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Capitolo 4: Il crepuscolo degli amanti

La felicità,

come la purezza interiore,

non ha prezzo,

ma una sola casa:

il tuo cuore.

(S. Bambarén)


Il cielo su Roma era un tripudio di luci.

In quella sera di fine Ottobre, senza alcun preavviso, il blu profondo della notte era stato illuminato da un'immensa esplosione di colori: la maggior parte delle persone, al riparo delle proprie case, aveva pensato a fuochi d'artificio, prima di rendersi conto che la variopinta luminosità che aveva rischiarato il cielo non accennava a spegnersi, e solo i pochi fortunati che si erano avventurati per le strade in quella sera d'autunno avevano visto il tutto accadere in diretta. Un momento prima tutto era uguale a ogni altro giorno; un momento dopo l'oscurità veniva ricacciata indietro da una luce talmente intensa da far pensare a quella del sole, ma variegata come un arcobaleno. Anche se i romani che adesso osservavano il cielo a bocca aperta non potevano saperlo, quel fenomeno era stato osservato in tutta l'Europa, e col passare delle ore anche il resto del mondo avrebbe potuto vedere come la volta celeste si fosse trasformata in un quadro astratto.

Soltanto in una villa immersa nelle campagne fuori Roma, l'attenzione non era rivolta al cielo.

******

Clelia non avrebbe saputo dire per quanto tempo era rimasta in ginocchio di fronte a sua figlia: persino per lei, Signora di quel tessuto invisibile che permeava il mondo, era impossibile comprendere se si fosse trattato di pochi secondi o interi giorni. Tutto quello di cui era consapevole era la sensazione delle manine di Ferahel strette nelle sue, il profumo buono, di pulito, che emanava quella pelle rosea, lo scintillio curioso di quegli occhi venati d'oro.

«Mizal... posso?»

La voce titubante di Luce riuscì a distogliere Clelia dalla sua contemplazione almeno in parte. Dopo aver rivolto a sua sorella un rapido sguardo e un sorriso fugace, annuì.

Rassicurata, Luce si accovacciò a sua volta, proprio accanto a lei, e tese una mano verso la bambina.

«Avvicinati, Ferahel» mormorò dolcemente. La bambina, dopo aver ricevuto un cenno d'assenso da sua madre, obbedì. «Non avere paura. Io sono Nimuè, tua zia». Allargò le braccia. «Posso darti il benvenuto nella nostra famiglia?»

Ferahel sorrise e strinse Luce con lo stesso entusiasmo con cui aveva abbracciato Clelia. Quest'ultima sentì una mano posarsi con delicatezza sulla sua spalla: si voltò con un sorriso, certa d'incontrare il volto di Stefano, e rimase delusa nel trovarsi davanti quello di Cassiel.

«C'è una cosa che devi fare, Mizal» mormorò il Sapiente: aveva scorto l'espressione della sua regina e migliore amica, ne aveva compreso il motivo, e sebbene desiderasse consolarla, c'erano doveri da assolvere. Le porse una spada. «È il momento».

Clelia, titubante, prese l'arma; la soppesò per un attimo, poi guardò di nuovo Cassiel, che indicò Ferahel. Lei chiuse gli occhi e prese un respiro profondo.

«Ferahel, bambina mia, vieni qui» esclamò con voce ferma e limpida.

Sua figlia obbedì all'istante: si piazzò di fronte a Clelia, fissandola coi suoi occhi innocenti, in attesa delle parole di sua madre.

«Ferahel, tesoro, la nostra è una famiglia molto speciale» esordì Clelia. «Sai già che siamo angeli; sai che siamo divisi in Classi; sei nata con queste conoscenze, così com'è stato per chi ti ha preceduta e per chi verrà dopo di te». Ferahel annuì. «Tu, però, a differenza della quasi totalità degli angeli, hai un ruolo diverso e più importante: tu sei la prima della tua Classe Angelica, così come Cassiel è il primo dei Sapienti, Raffaele il primo dei Protettori, e via discorrendo».

La bambina dondolò sui talloni, un po' nervosa. «Che cosa sono, mamma?»

Clelia le sorrise e le porse la Striscia che era stata di Lucifero. «Tu, piccola mia, sei la prima dei Forgiatori, e questa è la tua arma».

Ferahel tese una mano, esitante; sfiorò l'adamante con la punta delle dita, e fu scossa da un brivido. Ritrasse di scatto la mano.

«Non mi piace, mamma» pigolò impaurita. «Non voglio toccarla».

«Non avere paura, Ferahel» la tranquillizzò Clelia. «Sei ancora troppo piccola, e dobbiamo aspettare che nascano anche i tuoi fratelli: per ora, non dovrai usarla».

La piccola si rilassò visibilmente e Clelia le accarezzò i capelli. Per un paio di minuti regnò il silenzio assoluto, durante il quale tutti tennero lo sguardo fisso su Ferahel. Adesso che era uscita dall'uovo – adesso che l'avevano di fronte – i timori che avevano nutrito per tanti giorni sembravano privi di senso. Quella bimba sorridente e felice non aveva nulla di diverso da qualunque altro bambino, né dai tanti angeli che erano nati nel corso dei millenni. Vederla in carne e ossa aveva fatto quello che non erano riuscite a fare le parole di Clelia: rassicurare gli angeli sull'innocuità della Forgiatrice.

Michele osservò Ferahel a distanza di sicurezza. Sebbene i suoi, di timori, non fossero del tutto sopiti, non poté fare a meno di fissare quel piccolo angelo: e nello scrutarla con attenzione per assicurarsi che fosse in perfetta salute, il Guerriero si rese conto di esserne affascinato. Il legame che aveva condiviso con Lucifero, colui che era stato Maestro di Catene ben prima dell'avvento di Ferahel, in qualche modo gli faceva vedere la figlia di Clelia e Stefano come una sorellina: una parte di lui desiderava giocare con lei, insegnarle i trucchi da usare in combattimento, coprire i suoi errori e le sue malefatte come aveva fatto con Lucifero tanti millenni prima.

Stefano, sebbene non potesse fare a meno di tenere gli occhi fissi su Ferahel, a differenza di Michele non provava il desiderio di starle vicino: le sue preoccupazioni, e i pregiudizi legati a tutto ciò che era stato Lucifero, continuavano a riempire la sua mente, soffocando ogni impulso che lo guidava verso la bambina. Perché, pur non volendo ammetterlo neanche a se stesso, Stefano sentiva quella spinta: la parte più istintiva di lui ruggiva il proprio desiderio di stringere Ferahel tra le braccia, coccolarla e proteggerla da qualunque cosa gli venisse in mente, che si trattasse del più feroce dei demoni o di un semplice spiffero d'aria fredda. Provava il bisogno quasi soffocante di vederla sorridergli di nuovo come aveva fatto poco prima – anzi: desiderava vederla sorridere e basta, di quel sorriso spontaneo che era la prova della felicità e della serenità – e di saperla al sicuro e in salute. Continuò a sbirciarla, studiando ogni sua espressione e sperando di incontrare di nuovo quegli occhi identici ai suoi. Un paio di volte fu esaudito: ebbe l'impressione che Ferahel l'osservasse guardinga, proprio come stava facendo lui, spiandolo da dietro la spalla di Clelia, che sembrava ignara di quel loro rincorrersi di sguardi.

Alla fine Clelia riconsegnò la spada a Cassiel, si alzò in piedi e tese la mano a sua figlia. «Vieni, stella mia: è ora di presentarti la famiglia e farti vedere la nostra casa».

******

La notte era trascorsa veloce: Clelia, dopo aver presentato a Ferahel agli angeli che vivevano con loro nella villa, aveva preso la piccola e le aveva fatto fare un tour della casa, allontanandosi da tutti gli altri. Nessuno se l'era presa: chi più, chi meno, tutti comprendevano quanto fosse grande la sua emozione di essere diventata madre senza aver mai avuto la speranza di esserlo, e di volere Ferahel tutta per sé almeno in quelle prime ore. Così si erano dispersi: Gabriele e Marco si erano ritirati nelle loro stanze per riposare, Cassiel si era messo a sfogliare il proprio Libro con tanta concentrazione da non badare a nient'altro, mentre Luce aveva requisito Raffaele per una partita a scacchi che si protraeva da quasi quattro ore. Michele, a differenza loro, passeggiava nervoso per il salone, osservato distrattamente da Stefano e Antonio, che si stavano rilassando sul divano che aveva occupato Clelia ore prima.

«Puoi anche dirlo» esclamò a sorpresa il secondo, spezzando il silenzio placido in cui erano rimasti fino a quel momento.

Stefano si voltò verso di lui, un'espressione terribilmente confusa sul volto, e per qualche istante lo scrutò come se fosse stato pazzo.

«Posso dire cosa?» chiese guardingo.

«La frase che tutti sperano di sentirsi rivolgere almeno una volta nella vita». Antonio si stiracchiò, un sorriso gongolante sul volto. «"Te l'avevo detto"».

Il suo migliore amico sbuffò. «Mi avevi detto cosa?» insisté.

Antonio gli rivolse uno sguardo per metà beffardo e per metà compassionevole. «Non fare il furbo con me, Stefano: non funziona. Sai bene di che parlo». Fece una breve pausa, ma Stefano tenne la bocca chiusa e Antonio sospirò. «Te l'avevo detto che anche tu hai l'istinto paterno, e che dovevi soltanto vedere tua figlia in carne e ossa, per rendertene conto».

«Non è vero» negò all'istante l'altro.

Antonio alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. «Hai sempre la testa dura. In un certo senso è rassicurante, vedere che certe cose non cambiano mai: è bello avere dei punti fermi, nella vita».

«Molto spiritoso» grugnì Stefano.

«Lo so che è per il mio spiccato senso dell'umorismo, che mi vuoi bene» ammiccò l'altra Guida. «Dammi retta, amico: smettila di tenere la testa sotto la sabbia, tanto non serve a niente» concluse, alzandosi e sparendo oltre la porta.

Appena Antonio se ne fu andato, Michele si affrettò a prendere il suo posto accanto a Stefano.

«Che ne pensi?» chiese agitato il Guerriero.

Stefano sospirò, invocando una pace che sapeva non sarebbe arrivata, e guardò Michele. «Di cosa, Michele? Se non ti spieghi...»

«Di... della... di Ferahel» farfugliò nervoso l'altro. Si guardò intorno circospetto, quasi si aspettasse di veder sbucare all'improvviso l'oggetto dei suoi pensieri.

«Penso che è meglio se non me lo chiedi» esalò Stefano, esausto: non era in grado di comprendere i propri pensieri al riguardo, figurarsi spiegarli ad altri. «Sono confuso. E so che lo sei anche tu. Di sicuro questo non è il momento migliore per discuterne».

«Sicuro... forse» convenne debolmente Michele. «È che mi ricorda Lucifero». Stefano inarcò le sopracciglia, sottolineando l'ovvietà di quel che aveva appena detto il Guerriero, e lui scosse la testa. «Non il Lucifero traditore e vendicativo» precisò. «Mi ricorda Lucifero quando era soltanto mio fratello, il bambino che aveva diviso con me l'uovo e poi l'addestramento, l'adolescenza, le prime battaglie...». Scosse di nuovo la testa. «Mi ricorda il Lucifero umano, capace di essere normale e di amare gli altri».

Stefano rimase in silenzio per un po', riflettendo. L'odio per Lucifero e la rabbia per quello che gli aveva fatto erano riusciti a eclissare tutto il resto, ma le parole di Michele avevano riportato alla mente quello che aveva sempre visto, oltre la gelosia e il rancore dei primi secoli, quando lui e Lucifero erano solo due rivali che si fronteggiavano per guadagnare l'amore esclusivo di Clelia: il Forgiatore non era stato sempre crudele. Era stato come lui: innamorato, in grado di essere triste e felice, di arrabbiarsi e perdonare. Era stato, come aveva detto Michele, umano. E magari Ferahel sarebbe rimasta tale, magari lei non avrebbe mai varcato il confine che Lucifero aveva scavalcato con tanta rabbiosa convinzione da non desiderare mai di tornare indietro.

«Non lo so» disse infine la Guida, mentre i sospetti così radicati in lui continuavano a gridare nella sua mente, a lottare con l'amore innato che provava per sua figlia. «Dovremmo... dovremmo aspettare, vedere che succede, per comprendere il carattere di... Ferahel... e la sua indole. Poi, solo poi, giudicare».

«Sì, credo tu abbia ragione» convenne piano Michele.

Stefano annuì, sollevato. «Penso che andrò a fare uno spuntino» commentò. «Vieni con me?»

«Perché no» asserì il Guerriero. Andarono insieme verso la cucina, quasi scontrandosi sulla porta del salone con un Marco fresco di riposo. Senza una parola, il Protettore marciò verso una poltrona, ci si buttò a peso morto dopo aver agguantato il telecomando dell'enorme televisore, lo accese e iniziò a fare zapping: su qualsiasi canale si sintonizzasse, la notizia era sempre la stessa.

«Grande spettacolo ieri notte nel cielo: a sorpresa, un'esplosione di luce multicolore ha rischiarato l'oscurità come un gigantesco fuoco d'artificio» sciorinò la telecronista mentre sullo schermo scorrevano le immagini. «Gli osservatori astronomici di tutto il mondo concordano sul fatto che si sia trattato di una supernova, ovvero l'esplosione generata dal collasso di una stella. La stella in questione era VY Canis Majoris, una ipergigante rossa già da tempo individuata dagli astronomi come possibile generatrice di una supernova; tuttavia si riteneva che questo non sarebbe accaduto prima di alcuni milioni di anni, dunque gli esperti sono stati presi di sorpresa quanto gli altri. Il professor Jeremy Anderson, del...»

L'angelo spense la televisione e si stiracchiò.

«Quella piccolina ha proprio fatto un ingresso col botto» sbadigliò. «Ne parleranno per un bel pezzo».

Cassiel chiuse il Libro e sbuffò. «Se penso che la supernova mia e di Amarhel non è stata neanche lontanamente così potente!»

«Non sarai invidioso!» rise l'altro. «Ferahel è speciale, lo sappiamo tutti: basti pensare chi è sua madre!»

«In effetti...» rispose il Sapiente. «Da una la cui madre è nata dall'esplosione che ha generato l'Universo, non ci si poteva aspettare niente di diverso».

Clelia fece il proprio ingresso nella stanza, con la piccola Ferahel aggrappata al collo e un gran sorriso: era raggiante.

«Di che parlate?» chiese allegra.

«Dello scompiglio che ha creato tua figlia» rispose Marco. «Lo sai che la sua nascita ha liberato la supernova più potente mai osservata?»

La risata di Clelia riempì l'aria. Anche Ferahel rise, istintivamente felice nel sentire sua madre tanto gioiosa, e Cassiel tese le mani verso di lei, ipnotizzato.

«Vuoi venire dallo zio Cassiel?»

Clelia sgranò gli occhi, incredula. Ferahel la guardò implorante, occhieggiando il Sapiente, e sua madre la mise a terra. «Va', Fera».

La bambina non se lo fece ripetere: scattò verso l'angelo dalle ali blu e si arrampicò sulle sue gambe, posandogli le manine sulle spalle per osservarlo da vicino.

«Sei curiosa, tu, non è vero?» disse Cassiel con dolcezza mentre Ferahel gli tastava il naso. «Io neanche ricordo com'era, quando sono nato» aggiunse malinconico.

«Oh, tu eri così calmo e riflessivo, amico mio» rispose Clelia. «Tua sorella invece era già impossibile da tenere a freno: eravate appena usciti dall'uovo e già saltava e faceva le capriole cantando a tutto spiano». Scoppiò a ridere. «La fissavi con un misto di perplessità e disapprovazione... oh, com'eri divertente!»

Anche Cassiel rise, poi sfiorò la bretella del vestitino bianco di Ferahel.

«Il tuo vestito è molto bello, ma del colore sbagliato» disse, guardandola negli occhi. «Che ne dici di cambiarlo?»

Ferahel rimbalzò allegra sulle gambe dell'angelo, come impazzita. «Sì, sì, sì, zio Cassiel!» rispose con voce trillante.

Il Sapiente le rivolse un ampio sorriso, poi picchiettò due volte l'indice sulla bretella: nel punto in cui il suo dito aveva toccato la stoffa comparve una macchia color borgogna che, strisciando e allargandosi, divorò il candore di ogni fibra. «Ora sei perfetta» decretò.

Raffaele, che era appena arrivato, afferrò Ferahel sotto le ascelle, la sollevò e se la portò davanti agli occhi, studiandola con aria critica. «Che te ne fai di una gonna?» chiese. «È scomoda».

«È come quella della mamma» obiettò la bambina, sgambettando frenetica nell'aria.

«Meglio i pantaloni, fidati dello zio Raffaele» disse lui. Tirò un lembo della gonnellina, e quella si tramutò in un paio di pantaloni. Soddisfattissimo, il Protettore si mise Ferahel a cavalcioni sulle spalle. «Visto? Con la gonna, questo non lo puoi fare».

Ferahel ridacchiò, divertita dall'altezza a cui si trovava; agitò le piccole ali e si aggrappò ai capelli di Raffaele, che socchiuse placido gli occhi.

Clelia sorrise e strinse le labbra per non lasciarsi sfuggire le lacrime: il modo in cui i suoi fratelli, dopo tutti i dubbi e l'incertezza di quelle settimane, stessero accettando comunque sua figlia, coccolandola e vezzeggiandola come una bambina qualunque, la commuoveva come raramente le era capitato. Poi scorse un movimento con la coda dell'occhio: Stefano era nascosto dietro la porta semichiusa e spiava la scena in silenzio.

Non appena si accorse di essere stato visto, la Guida girò sui tacchi e si allontanò nel corridoio; Clelia lo seguì quasi di corsa, oltrepassando la porta con uno scatto felino.

«Stefano... Stefano, ti prego, aspetta!» chiamò. Lui non si voltò; allungò il passo, ma Clelia lo raggiunse comunque e lo trattenne a viva forza. «Non potrai scappare per sempre!»

«Lasciami!» gridò lui, tentando di liberarsi.

«Sei tu che stai lasciando me!». Clelia allentò la stretta sul suo braccio, e Stefano si divincolò. «Sei tu che mi stai lasciando» ripeté. «Ti comporti come se Ferahel fosse una maledizione» mormorò; e nonostante avesse pronunciato quelle parole con voce bassa e piatta, suonarono come un'accusa.

Stefano la prese per le spalle e la scosse. «Come puoi non vedere che tutto questo non va bene, per noi? Non va bene per lei!» disse, fuori di sé. «Possibile che io sia l'unico a pensare che c'è qualcosa di strano, in quello che è successo? Che abbiamo avuto una figlia – io e te, che non dovresti essere in grado di concepire! – e che questa figlia nostra sia, proprio lei, il nuovo Maestro di Catene, che sia nata per ricoprire il ruolo che è stato di Lucifero?»

«Potrebbe essere semplicemente una coincidenza» mormorò Clelia, tenendo gli occhi bassi.

L'altro si passò le mani nei capelli, sentendosi sfinito. «Non ci credo. E neanche tu ci credi, lo so: sarebbe troppo semplice, e nella nostra esistenza non c'è mai stato nulla di semplice. Clelia, noi dobbiamo capire cosa c'è nel futuro di Ferahel, perché non soffra quello che abbiamo sofferto noi!»

«Ferahel ha prima di tutto bisogno di suo padre» insorse lei.

«Io non posso essere suo padre» replicò Stefano. «Non quando la guardo e vedo Lucifero, non quando vedo le sue ali e ricordo l'uncino che mi strappa il cuore, la confusione, il senso di inadeguatezza che ho provato in ogni vita, la disperazione di ritrovarti e perderti ogni volta».

Dagli occhi di Clelia colò un'unica lacrima. «Stefano, ti supplico, da' una possibilità a Ferahel» disse, disperata. «Non la respingere, non la ignorare!»

«Ci provo» rispose sofferente Stefano. «Ma non ci riesco!»

«E che succederà quando si vedrà respinta da suo padre ogni volta che proverà ad avvicinarlo? Pensi che non abbia sofferto, quando ieri voleva che tu l'abbracciassi e ti sei tirato indietro? Non importa che sembri già una bambina di quattro anni: è nata solo da dodici ore, sta imparando a conoscere tutto ciò che la circonda, e noi due siamo i suoi unici punti saldi. Noi! È la mia energia e la tua che riconosce, sa di essere nostra, è praticamente la sola certezza che ha!» urlò Clelia.

«Ne avrà presto delle altre» replicò la Guida. «Cassiel già la ama, e così Raffaele; Gabriele non le resisterà più di due secondi, Antonio e Luce li ha conquistati al primo sguardo...». Sospirò. «Persino Michele le gravita intorno pur non volendolo: gli ricorda Lucifero, ma a differenza mia, lui è attratto da questa somiglianza almeno quanto ne è spaventato. Il legame che condivideva suo malgrado col suo gemello riesce a far prevalere la prima emozione. Per me questo è impossibile».

«È impossibile solo perché tu vuoi che sia così» ribatté frustrata Clelia.

Stefano non rispose.

«Visto? È come dico io» proseguì Clelia dopo una breve pausa. «Tu hai deciso, volontariamente e in piena coscienza, di rifiutare questa figlia, e non ti sforzi nemmeno di superare le tue paure!»

«Anche se ti dicessi che ci provo, non mi crederesti» ribatté lui con grande amarezza. «Perché tu hai deciso, volontariamente e in piena coscienza» proseguì sarcastico, facendole il verso, «di pensare il peggio di me, di non vedere quello che hai davanti perché renderebbe tutto ancora più complicato di quanto già non sia, mentre se chiudi gli occhi di fronte all'evidenza, allora puoi addossarmi tutte le colpe di questo stallo; e così, il cattivo insensibile sono soltanto io».

«Parli come se io fossi felice di questa situazione» rispose Clelia, offesa.

«Non dico che tu lo sia, so bene che non è così, ma sei talmente concentrata su Ferahel da rifiutare di vedere tutto il resto!» esplose Stefano. «Quella bambina che ami tanto esiste anche grazie a me: non sono convinto che sia un bene, non riesco a non vederla come una potenziale minaccia, ma rimane il fatto che dovresti sforzarti di essere più tollerante, verso di me, anche solo per riconoscenza della mia parte nel concepirla!»

Clelia lo fissò incredula per un minuto buono, la bocca spalancata per lo stupore.

«Io spero, Stefano, che ti renda conto da solo dell'assurdità della tua ultima affermazione» disse altera. «Se non altro perché non era certo tua intenzione, concepire Ferahel» aggiunse beffarda. «Vantarti di un caso fortuito è troppo persino per la tua ben nota immaturità».

Stefano arrossì di rabbia e umiliazione. «La mia immaturità?» ripeté, risentito. «Piuttosto, perché non parliamo del tuo sentimentalismo?»

A quelle parole, come il volto di Stefano poco prima si era imporporato per la rabbia, quello di Clelia divenne livido di collera.

«Non mi sembrava disprezzassi tanto il mio sentimentalismo, quando mi ha spinta a strapparmi il cuore con le mie stesse mani per tentare di ritrovarti!» sibilò furente.

«Almeno, mentre cercavi me, sei sempre rimasta te stessa» ribatté Stefano. «Ora, invece, sei diventata debole, cieca e irresoluta».

«Come osi?» ruggì Clelia, sentendosi più insultata che mai. «Ho passato un periodo difficile, lo ammetto – non che tu mi abbia aiutata, comunque – ma rinfacciarmelo è davvero meschino!»

«Essere innamorato di te non significa che io sia disposto a dire solo quello che vuoi sentire» rispose duramente Stefano. «Credo, anzi, che sia mio preciso dovere dirti come e quando sbagli; e secondo me, il modo in cui hai gestito questa situazione è stato un errore dall'inizio alla fine!»

«Facile per te sputare sentenze» disse acida Clelia. «Tu non hai fatto altro che lavartene le mani».

«Visto che non hai ritenuto di coinvolgermi sin dall'inizio...» commentò Stefano in tono velenoso.

Clelia gli puntò contro un dito. «Quindi è questo il tuo problema? Il fatto che io non ti abbia detto subito di essere rimasta incinta?»

«No, non è questo il problema» la smentì freddamente Stefano. «Anche se avrei meritato di esserne informato fin dal primo momento: ti preoccupi tanto di farmi essere un padre amorevole per Ferahel, ma quando hai scoperto che questa nuova esistenza si stava formando, ti sei guardata bene dal dirmelo. Eppure sarei dovuto essere il primo a saperlo!»

«Visto come hai reagito...» disse ironica lei.

«La mia reazione non diminuisce in alcun modo i miei diritti». Adesso la Guida era irritata. «Avresti dovuto dirmelo: punto. Non avrebbe cambiato in alcun modo quello sento, ma almeno non avrei avuto la sensazione di essere stato ingannato da te, l'unica di cui mi fidi abbastanza da metterle in mano il mio cuore. Letteralmente».

Per un momento, la vergogna zittì Clelia: era vero che non aveva avuto fiducia in lui, che aveva temuto la sua reazione tanto da decidere di tenerlo all'oscuro dell'esistenza di quel figlio fino a quando la cosa non era esplosa con la forza di una bomba. Tuttavia, bastò poco perché quel fugace sentimento svanisse: l'espressione rabbiosamente compiaciuta di Stefano, conscio d'aver colto nel segno e soddisfatto d'esserci riuscito, lo fece evaporare come rugiada al sole del mattino.

«Sai qual è la verità, Stefano?» disse Clelia a denti stretti. «La verità è che sei un ragazzino stupido e geloso, e che non hai mai sopportato di vedere altri intorno a me, perché hai paura che io possa amare qualcuno più di quanto amo te».

Stefano le rivolse un sorrisetto arrogante. «Sono abbastanza sicuro di me stesso da sapere che non amerai mai un altro uomo come ami me. Quello che mi infastidisce» proseguì, incupendosi, «è vedere in che modo tu abbia completamente perso la ragione... e solo per quella bambina!».

Clelia raddrizzò la schiena e sollevò il mento in un gesto supponente. «Scusa tanto se amo mia figlia, io» rispose pungente. «Sai, è una cosa naturale... se non si è un pazzo paranoico ed egocentrico. Un Lucifero, per capirci» aggiunse in tono di scherno.

Negli occhi di Stefano brillò una scintilla di pura rabbia: che lei lo paragonasse a Lucifero era qualcosa che non aveva nessuna intenzione di accettare.

«Con che coraggio mi paragoni a quel mostro?» ruggì Stefano.

«Dal momento che stai scendendo al suo livello...» ringhiò Clelia.

Con un urlo furioso, Stefano si scagliò contro Clelia nello stesso momento in cui lei scattò verso la sua gola: prima che potessero toccarsi, però, un intero drappello di angeli irruppe nel corridoio.

Antonio, Michele e Gabriele si gettarono su Stefano e lo trattennero a viva forza, lottando contro la foga con cui tentava di scrollarseli di dosso; Clelia, invece, urlò furibonda mentre si divincolava nella stretta di Luce, Cassiel e Marco. Un centimetro alla volta i due gruppi indietreggiarono, ponendo un po' di distanza tra i due litiganti.

«Ora basta!» tuonò Luce, arrabbiata e delusa. «Aster, piantala di lottare sennò ti prendo a schiaffi, e tu, Mizal, vedi di calmarti: vuoi che Ferahel ti veda in questo stato? Meglio: volete davvero, tutti e due – sì, Aster, anche tu, per quanto ti disinteressi della bambina – che vostra figlia assista al bello spettacolo dei suoi genitori che si scannano?»

Le durissime parole di Luce ebbero il potere di raffreddare gli animi: ancora arrabbiati l'uno con l'altra, ma di nuovo padroni di sé, Clelia e Stefano smisero di lottare contro la stretta dei loro fratelli e si scambiarono uno sguardo torvo, ma senza tentare di saltarsi di nuovo alla gola.

Rassicurati da quella parvenza di calma, gli altri angeli lasciarono la presa, tenendosi però pronti a intervenire in caso i due avessero manifestato nuovi segni di nervosismo. Non ce ne fu bisogno: dopo un'ultima occhiata sprezzante, Stefano e Clelia si voltarono le spalle in contemporanea, allontanandosi in direzioni opposte.

Antonio, dopo aver scambiato un cenno d'intesa con Michele e Gabriele, partì all'inseguimento del suo migliore amico.

«Stefano... Stè... accidenti, aspettami!» sbottò sottovoce, allungando il passo per affiancare l'altro. Ne scrutò il profilo, e i lineamenti ancora irrigiditi dalla collera. «Se ti seguo, proverai a picchiare anche me?» insinuò.

«Non dirlo con quel tono di rimprovero!» abbaiò Stefano in risposta. «Come se avessi potuto farle qualcosa: neanche volendo ci riuscirei, è Morte!»

«Ehi, la sua invulnerabilità non rende meno grave quello che hai tentato di fare» rispose Antonio, dimostrando un certo coraggio: non molti si sarebbero azzardati a criticare apertamente uno Stefano tanto arrabbiato. «Alzare le mani su una donna è orribile, e farlo alla donna che si ama è ancora peggio».

«Mi ha paragonato a Lucifero, e non ci ho visto più» ammise Stefano tra i denti. «Se avessi potuto, in quel momento l'avrei ammazzata».

«Non è che ammetterlo ti faccia onore» replicò secco Antonio. «Fa schifo anche solo che tu l'abbia pensato: vedi di tornare in te, perché rivoglio il mio migliore amico. Questa versione di te non mi piace per niente».

Per un momento, Stefano sembrò offendersi e arrabbiarsi ancora di più; ma poi lasciò andare un gran respiro, e le sue spalle si afflosciarono. «Non so più come comportarmi» confessò.

«Be', litigare mi sembra un buon inizio» commentò Antonio. Stefano lo guardò male, e lui scrollò le spalle. «Che c'è? Sono serio! Pensaci: quando litiga, la gente tira fuori il peggio di sé, butta fuori tutto quello che di solito non dice per non dare un dispiacere agli altri, soprattutto alle persone che ama, quindi è un buon modo per mettere a nudo tutti i problemi. Quantomeno comunicate! Quando vi sarete calmati un po', magari riuscirete anche a parlare civilmente e cercare una soluzione che non preveda farvi lo scalpo a vicenda».

A sorpresa, Stefano sbuffò una risata. «È strano ammetterlo, ma il tuo ragionamento ha senso» disse. «Ma non ci fare l'abitudine» aggiunse quando vide l'amico sogghignare compiaciuto. «Chissà quando ricapiterà, una congiuntura astrale e storica così favorevole da farti dire qualcosa di sensato!»

Antonio s'immusonì. «Comincio a capire perché Clelia volesse staccarti la testa» bofonchiò.

E Stefano, dopo tanti giorni passati immerso in pensieri neri, rise.

******

Mentre Antonio faceva la predica a Stefano, Clelia era tornata nella stanza da cui era partita e aveva constatato con sollievo che Ferahel non c'era: Raffaele l'aveva portata in giardino, con ogni probabilità quando aveva sentito le voci sue e di Stefano alzarsi gradualmente, in modo che la bambina non li sentisse litigare. Attraverso l'enorme vetrata poteva vedere la chioma fulva del Protettore e il sorriso indulgente con cui teneva d'occhio Ferahel, che scorrazzava a piedi nudi sul prato.

Luce la raggiunse alle spalle, e anche senza vederla, dal modo in cui pestava il pavimento a Clelia fu chiaro che era ancora arrabbiata.

«Allora» esordì con voce di fuoco, «dimmi come ti è venuto in mente di metterti a litigare con Aster, perché da sola proprio non riesco a capirlo».

Clelia si voltò di scatto, senza credere alle proprie orecchie: era disapprovazione, quella nel tono di sua sorella?

«Senti un po', Nimuè» esordì, stringendo pericolosamente gli occhi, «parliamo chiaro: sei venuta qui per farmi la predica? Perché non è proprio il caso».

«Altroché, se lo farò» replicò Luce, incurante dell'ira dell'altra. «Ti sei scannata a parole – e per un pelo non siete passati alle mani – con Aster. Aster! Quell'uomo ti adora, bacerebbe la terra su cui cammini se non sapesse che la cosa servirebbe solo a metterti in imbarazzo, e tu lo tratti... be'... così?»

«Ha cominciato lui» ringhiò Clelia.

«Mi riesce difficile crederlo» replicò fredda Luce. «Non dubito che ti abbia detto cose poco carine: ormai la tensione, tra di voi, era talmente grande che non poteva far altro che esplodere. Ma tu cosa gli hai detto, per fargli perdere il controllo tanto da saltarti alla gola?»

«Lo stai difendendo?» disse l'altra, incredula.

«Certo che no: è un atto disgustoso, usare violenza su una donna, e niente può giustificarlo» rispose Luce. «Dico soltanto che da solo non sarebbe mai arrivato a tanto, quindi voglio sapere per quale motivo il suo cervello ha deciso di chiudere i battenti» precisò.

Clelia sbuffò forte e guardò male sua sorella, che non si lasciò intimidire: combatterono una lunga battaglia di sguardi, da cui alla fine la prima uscì perdente.

«E va bene!» esplose Clelia, stanca di quel teatrino. «L'ho paragonato a Lucifero. Contenta?»

«Contenta?» boccheggiò Luce. «No, neanche un po'! Lo credo bene che è impazzito, pover'uomo! Paragonarlo alla persona che l'ha ucciso e condannato a una tortura lunga millenni... al posto suo, ti avrei ammazzata!». Guardò torva Clelia. «Ma come ti è venuto in mente?»

«Non è che l'avessi proprio deciso» ammise svogliata sua sorella. «Ero furiosa, e volevo dire qualcosa che lo ferisse come stava facendo lui con me».

«Direi proprio che sei riuscita nell'intento» commentò Luce, sarcastica. «E hai anche intenzione di chiedergli scusa, adesso?»

«Secondo te?» replicò ironica Clelia.

«Secondo me, impazziremo tutti nel tentativo di starvi dietro» esalò Luce: aveva la sconfortante sensazione che la guerra fredda tra Clelia e Stefano sarebbe durata ancora a lungo.

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