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Capitolo XI ° La mia ombra- parte seconda


Avevo freddo ed ero impaurita.

Juan se ne accorse e spostò la stufa più vicino a noi.

Poi uscì dalla stanza.

Dove era andato?

Ma come, io ero venuta in cerca di aiuto e lui spariva?

Tornò poco dopo, con una tazza di thè caldo, versato probabilmente da un thermos che aveva in un'altra stanza.

Con Juan mi accorsi che non servivano tante parole.

Lui sapeva esattamente quello di cui avevo bisogno.

Provavo una sensazione strana.

Era come se ci fossimo conosciuti da bambini, in un tempo lontano, quando, seduti sulla riva di un fiume, la mia testolina cercava conforto sulle sue piccole spalle infantili, ma rassicuranti, fin da allora.

Mi aiutò a togliermi il cappotto, gelato e mi mise sulle spalle il suo, che, essendo stato vicino alla stufa, era caldo ed avvolgente, perché di diverse taglie più grande della mia.

"Va meglio ora?".

Annuii con il capo, stringendo il thè caldo e sorseggiandolo.

"Dai, dimmi qual'è il motivo che ti ha spinto a venire a trovare il tuo professore di storia.

Raccontami tutto fin dall'inizio.".

Mi disse, con un sorriso rassicurante.

Prese una sedia e la avvicinò di fronte alla mia.

Sedendosi, appoggiò i gomiti sulle ginocchia, incurvando leggermente le spalle robuste, per non perdere una sola parola di quello che stavo per dire.

Potevo distinguere bene, attraverso la camicia ed il maglione aderente, i suoi forti bicipiti.

Mi sentivo protetta, ora e, finalmente, al sicuro.

"Bhè, da dove posso iniziare?".

E mi portai una mano alla fronte più per cercare di distrarre il mio sguardo, che non riuscivo a distogliere da lui, che per riordinare le idee.

Credo che se ne fosse accorto, come se fosse in grado di intuire i miei pensieri, perché mi osservava, compiaciuto.

Ed i suoi occhi, profondi e scuri su di me, erano quasi socchiusi, come le sue labbra.

Non comprendevo come mai stessi provando quei sentimenti così nuovi, eppure così familiari.

Come un deja vu.

Mi rimproverai, mentalmente.

"Torna in te, Angie, mio Dio, speriamo che non sia così evidente quello che sto provando!".

Mi schiarii la voce.

Dovevo pur fare qualcosa per cacciare quelle idee.

Andiamo, avevo davanti a me Juan, non Gabriel!

Il guaio è che non era più quel Juan che ero abituata a vedere, era diverso.

Splendidamente diverso.

Presi lo zaino e tirai fuori il libro.

Glielo porsi, dicendo:

"Mi serve la tua scienza, professore.".

"Oh!".

Esclamò, prendendolo con cura.

"Un libro antico, ma che meraviglia!

Deve appartenere al medioevo, sarà, probabilmente, del 1300!".

"Si, è del XIV° secolo dopo Cristo ed è scritto in latino.

Bisogna tradurlo e farlo al più presto.

C'è una pazza psicopatica che lo vuole, ma non sa che è questo libro quello che sta cercando.

Lei vuole quello che ancora non conosce, per sapere come fare a salvarsi e rimanere sulla terra, per dominare il mondo.

E vuole anche me...

Ed io...

Io sto farfugliando...

E...

Non credo di essere riuscita a spiegarmi bene.

Già, ho fatto un discorso senza senso...".

Mi interruppi un secondo, storcendo un lato della bocca, con gli occhi bassi, lasciando scivolare una mano tra i capelli.

Juan sorrideva, con il capo, leggermente, chinato da un lato, guardandomi con tenerezza.

Abbassai lo sguardo, facendo una smorfia di imbarazzo.

E continuai, come se stessi, questa volta parlando tra me e me:

"Era stato molto più chiaro Gabriel nell'esposizione.

Ma io non sono brava con le parole come lui.

E nemmeno affascinante come lui.

Già...".

Mi accorsi del disappunto di Juan a quelle  parole, dette, da me,  con aria sognante, perché, in silenzio, stava serrando le mascelle, ripetutamente, dicendo, a voce bassa, impercettibile:

"Questo è opinabile.".

Mi resi conto che non potevo continuare a parlare da sola, a voce alta.

Avevo di fronte un interlocutore a cui dovevo una spiegazione più esauriente.

Feci un respiro profondo, soffiando, in fuori, tutta l'aria dai polmoni, come chi si prepara per una gara atletica.

"Bhè, sarà il caso di ricominciare da capo.".

Dissi, risoluta.

" Allora stavo parlando...".

"Di Isadora...".

Apostrofò Juan.

"Ehi , un attimo!".

Rimasi interdetta.

"Sarò sconclusionata, si, disordinata e...

Stasera, devo ammetterlo, anche più distratta del solito...

Ma la memoria non mi difetta.

Sono sicura di non aver mai pronunciato quel nome... ".

"Infatti , non lo hai fatto.".

Juan si espresse con voce disinvolta, del tutto diversa dal suo timbro abituale, così, maledettamente, goffo e impacciato.

Quindi, facendo leva con le mani sulle gambe, si mise in piedi, in tutta la sua altezza.

Quanto?

Un metro e ottanta?

Poco più, poco meno...

E continuò a parlare, voltandosi di spalle, sbattendomi in viso i suoi tonici, scolpiti muscoli dorsali...

Possibile che il professore avesse il tempo di andare in palestra?

Oppure...

Era stato dotato, semplicemente e...

Magnificamente da madre natura.

Che cosa mi stava succedendo?

Era come se fossi divisa in due.

Una parte di me apparteneva, già, ad un uomo meraviglioso di nome Gabriel, ma l'altra parte...

Stava scoprendo un sentimento forte e coinvolgente verso il professore, anzi...

Verso una sorta di identità segreta di Juan.

Affascinantissima.

Che cosa era?

Come aveva fatto a tenerla nascosta così bene?

Mi stavo innamorando di quel secondo Juan?

Le sue parole, per fortuna, mi distolsero dai miei stessi pensieri.

"Mi chiedevo quanto tempo avresti impiegato per venire da me a chiedermi spiegazioni.

Conosco ogni minimo dettaglio di questa storia.".

Sentenziò.

Che cosa?

Juan sapeva e non mi aveva detto nulla, perché?

"Ti chiederai come mai non ti abbia detto nulla, finora.".

Di nuovo leggeva i miei pensieri.

"L'ho fatto solo per non allarmarti.

Volevo tenerti al sicuro, sapevo di poterlo fare, senza far crescere in te la paura.

Ne avevi già passate così tante!".

Poi, disse, sommessamente:

"Non ti ho perso di vista un solo istante.

Sono stato la tua ombra.

Volevo...

Dovevo proteggerti.

Sarei intervenuto solo se si fosse reso necessario.

Per me era importante, si, la tua sicurezza, ma, anche, la tua tranquillità.

Ti ho seguito, sempre.

In ogni momento.

Senza farmi vedere, senza cercare di mettermi in mostra.

Mi sono fatto trasferire qui, lo stesso giorno del tuo arrivo, perché sapevo che ci saresti stata anche tu.

Perché credi stessi su quel treno insieme a te?

Perché pensi che arrivammo insieme, lo stesso giorno, alla stessa ora, nello stesso sperduto paese, sulle bianche scogliere di Dover?

Quel giorno, alla stazione, ti aiutai con i fogli, sparsi sui binari, perché avevo percepito il pericolo del treno in corsa.

Ero con te, anche quella sera, nel bosco, quando, parlando con Isa ti obbligò a farle vedere dove abitavi.".

Mi alzai di scatto, spalancando gli occhi per la sorpresa, lasciando cadere la tazza, che andò in mille pezzi.    

Mi guardò dolcemente.

Poi si chinò, in ginocchio davanti a me.

Senza scomporsi.

Raccolse i cocci uno ad uno, lentamente.

"Verremmo a capo di tutta questa storia.

Vedrai.

Stai tranquilla.

Diamine, sono o non sono un professore?

Tu aspetta, qui, sei al sicuro, qui con me.".

Quindi si mise a sedere, poco lontano da me, alla scrivania, mettendosi sotto la luce diretta di una lampada da tavolo.

Aprì con reverenza ed attenzione il libro e si mise a sfogliarlo.

Leggeva ogni riga, scorrendola velocemente.

Sembrava che già fosse a conoscenza del contenuto di quel manoscritto.

A tratti si soffermava, esaminando più accuratamente le pagine.

Poi, riprendeva a voltarle.

Era come se dovesse assicurarsi che non ci fosse qualche elemento in più, rispetto, forse, ad un' altra copia letta, in precedenza.


Dallo spazio delle illusioni: Juan. Spalle forti su cui piangere, braccia generose a cui chiedere riparo. Scienza e conoscenza, che non difetta, mai. Angie aveva bisogno proprio di questo. A volte, tutto questo è a portata di mano eppure sembriamo non accorgercene nemmeno.


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