Prologo
Ammirava l'acqua di quella meravigliosa fontana bianca che, ad ogni movimento della sua mano immersa, si increspava, producendo una serie di onde leggiadre che le ricordava il mare dal quale era stata creata. Era passato, ormai, troppo tempo per ricordarsi con estrema esattezza come fosse stato sentirsi parte integrante dell'oceano, tuttavia, Afrodite non aveva mai dimenticato la sensazione dell'acqua salata del mare che le bagnava i piedi nudi o di come le leggere spinte di quest'ultimo e la sabbia dorata le solleticassero i punti sensibili di quella parte del suo corpo.
Non aveva dimenticato nemmeno come fosse sentire l'aria fresca e pulita, profumata di mare e salsedine, tra i suoi lunghissimi e bellissimi capelli, talmente tanto biondi da sembrare spessi fili d'oro.
Come avrebbe potuto farlo?
Era stato il giorno della sua nascita e il momento più bello di tutta la sua vita.
Mai come allora si era potuta sentire più viva e felice, libera.
Era nata in primavera, generata dalla spuma del mare, fecondata dai genitali di Urano che Crono aveva scagliato in mare dopo la ribellione contro il suo stesso padre. Afrodite - chiamata anche Urania in quanto figlia del Cielo - emerse dalle onde su una conchiglia di madreperla, spinta dal vento Zefiro sulla riva dell'isola di Cipro, e, appena la Dea mosse i primi passi sulla spiaggia, i fiori sbocciarono sotto i suoi piedi, facendola diventare la divinità che incarnava l'incanto, la bellezza di un fiore che sboccia sotto i caldi raggi del sole di Maggio.
Ma lei non era solo questo.
Oh no, la bellissima Afrodite era anche la Dea dell'amore: aveva il dono di sconvolgere le menti degli uomini, ma sapeva suscitare il desiderio anche nelle menti divine. Per questo non era passata inosservata ad uno di loro in particolare che, ogni volta che lei si recava in quel giardino in fiore e sedeva sulla fontana per accarezzare le acque, lui la guardava di nascosto, senza avvicinarsi per timore di spaventarla con la sua bruttezza.
Lei, un fiore talmente tanto bello e splendente di luce; lui, un povero innamorato fabbricante di fiamme e incarnatore di bruttezza.
Efesto, per sua sfortuna, era un Dio talmente tanto ripugnante e brutto da non esser apprezzato dalla sua stessa madre, Hera, e da nessuna dolce fanciulla, umana o divina che fosse. Come avrebbe mai potuto conquistare il cuore dell'unica giovane Dea che, con la sua strabiliante bellezza e dolcezza, era riuscita ad incantare il suo cuore ferito da secoli di insulti e schermi?
Era gobbo, deforme.
Era impensabile anche solo poter avvicinarsi a lei per poterle rivolgere parola, eppure, quel giorno, finalmente si decise a compiere il primo passo e, con andatura lenta e titubante, le si avvicinò, rimanendo poco distante da Afrodite.
Notando la presenza di un uomo al suo fianco, la giovane Dea incantatrice si voltò a guardare colui che era giunto fin lì - in quel giardino maestoso in cui lei era solita rifugiarsi per creare un collegamento, seppur minimo, con la madre che l'aveva generata - avvicinandosi a lei.
Nonostante avesse dinanzi a sé il Dio più brutto di tutto l'Olimpo, Afrodite parve non spaventarsi del suo aspetto e, sorridendogli cordiale, lo invitò a sedersi al suo fianco.
Sorpreso da tale gesto rivolto proprio da colei che era emblema di bellezza e amore, Efesto, il Dio fabbro del fuoco, si sentì il cuore colmo di uno strano ed insolito sentimento che, per la prima volta, riuscì a farlo sentire più vivo che mai. Senza perder tempo, le si sedette accanto e rimase in silenzio a contemplarla mentre la giovane fanciulla faceva agitare le acque della fontana con le sue delicate mani.
"Quanto era bella, e gentile, e cordiale", pensò Efesto, desiderando poterla guardare così da vicino per tutto il resto della sua vita, senza stancarsi mai.
«Posso conoscere il nome di colui che siede al mio fianco?» chiese lei, guardandolo di sottecchi con ancora il dolce sorriso che le incurvava le magnifiche labbra.
Efesto aveva perso il conto di quante volte si era ritrovato a sognare di poterle baciare e di assaggiare il sapore delizioso che era certo possedessero. Forse, avrebbe sentito il dolce succo della pesca, proprio come il profumo che sembrava seguirla ovunque andasse, misto a quello del mare che l'aveva creata.
«Il mio nome è Efesto, meravigliosa Dea generata dalla schiuma del mare» rispose alla curiosità della fanciulla, seppur con titubanza e un po' di paura nel rivolgerle parola.
Afrodite si voltò completamente a guardarlo, radiosa. «Voi sapete chi sono?»
Lui aveva sempre saputo chi era sin dal primo momento che era entrata a far parte del Pantheon degli Dei greci.
«Come potrei non saperlo?» le domandò di rimando, cercando di ricambiare il suo sorriso senza spaventarla con il suo mostruoso. «L'Olimpo è immenso, ma non quanto la vostra bellezza. Non passate inosservata, Divina Afrodite.»
Ed era la realtà: la meravigliosa Dea della bellezza e dell'amore era impossibile da non notare. Nonostante lei non facesse nulla per esser oggetto di sguardi, era sempre ammirata e desiderata.
La Dea gli posò una mano su quella callosa del Dio al suo fianco, facendogli battere forte il cuore con quel solo e semplice gesto.
Guardò il punto in cui le mani si toccavano e sentì il desiderio di toccarla all'infinito.
La sua pelle diafana era talmente tanto delicata da sembrare un petalo di rosa, fiore a cui lei veniva paragonata per la strabiliante bellezza.
«Vi ringrazio per le gentili parole, Dio del fuoco» rispose Afrodite, facendo alzare lo sguardo di Efesto sul suo meraviglioso viso da bambola di porcellana.
«Anche voi avete molto sentito parlare di me?» chiese, sorpreso.
Chiunque ricordasse il suo nome lo faceva solo per ricordarsi chi fosse il terrificante Dio la cui bruttezza era famosa e derisa, specialmente dal Re di tutti gli Dei: Zeus, marito di sua madre, Hera.
Che Afrodite sapesse chi fosse solo perché aveva sentito parlare di lui e aveva compreso chi fosse vedendolo in volto, quel giorno?
Se era così, allora perché non era fuggita via dalla sua mostruosità?
Afrodite parve comprendere quali pensieri affollassero la mente del suo interlocutore e si sentì terribilmente dispiaciuta per averlo, in qualche modo, offeso. Chinò il capo e pose fine a quel contatto instaurato dal tocco delle loro mani.
Si voltò a guardare la quiete dell'acqua, limpida e dolce, di quella fontana. «Perdonate il mio poco tatto al riguardo, Divino Efesto» esordì dopo lunghi e interminabili attimi di silenzio. «Non volevo in alcun modo rammentarvi come madre natura sia stata meschina con voi...»
Afrodite si stava scusando e, per la prima volta, il Dio fabbro non si sentì poi così brutto e nemmeno offeso o deriso.
Inoltre, un'inspiegabile calore iniziò a propagarsi nel suo petto e iniziò a sentire i primi effetti di quel temibile sentimento che la Dea incarnava: l'amore.
La divinità più brutta di tutto l'Olimpo, ripudiato dalla stessa madre che l'aveva generato, aveva iniziato ad innamorarsi di colei che rappresentava la bellezza eterea e senza eguali.
Com'era potuto accadere?
Che fosse colpa del dono che era stato affidato alla giovane Afrodite?
Oppure era stata la sua gentilezza a far sbocciare tale emozione in lui?
Non lo sapeva, ma sapeva che sa quel momento in avanti, avrebbe lottato fino alla fine per conquistare il cuore di colei che si era insinuata nella sua mente, incidendo ogni singolo dettaglio del suo magnifico viso in quell'organo pulsante che gli consentiva la vita.
Fu per tale ragione che, dopo l'incontro avvenuto da quel fatidico giorno, Efesto non smise mai di pensare a lei, risultandone quasi ossessionato.
Non potendo sopportare di essere costantemente separato dalla donna che amava perdutamente e che sembrava non ripudiarlo per la sua tremenda bruttezza, costrinse sua madre Hera a intercedere a suo favore con il Re dell'Olimpo, suo marito, affinché gli permettesse di sposare Afrodite. Lui, come era prevedibile, rise di tale proposta e affermò che tutto ciò sarebbe stato assolutamente ridicolo dato che nemmeno una fanciulla cieca avrebbe potuto sopportare il suo terribile aspetto. Ma ciò non bastò a dissuadere Efesto dal portare a termine i suoi piani e, così, costruì un trono magico nella sua fucina e con l'inganno convinse Hera a sedervisi, intrappolandola poiché non le era più possibile muoversi.
Di fronte alle suppliche di Hera, Efesto pose una sola condizione alla sua liberazione: che gli Dei gli dessero Afrodite in moglie.
Vedendo la Regina dell'Olimpo intrappolata dal suo stesso sgradevole figlio e temendo la sua ira nel caso non l'avesse aiutata, Zeus dovette esaudire il suo desiderio, concedendole in moglie la bella e giovane Dea che aveva conquistato i cuori di molti di coloro che vivevano in quel vasto Regno. Tuttavia, quando Afrodite fu convocata dal Dio dei fulmini, quasi stentò a credere il motivo per il quale era stata condotta fin lì.
Con occhi sgranati e carichi di paura e terrore dinanzi a quella inaspettata proposta di matrimonio, la fanciulla arretrò e iniziò a versare le prime calde lacrime mentre guardava senza nemmeno batter ciglio colui che sarebbe diventato suo marito.
Come aveva potuto farle questo?
Lei era stata sempre gentile con lui e non aveva mai ripudiato il suo aspetto trasandato e sgradevole, eppure, quel Dio, sempre rinchiuso tra le mura della sua forcina, voleva privarla della libertà di scegliere chi amare e a chi donare il suo cuore; voleva costringerla ad accettare un'unione non dettata da sentimenti puri di cuore, bensì per la semplice ossessione che lui mostrava nei suoi confronti.
Non sarebbe mai riuscita ad accettarlo e, del resto, come avrebbe potuto anche solo pensare di prendere in considerazione tale proposta, piegandosi al volere di qualcun altro?
Tutto ciò era impensabile.
Dinanzi alle lacrime della fanciulla amata, Efesto si sentì il cuore andare in mille pezzi. Fece un passo nella sua direzione e le chiese con timore: «Vuoi diventare mia moglie, Afrodite?».
Lei si sentì mancare il fiato e la terra sotto i piedi dinanzi a tale richiesta.
Arretrò ancora di un altro passo e scosse con vigore il capo mentre i suoi occhi diventavano sempre più lucidi e si riempivano di lacrime.
«Io...» iniziò col dire, senza sapere esattamente cosa rispondergli.
Si fece coraggio e disse ciò che lei voleva realmente: «No», dopodiché, corse via dal palazzo di Zeus e Hera, in lacrime.
Non sapeva dove andare e nemmeno dove fosse diretta. Sapeva solo che doveva andar via, che doveva scappare. E così fece: fuggì. Andò via dall'Olimpo e si mescolò tra i mortali, cercando di sfuggire alla triste sorte che avevano scelto per lei.
Quel giorno, Afrodite apprese una cosa: lei era la Dea dell'amore, eppure questo sentimento che lei incarnava, stava per diventare la sua condanna.
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