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Nel nulla (quarta parte)

Raggiungere lo yacht si è rivelato molto più semplice del previsto.

Appena giunti a Tyll siamo stati accolti da un collega di Evan, un uomo sulla quarantina che si chiama Todd, che ha stemperato il clima ostile ed inospitale della piccola cittadina portuale.

Abbiamo lasciato la macchina alle porte del paesino e ci siamo recato fino al molo a piedi: per tutto il tempo la sensazione di essere osservata non mi ha mai abbandonata. Connor è stato stranamente silenzioso per tutto il tempo, cosa che sta iniziando ad impensierirmi.

Arrivati al porticciolo, Todd si dirige a passo sicuro in direzione di un'imbarcazione anonima, che ha visto giorni migliori, e scioglie gli ormeggi prima di balzare a bordo. Evan lo segue a ruota con me e Connor al seguito.

La barca, che ai miei occhi di profana assomiglia ad un motoscafo, è davvero molto piccola, tanto che Todd deve rimanere in piedi mentre io e i due ragazzi ci stringiamo gli uni agli altri per evitare di cadere in mare.

Quando partiamo, il vento freddo del Mare del Nord ci investe in tutta la sua potenza e ringrazio nuovamente Evan per la giacca che mi ha dato.

Durante il tragitto non parliamo granché, voglio arrivare al Venezia prima di spiegare il mio piano ai ragazzi, anche se più che un piano sembra una colossale stupidaggine.

Però è l'unico che sono riuscita a produrre.

Dopo poco più di una mezz'ora raggiungiamo, finalmente, lo yacht: Todd ferma l'imbarcazione accanto ad una scaletta in fibra metallica, ultraleggera e molto resistente. Dopodiché Evan fa cenno a Connor di arrampicarsi per primo e lo studente volge lo sguardo nella mia direzione.

Non c'è bisogno di dire nulla: sarò io la prima.

Mi alzo con cautela, dato che non voglio di certo cadere in mare proprio ora, e raggiungo il soldato che sta tenendo ferma la scaletta per me.

«Se la sente?» mi domanda, mentre i miei occhi percorrono lo scafo dello yacht fino al parapetto che rappresenta la mia meta.

«Certo» rispondo, con voce che trasuda più sicurezza di quanta io ne possegga in realtà.

Faccio un respiro profondo ed afferro la scaletta con le mani: la fibra metallica è fredda sotto le mie dita, ma non è una cosa rilevante.

Devo arrivare fino in e devo pure sbrigarmi.

Così comincio l'arrampicata, senza guardare giù neppure una volta perché probabilmente mi bloccherei impaurita, e guadagno un gradino alla volta mentre il vento gelido mi sferza le membra, cercando di farmi mollare la presa.

Dopo un tempo interminabile, avverto un paio di forti e volenterose mani che mi afferrano e mi aiutano a scavalcare il parapetto: sono riuscita a raggiungere l'agognata metà.

«Grazie» mormoro, stanca per l'arrampicata appena finita, al soldato che mi sorregge.

È un ragazzo della stessa età di Evan, o almeno così mi pare, con capelli tagliati molto corti e due occhi azzurri che mi ricordano troppo quelli di Liam.

Guardarli mi fa male al cuore.

«Di nulla, signora. È stata fenomenale» mi elogia lui, anche se non credo di meritarlo. «Mi chiamo Mick e vi stavo aspettando.»

Sto per replicare quando sento Connor gridare aiuto, mi volto rapidamente e vedo una mano che si agita oltre il parapetto.

«Prof! Mi dica che non se n'è andata chissà dove! Prof!» sbraita il ragazzo, con tono sempre più preoccupato.

«Sono qui, Connor. Sto arrivando» urlo in risposta, abbandonando Mick e andando a salvare il mio prezioso studente.

Gli afferro la mano e lo aiuto ad issarsi a bordo, abbastanza agevolmente. Connor cade in ginocchio, respirando affannosamente e mi rivolge uno sguardo di supplica.

«La prossima volta mi lasci a casa, ok?»

Scoppio a ridere così di gusto che Evan mi scocca una strana occhiata non appena ci raggiunge, ma saggiamente non fa domande né commenta.

«Ora che siamo qui, ci vuole illustrare il suo piano?» chiede il soldato quando le mie risate si spengono.

Connor si rialza a fatica e mi esorta a parlare, anche se io sono reticente: non credo che la mia "tattica" piacerà ai due uomini del Centro.

«Certo» rispondo, sistemandomi una ciocca ribelle dietro l'orecchio. «Ecco... Il mio piano consiste nell'aspettare.»

Evan e Mick mi guardano perplessi e confusi allo stesso tempo mentre Connor sospira in maniera teatrale.

«Soldati...» brontola lo studente a bassa voce, facendosi sentire solo da me.

«Aspettare cosa, scusi?» domanda Evan, probabilmente sperando di aver capito male le mie parole.

Come glielo spiego?

«Facciamo un passo indietro...» esordisco, appoggiandomi al parapetto dietro di me. «Ti ricordi quando ti ho detto che so dove si trova il capitano?» Attendo un cenno affermativo da parte del soldato prima di continuare. «Ecco, se avete davvero controllato in acqua e sullo yacht senza trovare tracce di lui e della squadra, rimane un'unica alternativa.»

Rimango in silenzio qualche istante affinché anche loro giungano alla mia stessa conclusione, ma noto che Mick continua a fissarmi titubante ed incerto. Così alzo un braccio e gli indico il cielo sopra di noi, uno spazio immenso, privo di confini, che ora si sta rannuvolando.

«Cosa?! Sta scherzando?» replica il soldato, con espressione allibita. «Non puoi davvero insinuare che si trovi... lassù.»

«Perché no?» ribatto io, con tono sicuro. «Avete cercato a bordo dello yacht dove ora ci troviamo. Avete cercato tra le onde, grazie ai sommozzatori. L'unico posto che manca è il cielo.»

«Quindi crede anche che ci sia un varco?» domanda Evan, tralasciando le parole di Mick e concentrandosi soltanto su di me.

«Si spiegherebbe tutto: il potente campo elettromagnetico, le sparizioni...»

«E come facciamo a recuperare il capitano?» chiede ancora il giovane soldato.

«Nel modo che vi ho detto prima: aspettando. Ho un'idea circa le creature responsabili di tutto questo e non usciranno se continuiamo a parlare e fare confusione» gli spiego, sperando che davvero mi ascolti e obbedisca al mio prossimo ordine. «Evan, tu, Mick e Connor dovreste andare sotto coperta ed aspettare là. Io, invece, starò quassù in attesa del loro arrivo. Mi farò catturare così mi porteranno dove si trova il capitano e poi lo riporteró a casa.»

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