrata, e non solo perché ti avevamo tenuto nascoste le azioni dei demoni. Ti sei ritrovata a essere madre senza averlo previsto, dopo aver trascorso l'eternità con la convinzione che non avresti mai avuto figli, e l'amore che provi per Ferahel ti ha fatta dubitare di te stessa: ti sei vista indebolita, distratta, non più all'altezza del tuo ruolo, e la spacconata di stasera era solo un modo di riaffermare la tua forza ai tuoi stessi occhi».

Clelia impallidì, incollerita e imbarazzata, senza sapere come ribattere: per un momento la rabbia rischiò di avere la meglio, ma la parte più profonda di lei le sussurrò che Cassiel aveva colto nel segno. Con la coda dell'occhio, però, notò l'espressione compiaciuta e arrogante del Sapiente, e la sua collera s'infiammò di nuovo: si voltò ringhiando verso di lui, ma la voce di Raffaele deviò la sua attenzione.

«Agire in questo modo non è da te, Mizal» esclamò il Protettore con calma e una punta di dolcezza. «Tu rifletti sempre prima di prendere una decisione, mentre stavolta ti sei comportata più come... come Michele, per capirci».

«Grazie» commentò inacidito il Guerriero.

«Sai che intendo» si spazientì Raffaele. «Tu sei un Guerriero e, pur essendo uno stratega, l'indole ti spinge a buttarti a testa bassa negli scontri. Mizal no. Lei agisce in modo ragionato e calibrato, sempre. Per questo mi chiedo cosa l'abbia portata a un'azione condotta in modo così diverso da quella che è la sua natura».

«Moloch» disse semplicemente Cassiel.

«Moloch?» ripeterono in coro gli altri due, confusi.

«Moloch sta riorganizzando i demoni. E stanno attaccando» spiegò brevemente il Sapiente.

«Da quanto?» chiese all'istante Michele.

«Da ben prima di stanotte» intervenne stizzita Clelia.

«Perché non ce l'avete detto?» insisté il Guerriero.

Clelia sorrise sarcastica.

«Io ve l'avrei detto subito, senza aspettare neanche un secondo, ma... aspettate, fatemi riflettere... ah, sì: non ve l'ho potuto dire perché fino a poche ore fa ne sono stata tenuta all'oscuro io stessa!» rispose, furibonda.

Cominciando finalmente a mettere insieme i pezzi, Michele e Raffaele si voltarono con aria di rimprovero verso Cassiel.

«Lo credo, che è furiosa» disse il Protettore, accennando a Clelia.

«Io ho solo eseguito gli ordini di Nimuè» ribatté Cassiel. «Perché non ne discutete con lei? La decisione è stata sua» proseguì, irritato.

«La sua è stata una decisione a fin di bene, ma sbagliata, e lo sai» lo rimbrottò Clelia. «Tu meglio di molti altri sai quali sono i nostri compiti, e proteggerci a vicenda viene dopo gli obblighi che ab­biamo verso i mortali. Avresti dovuto avvertirmi immediatamente».

Raffaele si passò una mano sulla fronte.

«Ormai, quello che è fatto, è fatto» commentò, interrompendo il battibecco tra Clelia e Cassiel. «Ora, la cosa davvero importante è tenere d'occhio i demoni e cercare di anticipare le mosse di Moloch: dubito che si sia mosso in prima persona per puro e semplice divertimento».

«Immagino che da stasera sarà più cauto, o più aggressivo» commentò Clelia. «Gli ho mandato un messaggio».

«Che messaggio?» chiese guardingo il Protettore.

Lei si strinse nelle spalle. «Ho rispedito indietro uno dei suoi demoni perché gli riferisse che so cosa sta facendo».

Cassiel e Raffaele si schiaffarono una mano sul volto in perfetta sincronia.

«Ora vedo che hai colto alla perfezione il nocciolo della questione, Cassiel: è stata davvero una spacconata» mormorò il secondo, incredulo e rassegnato. «Quand'è diventata così impulsiva?»

Il Sapiente sbuffò. «Chi lo sa. Magari è stata l'influenza di Aster...»

Clelia, indifferente alle loro parole, drizzò le orecchie al sentir nominare la metà del suo Arcano. Senza dir nulla, girò sui tacchi e si avviò lungo le scale, salendo i gradini tre a tre e andando a passo di marcia verso la stanza di Ferahel.

Aprì la porta, cauta. La piccola Forgiatrice dormiva con le coperte rimboccate fino al mento, l'espressione pacifica sul volto infantile rischiarata debolmente da una piccola lampada accesa posata sul comodino, che spandeva tutt'intorno una luce calda e soffusa.

Interdetta, Clelia uscì e si richiuse il battente alle spalle prima di scoccare uno sguardo a Raffaele, che da sopra la sua testa aveva spiato l'interno della stanza.

«Io non c'entro nulla: non ho mai messo piede lì dentro, e non ho lasciato entrare nessuno» dichiarò, anticipando la domanda di Clelia.

Lei si torse le mani, nervosa. «Ma se non sei stato tu...» mormorò, incerta.

Cassiel le scoccò uno sguardo compassionevole.

«Tu sai bene che c'è una sola persona, in tutto l'Universo, che possa aver messo quel lume nella stanza di Ferahel» disse in tono significativo. Le posò una mano sulla spalla, la rabbia ormai svanita. «Anche se non volevi crederci, anche se ha detto il contrario, a lui importa. Sai che gli importa» sussurrò gentile.

Clelia sentì gli occhi riempirsi di lacrime. L'atteggiamento di Stefano non le aveva lasciato neanche un barlume di speranza sul fatto che l'uomo che amava potesse, un giorno, mettere da parte i brutti ricordi e accettare Ferahel; e proprio quando si era quasi rassegnata lui s'era deciso a dimostrarle, nel suo modo silenzioso e contorto, che almeno una parte del suo cuore batteva già per quel­la figlia che razionalmente si ostinava a rifiutare.

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