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𝚝𝚞 𝚖𝚒 𝚑𝚊𝚒 𝚌𝚊𝚙𝚒𝚝𝚘

⟿ ✿ ship :: IwaOi

➭ ✧❁ SMUT alert :: "Non rispondo, aspetto che si fermi."

➥✱ song :: "TU MI HAI CAPITO", Madame

⤜⇾ parole :: 12.717

➤♡❆ comfort fic for :: _ilmionome_17

➸★✺ disclaimer :: allora fanciull*, lo so che abbiamo fatto questo patto non detto fra noi per decidere di scrivere oikawa diva e non oikawa quello vero, lo so. ma questa volta ho dovuto tradirlo. non c'è divakawa, c'è oikawa quello tridimensionale e un po' meno superficiale del solito, qui. vi prego, non scrivete "diva" ad ogni riga, nel bene o nel male, rispetto alla "diva" c'è molto, molto di più. nel caso però foste preoccupat*, sappiate che questa storia FINISCE BENE.

➠♡༊ written :: 17/09/21

⧉➫ genre :: hurt/comfort, introspettivo, fluff

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

Fa male.

Tutto, fa male.

Mi fa male.

Non ce la faccio più.

Sento le cosce che si tendono, i muscoli stanchi che piangono quando pretendo da loro l'ennesimo sforzo, le caviglie deboli e la schiena rigida.

Alzo la palla che mi viene lanciata, la alzo perfettamente, come devo fare.

È doloroso.

Giocare è doloroso.

Ma solo perché punto al massimo.

Non so quanti giorni siano, che vado avanti così.

Di solito va meglio, di solito riesco a riprendermi, a staccare, ma...

La schiacciata viene murata, la palla è ancora in gioco.

Corro dall'altra parte del campo, le gambe che fanno male, fanno malissimo, il dolore che si propaga per l'interezza del mio corpo, ogni respiro più faticoso di quello precedente.

Iwaizumi è stato via una settimana.

È tornato quanto, due ore fa? Mi guarda dagli spalti ma non ha la minima idea di cosa stia effettivamente succedendo.

Nessuno si ricorda di prendersi cura di me, se lui non c'è.

Io faccio parte di quel "nessuno".

Mi abbasso, faccio leva sulle gambe, e non credo di farcela più.

Ed eppure ce la faccio, alzo un'altra volta, perché è quello che devo fare, il prezzo che devo pagare per chi voglio essere.

Non ho mangiato niente a colazione, oggi.

Non avevo tempo.

Dovevo allenarmi, allenarmi, allenarmi.

Come posso competere, se sono debole? Come posso dire di essere l'ambizione fatta a persona, se non faccio dei sacrifici?

Murata un'altra volta.

Cazzo, cazzo, cazzo.

Datemi tregua.

Non smetto di correre, il mio corpo è veloce, nervoso, afflitto e affamato, ma non smetto di correre. Pretendo da lui il massimo, il massimo possibile, nulla di meno.

La terza alzata consecutiva mi spezza qualcosa dentro.

Il dolore diventa insopportabile.

Non posso permettermi di essere stanco.

Lo schiacciatore mi guarda per un istante, la sua mano vola verso la palla e noto l'istante esatto in cui la tocca, che non c'era possibilità, per lui.

Murato la terza volta.

La palla sbatte contro le dita degli avversari e cade a terra con un tonfo.

Non sono abbastanza.

Devo essere di più.

Devo dare di più, sforzarmi di più, lavorare di più.

Sorrido, perché quello che devo fare è sorridere e comunicare sicurezza al ragazzo che ha sbagliato, annuisco e gli dico che non importa, che il prossimo punto sarà nostro, perché voglio che lo sia.

Più esatto, più preciso, più... perfetto.

Devo essere perfetto.

Se avessi alzato di un millimetro in più, forse, se mi fossi sforzato quel tantino che bastava, non staremmo impastando le mani fra di loro per un punto perso.

So che è una partita di allenamento.

Ma se non sono abbastanza ad una partita di allenamento, a quelle ufficiali, cosa sarò?

Meglio, devo fare meglio.

L'arbitro fischia, sento il mio nome, il servizio arriva come una mina sul nostro campo.

L'hanno ricevuta, la palla arriva verso di me.

Quanto cazzo fa male, merda, quanto fa male.

Non riesco a muovermi, ma lo faccio lo stesso, urlo alle mie gambe di farlo e loro obbediscono, anche se fa... male.

Non sono nessuno per dire "basta", e se lo dicessi, che giocatore sarei? Che compagno di squadra sarei? Io non smetto, io non cedo, io vado avanti, avanti, avanti finché non ottengo quello che voglio.

A costo di rimanerci.

A costo di morire, io non smetterò di alzare e alzare e alzare.

Diventerò meglio.

Ve lo prometto, voi che mi guardate carichi d'aspettativa, che sarò migliore, darò di più, otterrò quel che voi mi chiedete di ottenere.

Non deluderò nessuno.

I polpastrelli toccano appena la palla, prima che salti dall'altra parte e arrivi ad un altro schiacciatore.

La ricevono.

Gli avversari la ricevono.

Merda.

Mi sono allenato dodici ore, ieri, dodici l'altro ieri, dodici il giorno prima.

Non dovrei, Iwaizumi dice che non dovrei, che è scientificamente provato che non farò altro che usurare le mie articolazioni e i miei muscoli, che mi farò del male.

Ma a chi frega se mi faccio del male?

Mi preoccuperò del dolore quando sarò in cima.

Non ora.

Non posso.

Non ho intenzione di dare a qualcosa di fisico e sporco come il dolore la meglio su quello che desidero, quello che voglio così ardentemente.

Sono stanco di non essere abbastanza, io posso fare di più, dare di più.

Devo solo faticare.

Faticare e sudare come tutti.

Corro indietro, il libero riceve la schiacciata della squadra avversaria ma la traiettoria non è pulita, trema e barcolla in un arco storto.

Questo m'impedirà di prenderla?

Dovrebbe, non ce la faccio più a correre.

Ma non è così.

Non può essere così.

Le gambe sembrano sfilacciarsi, i muscoli cadere in brandelli mentre corro fuori dal campo, mi preparo a saltare e alzo la palla un'altra volta.

È perfetta, questa è perfetta, lo so che è perfetta.

Sento che è perfetta.

Atterro sui piedi che il dolore si pianta come una stilettata sulle mie ginocchia, sale fino alle cosce e punge la mia vita.

Una parte di me chiede pietà, chiede di fermarsi.

Quella stessa parte mi urla che Iwaizumi non deve andarsene, se sono in grado di fare questo a me stesso quando lui gira la testa, che devo imparare ancora un sacco di cose, della vita.

Ma l'ambizione è un mostro nero e vorace, che ti divora e divora quel che ti sta intorno, inghiottisce in un colpo solo qualsiasi cosa conti e la trasforma in sola volontà di essere meglio.

Meglio di prima, meglio di tutti.

Meglio di quello che sei.

Se l'ambizione fosse sana, non sarei così, lo so.

Se la gestissi, invece di lasciarle prendere tutto quello che può, non sarei così.

Ma la mia ambizione, quella nera che non guarda in faccia nessuno, quella che sbraita e conquista senza lasciare superstiti, è il genere peggiore che esista.

Perché nasce dalla delusione.

Dalla delusione di guardarsi allo specchio e chiedersi perché non si è abbastanza.

Perché nonostante ore di allenamento, voglia, amore e passione, c'è comunque qualcuno disposto e pronto a superarti in tutto.

Non mi sento niente.

E voglio tutto perché temo di non essere niente.

E non m'importa se il mio corpo non la vuole, questa furia, perché gliela darò io e io...

Non facciamo punto.

Ma non lo so, ora come ora, perché so solo che fa tutto male, così male che non riesco a tenere gli occhi aperti.

Sono... per terra?

Perché mi sembra che il mondo giri?

Perché fa tutto male?

Che è successo?

Abbiamo perso, non è vero? Per colpa mia, perché non sono abbastanza, perché per quanto ci provi sono comunque solo uno scarso sognatore, perché...

− Allontanatevi e chiamate una cazzo di ambulanza! –

Oh, riconosco questa voce.

Mi dirai che va tutto bene quando sappiamo entrambi che sono uno schifo?

Mi chiedo ancora perché mi ami.

Sono caduto a terra nel bel mezzo della partita, perdiamo per colpa mia, tutto questo casino solo per colpa mia.

Perché non posso avere di più?

Non sono neppure in grado di sacrificare me stesso per la mia ambizione?

Sento una mano correre al mio braccio, stringerlo piano.

Vedrei occhi scuri venati di verde bosco, se riuscissi a sollevare le palpebre.

− Tooru? Dimmi che ci sei, Tooru, ti prego, dimmi che... −

Non riesco a rispondere, ma stringo le dita cercando di sollevarle verso l'alto.

Tu mutili la mia ambizione, con il tuo amore.

Ma sei l'unico a cui permetto di farlo, perché sei anche l'unico che mette me per come sono di fronte a qualsiasi pretesa.

Voglio...

− Va tutto bene, Tooru, hai sbattuto la testa, è normale che ti senta una merda. Va tutto bene. –

Ci prova, a tenere la voce salda, ma si sente che non ci riesce.

Mi tasta tutto il corpo con le mani delicate del bravo medico che è, in cerca di qualche ferita, forse, di qualcosa.

Tutto quello che trova è la mia voce che lamenta dolori che non dovrebbero esserci.

− Ora ti facciamo portare all'ospedale, vedi che starai benissimo. – continua.

Ha la voce rotta.

Come se stesse per piangere.

Dopo tanti anni, tanti e tanti anni, riconosco questo tono.

Non lo usa mai, Iwaizumi, non gli piace piangere.

Cosa ti ho fatto?

Vedi che non sono abbastanza nemmeno per te?

− Hajime... − provo a dire, per scusarmi. Scusami se ti ho reso così, scusami se ti ho fatto fare qualcosa che non ti piace.

Avrei dovuto fare di più, lo so.

− Sono qui, Tooru, sono qui. –

Mi capita di sorridere, nel marasma del rumore che si fa ovattato attorno a me. Sorrido perché c'è un lato di me, uno che l'ambizione non ha ancora divelto in questo istante, che non può fare altro.

Mi dà tregua, sentire la sua voce.

− Abbiamo vinto, Hajime? –

Lo sento tirare su con il naso.

− Eh? –

Molla. Ambizione del cazzo, molla la presa.

È il mio momento, il mio secondo con l'uomo che amo che si prende cura di me, non il tuo di dar fastidio e farmi sentire uno schifo.

− Abbiamo vinto? – ripeto.

Ed eppure, so che su questo versante, per quanto m'infiammi e mi faccia male, quella stronza non vincerà mai.

Perché se c'è qualcuno che sa come dirle di star zitta, è la persona che ho scelto.

Sento le labbra di Iwaizumi premere contro la mia fronte.

Tutto di lui, anche se non lo vedo, mi dice che è finita.

Che posso lasciarmi andare.

Che devo smettere di combattere.

E i muscoli si rammolliscono come se si sciogliessero al caldo, si liquefanno.

Un attimo di tregua.

Un solo istante.

Per favore, per...

− Ti amo, Tooru. – è l'ultima cosa che sento, prima che il mio cervello decida di smettere, di chiudere i battenti e svanire nell'inconscio.

Svengo sull'ardesia, il corpo che fa male, malissimo, la testa che pulsa e gira, le mani di Iwaizumi sul mio corpo che lo tastano per rassicurarlo, tutti gli altri in allerta per quel che mi sta succedendo.

Non sento niente quando vengo tirato su, niente quando mi mettono su una barella, niente quando Iwaizumi manda a fare in culo i paramedici mostrando il tesserino e sbraitando che col cazzo che mi lascia salire sull'ambulanza da solo.

Non vedo nulla quando le lacrime scendono sulle sue guance, lacrime di frustrazione e spavento, mentre le sue mani s'infilano fra i miei capelli.

Rimango addormentato, stanco e incosciente per quello che sembra troppo, troppo tempo.

Le cose si accumulano e sommano e mi sembra di litigare coscientemente con me stesso, di parlare con la voce dentro la mia testa.

"Perché non hai dato tutto quello che avevi?".

L'ho fatto, l'ho fatto, lo giuro. Ma non posso trascendere i miei limiti, non posso morire per questo, non posso rovinarmi.

"È colpa tua, sei debole".

Non sono debole, sono umano.

"Credi che la squadra vorrà un giocatore scarso? Credi che vincerai se non sacrifichi qualcosa? Credi che Hajime vorrà qualcuno di mediocre al suo fianco? Credi che le tue scuse del cazzo ti porteranno da qualche parte?".

Io non sono scarso, io...

"Se non vinci sei scarso."

Cosa dovrei fare, allora, cosa?

Cosa dovrei...

Rendermi conto di non essere abbastanza per le pretese, per gli sguardi e per le aspettative, è sempre doloroso, per me, più di svenire per la fatica e sbattere la testa.

E assieme al dolore è una serpe, quella che mi morde dall'interno e mi dice di fare ancora, di avere ancora e mangiare ancora.

L'ambizione è una condanna.

Una condanna che ti fa sentire sul tetto del mondo, per pochi istanti.

Ma delle tue vittorie non ti godi niente, alla fine, perché ad ogni traguardo l'unica cosa che riesci a pensare è quale sarà quello successivo.

Non vivi, aspiri.

E so di non essere fisicamente malato, adesso, di star bene sotto sotto, ma mentre mi trascinano via per andare in ospedale, il lato di me non contaminato mi chiede se ne vale davvero la pena.

Ne vale la pena?

Non credo di saperlo.

Non mi dà nemmeno più felicità, riuscire.

Mi dà assuefazione.

Iwaizumi non deve andarsene.

Il mio cervello fa troppo rumore, quando lui non c'è.

Non deve andarsene mai, non deve...

Riprendo coscienza piano piano, e gli occhi rimangono chiusi mentre sento voci rotolarmi sul retro della testa in un rumore affannoso e ovattato.

− Che cosa vuol dire? Ci dev'essere un errore, cazzo. –

− Mi spiace, signore, questo è. Il ragazzo è svenuto per la stanchezza. Ha disturbi alimentari, tendenze a privarsi di cibo e sforzarsi troppo? Forse è stato un caso. –

− Ma che... disturbi alimentari? Tooru non ha disturbi alimentari. –

− Signore, le ripeto che non so cosa dirle. Il referto dice che non ha ferite e il trauma cranico è ridotto, ma è stato sottoposto ad uno sforzo muscolare eccessivo e che il suo corpo ha smesso di funzionare tutto in una volta. –

− Non mi parli come se fossi un coglione, ho una laurea in medicina anch'io, stronzo. –

− Senta, senza troppi giri di parole. Il suo fidanzato era stanco morto, sfinito, ha ceduto. Ma sta bene. Gli facciamo una flebo per i liquidi e vi rimandiamo a casa quando si sveglia. –

− Grazie. –

Come un'onda, la coscienza che avevo timidamente acquisito, torna indietro. Nel retro della testa sento una vocina dirmi di rimanere sveglio, ma sono stanco, troppo stanco.

Non vorrei riaddormentarmi, vorrei tirarmi su e dire che va tutto bene.

Non ho disturbi alimentari, davvero, sono solo troppo...

Troppo poco?

Troppo ambizioso?

Vorrei dire ad Iwaizumi che va tutto bene, togliere dal suo volto quel cipiglio preoccupato che non ho bisogno di vedere per conoscere, ma non ce la faccio.

Forse questa volta l'ho combinata troppo grossa.

E se si stancasse?

E se...

Ritorno a dormire senza poter combattere ancora.

Il mio corpo dice "basta" e per quanto io voglia imporgli di continuare, per quanto provi a controllarlo, non ce la faccio.

Non riesco.

Non posso.

Mi dispiace.

Mi risveglio una volta ancora più tardi, ma di nuovo, la coscienza è lontana e ovattata, ho solo un mucchio di sensazioni inspiegabili che gareggiano nel mio corpo per darmi una parvenza di consapevolezza.

Sento dita fra i miei capelli, da dietro le palpebre chiuse noto le luci al neon accese.

Dev'essere tardi.

Quanto tardi?

La partita era alla mattina, non posso aver dormito tutto il giorno.

No?

Le mani scorrono sulla mia nuca, fra le ciocche chiare, s'infilano contro il collo.

Un respiro mi batte sulla guancia.

− Lo so che non puoi sentirmi, stronzetto, ma magari ti arriva qualcosa lo stesso. – dice una voce rotta e sfinita, stanca, disperata.

No, Iwaizumi, non essere triste.

Non preoccuparti.

Non devi.

− Sei sempre così cattivo con te stesso, Tooru, così cattivo. Perché non riesci a volerti un po' bene? Ho sbagliato qualcosa? Non dovevo andarmene, vero, non dovevo. Ed eppure credevo che fosse finito, il periodo in cui ti fai del male per ottenere cose che hai già. –

No, Iwaizumi, non è colpa tua.

Sono io.

Io che non sono abbastanza, io che devo migliorare, io che devo dare cose che non ho ancora tirato fuori da me stesso.

Tu dici che ho già quel che voglio, ma è vero?

Perché una parte di me dice che lo è mentre l'altra mangia e inghiotte tutto sperando che ci sia altro da dare?

Vorrei che potessi andartene senza preoccuparti di cosa farò in tua assenza, vorrei meritarmi la tua fiducia.

Non voglio deluderti.

Non voglio...

− Ti amo, Tooru, ti amo come sei, ti ho sempre amato come sei. Non m'importa quanto poco pensi di valere, io sarò sempre qui a raccoglierti quando cadi. Vorrei solo che imparassi a vedere l'impegno che hai messo in tutto, che smettessi di incolparti così tanto. –

Come una carezza, la voce di Hajime su di me.

Si espande e mi rilassa.

Magari sono un fallito, magari lo sono davvero, penso di esserlo.

Ma lui...

No, Tooru, non ti amerà se non darai di più.

Non starà con uno sfigato.

La squadra non vorrà uno sfigato.

Devi...

− Riposati, Tooru. Te lo meriti. –

Pizzicano, i miei occhi chiusi.

Pizzicano di disperazione.

Non è vero, Hajime, non è vero che me lo merito. Non merito ciò che non guadagno e c'è così tanto da guadagnare, così tanto da prendere, che non posso fermarmi adesso.

Vorrei, vorrei potermi guardare indietro e gioire delle cose che ho ottenuto, ma credi che possa farlo?

Che ne abbia il diritto?

Non ho il diritto di essere gentile con me stesso.

Ce l'avrò quando sarò il migliore.

− Sei troppo prezioso per trattarti come fai. Perché non riesci a capirlo? –

"Prezioso", eh?

Che bella parola.

Mi fa sentire, per un solo istante, in cima al mondo. Mi fa sentire forte e potente, mi fa sentire custodito e amato e toccato in punti del mio cuore che non credevo fossero neppure accessibili.

Ma se quando lo dici tu, Iwaizumi, tu che sei l'unica persona di cui mi fidi davvero, mi sembra una verità inconfutabile, quando me lo ripeto da solo, ha il sapore della menzogna sulla lingua.

Non mi lasciare.

Non ci sarà niente di bello, se non ci sei tu.

Non andartene via.

Anche se faccio schifo, anche se sono uno stronzo che non ottiene mai niente, anche se sono scarso e miserabile.

Ti prego, Iwaizumi, non andare via.

− Non me ne vado, non me ne andrò via mai. –

Mi leggi nella mente?

Come?

− Sei la cosa più importante della mia vita, e sono felice di averti. Non immagini neppure quanto lo sia. –

Ricomincia ad accarezzarmi i capelli che so che sta piangendo.

Vorrei alzarmi e spazzare via le lacrime dal tuo viso.

Ma non posso, intrappolato in un dolore che mi sono costruito da solo.

Non riesco a svegliarmi.

Riesco a rimanere in questo limbo di difficoltà che oscilla fra l'essere deluso da me stesso per non aver vinto e l'esserlo perché non riesco a consolarti.

Non mi merito, te, Iwaizumi.

Ma vorrei ugualmente che tu non mi abbandonassi.

Senza di te non ce la farei.

Senza di te nessuno mi stringerebbe a notte fonda dicendomi che vado bene.

Non me lo merito.

Non merito niente.

Ma ce l'ho, ti ho, e ho paura che se non ti avessi di me non rimarrebbe nulla che valga la pena di sostenere.

Credo di riuscire a sorridere, di riuscire a superarlo, certi giorni, solo perché torno a casa da te.

Solo perché, anche se fallisco e fallisco e fallisco ancora, poi so che starò piangendo sulla tua spalla mentre mi dici che valgo più di quanto immagini.

Non mi abbandonare.

− Ti amo, Tooru. –

Scivolo per la terza volta nell'incoscienza in un misto di senso di colpa e dolore, ma anche stranamente tranquillo.

Con questo strano senso di pace e soddisfazione che non provo mai.

Mi tiri sempre fuori, eh?

Mi tiri sempre fuori da me stesso.

Quando sono troppo a fondo nel mare scuro che è la mia mente costantemente affamata, quando sto annegando, sei sempre tu a prendere la mia mano e aggrapparti a quel che rimane con tutte le forze.

Forse l'amore non dovrebbe essere costante salvataggio, ma per me lo è, il tuo lo è.

È così limpido, pulito e dolce.

Non sei un uomo delicato, sei sempre stato rude e forte, violento nel modo in cui provi emozioni e rabbioso, pieno di caratteristiche così terrenamente umane, ruvido, sfrontato.

Ma riservi a me, nell'intimità e nella solitudine, una parte così tenera di te stesso.

Sono felice, quando sono con te, perché so che non daresti questa cosa a nessun altro e mi fai sentire realizzato.

L'amore per la pallavolo, l'ambizione l'ha intrecciato con un maniacale senso di non essere abbastanza.

Ma per quanto ci provi anche con te, alla fine non riesce mai.

Sei troppo forte, per questo.

Credo che il mio amore per te lo sia.

Mi sento forte, ad addormentarmi sul lettino di un ospedale mentre mi accarezzi i capelli, forte nell'unica cosa che niente può rubare.

Forte per te.

Forte con te.

Forte di te.

Mi tiro su, sveglio e davvero in grado di aprire gli occhi, che è sera.

La luce oltre la finestra è quella gialla dei lampioni, i soffitti bianchi sono freddi e soli, il silenzio assordante, il mio corpo uno schifo.

Le mie palpebre sbattono, il cervello si libera di quella patina di foschia che lo annebbiava, gli avambracci si tendono quando faccio leva su di loro per tirare su il busto.

La prima cosa che vedo è...

− Tooru! –

Ha gli occhi stanchi.

Come se non avesse neppure sbattuto le palpebre per attendere questo istante.

Ho la gola secca, le parole escono roche dalla mia bocca.

− Iwa...chan. –

Non capisco cosa accada perché succede in fretta, so che l'istante prima era sulla poltrona al fondo della stanza e ora è in ginocchio a fianco del mio letto, il mento sul materasso e gli occhi pieni di lacrime.

− Tooru, cazzo, mi hai fatto prendere uno spavento, idiota che non sei altro. –

Sorrido per quel che riesco.

− Pardon, necessitavo di un sonno di bellezza. –

Vedo le sue labbra incresparsi in una risata trattenuta che nasconde una vena di rabbia dietro la facciata serena.

− Come stai? –

Sfarfallo le dita fra di loro.

− Vivo. Mi fa male tutto, ma vivo. –

Sbuffa.

− A casa ti faccio un massaggio fisioterapico, non mi fido a fartelo fare qui. Ti conosco molto più di loro e non voglio che degli stronzi qualsiasi ti mettano le mani addosso. – borbotta, alzandosi di più sulle cosce e tirando una mano sul letto per congiungerla alla mia.

− Geloso? –

− Tremendamente preoccupato, Tooru. –

Cazzo, se lo è. Mi chiama per nome, e non mi chiama mai per nome se non c'è qualcosa che sta succedendo fra di noi, qualcosa di brutto o bello che sia.

Quando litighiamo e quando facciamo sesso, mi chiama "Tooru".

Anche quando sono ricoverato, aggiungo alla lista.

Che strano modo di scoprire le cose.

− Io... − provo, ma non so cosa dire, per cui smetto.

− Tu sei un cretino, pazzo, maniaco e masochista. Quando arriviamo a casa dobbiamo parlare. –

Mi sale nel petto una vampata d'incertezza.

− Non vuoi lasciarmi, vero? –

Al solo pensiero, la mia vita cade a pezzi. I mattoni dei muri si sgretolano, il soffitto cede, il mio corpo si sfalda e non c'è altro se non dolore e desolazione in tutto quello che sono.

Scuote la testa.

− Non voglio lasciarti. Ma io e te dobbiamo mettere in chiaro un paio di cose. –

"In chiaro un paio di cose"?

− Se mi devi sgridare... −

− Non devo sgridarti, Tooru, voglio solo cercare di capire. Tu ti sei... −

Mi sono cosa, eh?

Mi sono tritato i muscoli per giocare, ho mangiato poco e niente per punirmi e mi sono spinto troppo oltre?

− Non mi piace parlare di quei momenti, Hajime, lo sai. –

Lo sento inspirare.

− E a me non piace dovermi buttare giù dagli spalti quando il mio ragazzo sviene perché non mangia un pasto decente da giorni, si allena dodici ore filate e si sottopone ad uno sforzo muscolare logorante, Tooru. –

Vedo nel retro dei suoi occhi qualcosa di preoccupato e allo stesso modo colpevole, come se l'avesse fatto lui con le sue mani.

− Tu non c'entri niente. – dico, più nel senso di "non darti responsabilità che non hai" che di "fatti i cazzi tuoi."

− Io c'entro sempre con te, Tooru, che ti piaccia o no. Non sto dicendo che mi devi una spiegazione, non me la devi, ma... possiamo solo parlarne? –

Di norma io...

Non amo che mi venga chiesto che cosa mi passa per la testa.

Ma ci sono persone e persone, e credo che Hajime abbia non solo le migliori intenzioni, ma anche il diritto.

Quando stai con qualcuno, non puoi star male da solo.

La cosa mi disturba e mi piace in contemporanea.

− Posso provarci. Ma tu... mi devi promettere che non te ne vai. –

Sorride come se gli avessi concesso qualcosa di enorme, immenso e soddisfacente.

Si china verso di me, sento le sue labbra premersi contro la mia guancia bianca, in un modo delicato e dolce che non merito e so di non meritare, ma che prendo lo stesso.

− Non penso che riuscirei mai ad andarmene da te, principessina. –

Rido e i muscoli della pancia mandano una fitta alle costole.

− Quindi sei il mio principe azzurro? –

− Più il boscaiolo che ti trova in mezzo alla foresta e ti dà da mangiare, ma come vuoi. –

Sorrido, anche se non so se dovrei farlo.

Lo faccio perché amo l'amore, quello che Iwaizumi mi dà.

Ma sento di non avere la libertà di amarlo perché è come un cappio legato sulla bocca dello stomaco, l'ansia che mi assale all'idea di dovergli spiegare.

Lo sa, come sono fatto, stiamo insieme da una vita.

Lo sa bene.

Ma dirlo ad alta voce è diverso, così faticoso e deludente, così traumatico. Stai bene finché non lo ammetti a te stesso, e dirlo a lui è urlarlo al mondo, che qualcosa non va.

Sono passati anni dall'ultima volta, anni e anni.

Io...

Non ho mai amato la persona che dicevo di essere.

Non ho mai avuto quella sicurezza in me stesso che gli altri mi assegnano.

La "diva", eh?

Coperto di brillantini e piume rosa, con la battuta pronta e la lingua affilata, bello e impossibile, miraggio di chi desidera solo un centimetro in più della mia pelle nuda.

Ma come spiegarlo, al mondo, che quella è la migliore e più elaborata delle maschere?

Lo sa, Hajime, lo sa.

Ma io, voglio saperlo, io?

Rinchiuso nel mio stupido corpo a chiedermi se voglio sapere qualcosa che mi divora.

Ridicolo.

Deludente.

Voglio di più.

Mi meritavo di più.

Perché essere sempre il secondo, perché essere bravo ma non il più bravo, perché non avere tutto ma andarci sempre così vicino?

Essere me sembra la più fantasiosa delle fiabe, da fuori, perché questo è quello che dico a me stesso quando copro con l'umorismo tagliente le crepe aperte di quello che non voglio dirmi.

Sono così cosciente, del mio malessere, e allo stesso modo diviso e diverso.

Se non ci fosse Hajime non sarei niente.

Non sarei... niente.

Se non ci fosse chi sa di me tutto, chi comprende senza sapere e senza ascoltare, credo che perderei io stesso la bussola nel marasma di cose che voglio essere e non sono.

Ritrovami, Hajime.

Ritrovami, perché mi sono perso.

E allo stesso tempo, mi chiedo se sia giusto.

È giusto?

Non so se sia giusto.

So che fa paura.

Ma quando Hajime mi stringe la mano, quando tira via le lacrime versate per paura che io, quello vero, non l'affascinante seduttore o il talentuoso giocatore, sia scomparso, mi sembra che veda oltre tutto, oltre me.

Essere una maschera è difficile, soprattutto se te la cuci addosso come ho fatto io.

Ma trovare chi di quella maschera vede l'interezza, ti rende più completo di quanto tu non sia mai stato.

Ho paura.

Ho così tanta paura, così tanta.

− Tooru, vuoi che chiami l'infermiera? –

A casa c'è qualcosa, che mi aspetta.

C'è la verità.

La voglio?

Io no, ma ad Hajime la devo.

Credo di amare più lui di quanto non abbia mai fatto con me stesso.

− Voglio andare a casa nostra, Hajime. – mi capita di rispondere.

Non c'è il tono ilare di prima, non quello finto e di vetro che uso per dire al mondo che sto bene.

Lui lo capisce.

Anni, anni, anni sprecati dietro a me, l'hanno reso così sensibile alle mie difficoltà.

Annuisce.

Si sporge per baciarmi.

− Sei la cosa più importante della mia vita, e sono felice di averti. Non immagini neppure quanto lo sia. – ripete, come non l'avesse detto qualche ora fa.

Temeva non l'avessi sentito?

L'ho sentito.

Lo sento.

Lo so.

− Se non ci fossi tu non sarei nulla. – rispondo.

Non gli piacciono, queste parole.

Lo so.

Ma non dice niente.

Riserva il resto per la solitudine.

Vengo dimesso un'ora dopo, i controlli e le carte da firmare che ci rubano una marea di tempo.

Hajime ribolle, vedo che lo fa.

Trattiene per quando saremo soli, lo so che lo sta facendo.

Non ho ansia, ad un certo punto scompare in un mare di sensazioni.

Ho rassegnazione.

Ha detto che non mi lascerà mai, vero?

L'ha detto.

L'ha detto.

Vedo i messaggi "guarisci presto" dalla squadra quando accendo il telefono, un paio di messaggi di Suga che mi manda a fare in culo per lo spavento e un selfie di Mattsun e Makki che mi fanno la linguaccia.

Non rispondo.

Non sono abbastanza forte, al momento, per far finta che vada tutto bene.

Camminare è una tortura.

L'acido lattico mi distrugge.

Ma la sedia a rotelle, Iwaizumi la guarda con così tanto dolore che non riesco a dirgli di volerla, una volta ancora cedo all'aspettativa piuttosto di scegliere qualcosa di sano.

Se ne accorge.

Ma imbocca una via di mezzo quando mette un braccio attorno alle mie spalle e mi aiuta a camminare.

Usciamo dall'ospedale che le parole sono finite.

È come prima di una guerra, quando il condottiero passa cavalcando di fronte ai soldati per caricare le loro anime che andranno a morire.

Io e Iwaizumi siamo così.

Raccogliamo le forze, sistemiamo le energie in vista di qualcosa che ci attende.

In macchina, c'è solo silenzio.

Mi accarezza la coscia in silenzio, passando le dita sopra il ginocchio e sul muscolo stanco, cerca la mia mano per tenerla sotto la sua sul cambio, ma guida senza guardarmi.

E anch'io cerco il suo viso quando spegne il motore, lo bacio ignorando i muscoli mezzi morti e stringendo le sue spalle come se ci fosse la mia vita aggrappata fra di noi.

Ma quando mi sporgo più di prima, quando indietreggio con la schiena che cerca appoggio sulla portiera, per farmi coprire e inghiottire, non lo fa.

Non dice niente.

Si stacca e scuote la testa.

No, Tooru, no, non possiamo.

E so che non possiamo perché il mio corpo non ce la fa, e so che non possiamo perché ci sono parole da dire, ma è come se scuotesse tutto di me.

Lui vede davvero oltre me.

Impazzisce per me, lo so, per le mie gambe lunghe, esce fuori di testa per ogni parte e ansa, per il mio profumo per le sensazioni che gli do.

Ma conto più del sesso, in questo istante.

Conta più quello che c'è dentro.

E non so se sono in grado di deglutire questa verità.

Mi apre la portiera, mi accompagna reggendomi nell'ingresso e nell'ascensore, apre la porta senza mollarmi, tutto in religioso e assordante silenzio.

Le parole stanno per esplodere, lo so.

Le sento.

Lascia le chiavi sul tavolo della cucina, si toglie la giacca di pelle, si china per slacciarmi le scarpe e metterle a posto, fa attenzione e tutto questo, senza parlare.

Mi porta in camera, mi spoglia finché non rimango in mutande, mi fa sedere sul materasso.

Respira.

Cado indietro.

Si cambia in vestiti puliti e da casa, prima di salire sul letto e avvicinarsi a me.

Mette le mani attorno alla mia coscia.

− Sei pronto? – sono le prime parole che dice, e la riposta è una.

Io non lo so.

Non ne ho idea.

Pronto a cosa?

A confessarti qualcosa che tu sai ma che temo di dire fuori da me?

Non lo so, Hajime, non lo so, se sono pronto.

Perché non possiamo fare finta che non sia mai successo, perché vuoi che ti dica, perché vuoi che ti parli se tanto sai che non posso cambiare?

Vuoi che sia diverso?

No, no, non è questo.

È...

− Sono pronto. –

I pollici spingono verso l'osso, il tessuto muscolare piange, la mia faccia si piega, la voce esce in un lamento di dolore.

Sale lungo tutta la fibra, la massaggia, ma fa male.

Fa...

− Perché, Tooru? –

Sento le lacrime riempirmi gli occhi.

− Perché cosa? –

− Perché ti sei ridotto così? –

Perché, tu chiedi.

Perché.

− Non lo so. –

I pollici arrivano fino alla rotula, i muscoli bruciano.

Deve far riassorbire l'acido lattico, so che deve farlo, e so che questo è l'unico modo.

Quel "non voglio che mettano le loro mani su di te", non era un discorso completo. Quello che Hajime voleva dire, quello che so anche io, è che non avrebbe permesso a nessun altro di vedermi così, contorcere perché mi sono ridotto una merda.

Il mio dolore, è suo. E non è suo perché me ne voglia fare, ma perché nessuno lo custodirebbe come fa lui.

− Perché se me ne vado ti fai male? –

Cerco di mascherarmi dietro una risata, ma viene tagliata via dall'ennesimo movimento sulla mia coscia.

− Io non sono un autolesionista, Hajime. –

Scuote la testa.

− Non c'è un modo solo per farsi male. E tu ti fai male e io non so come farti smettere, vorrei ma non credo di poterlo fare. Vorrei solo... capire. –

Sento le lacrime radunarsi sui miei occhi.

Fa male.

E non sono i muscoli.

Rimango in silenzio per secondi interi, mentre si dedica all'altra gamba nello stesso identico modo e ricomincia, paziente e calmo come si addice all'uomo che è.

− Perché sono ambizioso. –

− E perché sei ambizioso? –

Si ferma.

Mi guarda.

Sta piangendo, lui sta piangendo.

Non piange mai.

Alzo un braccio verso di lui, cerco di raggiungere il suo viso ma è troppo lontano, troppo distante da me, troppo fragilmente rotto perché possa rimetterlo a posto.

− Perché non sono abbastanza, Hajime. –

Singhiozza.

Non parla.

Mi dice "continua" con lo sguardo, ma di continuare, ho la forza?

Non ce l'ho.

Ma ce l'ha lui, ce l'ha di darmene un po' per farlo.

− Abbiamo perso quattro partite di seguito. L'allenatore ha detto che era la squadra, a non funzionare bene, ma se la squadra non funziona bene, la colpa è di chi coordina il gioco, e quello sono io. –

Cadono sul materasso, le lacrime di Iwaizumi.

Con un rumore sordo e appena percettibile.

− Ho pensato di provare ad allenarmi un po' di più. Ti avrei chiesto cosa fare, ma quando sono tornato a casa quel giorno, tu... non c'eri. So che non è colpa tua, ma tu non c'eri. E ho pensato che... −

Che cos'ho pensato?

− Ho pensato di poter dare di più. –

Tira su una delle mani, si asciuga la faccia con l'avambraccio.

− Dare di più vuol dire ammazzarti, Tooru? –

Stringo le labbra.

− Non esagerare. –

Preme di più con le dita su di me, ma quando sente che mi fa male, troppo male, molla immediatamente con una sequela di "scusa" sussurrati a mezza voce.

− Se non fossi tornato, Tooru, se non fossi tornato cosa avresti fatto? –

− Non voglio manco pensarci, cazzo, perché non saresti dovuto tornare? –

Tira su con il naso.

− Rispondimi, che cosa sarebbe successo? Dopo essere svenuto, cosa avresti fatto? –

Che cosa...

Che cosa avrei fatto, dice.

Io... non so cosa avrei fatto.

No, lo so.

Qualcosa di malvagio, dentro di me, lo sa bene.

− Avrei detto che avevo avuto un calo di zuccheri. –

− E poi? –

− Sarei tornato a giocare domani. –

Ha la voce umida, bagnata dal pianto, quando singhiozza ancora. Si sporge verso di me, sopra di me, massaggia l'addome, i muscoli stanchi della pancia.

− Perché non hai mangiato? –

− Perché non mi merito di essere attento, se non sono il migliore. –

A questa, si stacca guardandomi dritto in faccia.

− Non è essere attento, Tooru, è sopravvivere, cazzo! –

Sposto la guancia sul letto, lo zigomo che sfiora il lenzuolo e lo sguardo che vaga verso il muro.

− Volevo punirmi. –

− Per cosa? –

Sembra che mi strappi le parole di bocca, così.

Ma non lo sta facendo, no, non lo farebbe mai. Se dicessi che fa troppo male, smetterebbe, lo so, io lo so.

Perché mi faccio questo, eh?

Io non...

− Te l'ho già detto, Hajime. Perché non sono abbastanza. Quante volte vuoi che te lo ripeta? –

I pollici sono piatti mentre s'incastrano sulle anse dei miei muscoli.

Conosce, tocca quello che conosce.

− Non sto... non riesco a capire, scusami. Per me sei così tanto che non riesco a crederci. – risponde, più onestamente devastato che gratuitamente contraddittorio.

Oh, Hajime.

Mio piccolo, violento e passionale Hajime.

Tu vuoi la verità, non è vero? La vuoi così tanto.

Prendo fiato.

− Io sono debole. –

Dirlo è il dolore più grande.

Dirlo e riconoscerlo, riconoscere che la mia ambizione divorante sia solo il modo in cui il mio cervello reagisce a questa aberrante verità, è la cosa peggiore che possa provare.

− Alle medie, me ne sono reso conto. Mi allenavo così tanto, davo così tanto, ma non ero comunque il migliore. –

So che non lo ero.

So di non esserlo.

− Poi il liceo, e quelle sconfitte continue che non facevano altro che ricordarmi quanto fossi inutile e stupido, una dopo l'altra. –

Posso ancora sentire il sapore della delusione serpeggiarmi fra le labbra.

− E tutti si aspettano così tanto, da me, così tanto, che io credo di non poter dare. Io devo... ho bisogno di essere migliore, Hajime, perché non credo di poter andar bene così come sono. –

Le sue mani si fermano una volta ancora.

Le lacrime cadono sulla mia pancia nuda.

− Non mi merito tutto questo, cazzo, non me lo merito. Non mi merito la squadra e il gioco e tutte le cose che ho, perché non sono in grado di rispettarle. Non mi merito te, cazzo, che sei la cosa migliore di tutte, perché invece di amarti come dovrei fare non faccio altro che farti soffrire, farti penare e star male anche se vai via una settimana per lavoro. Sono un peso, e faccio di tutto per far finta di non esserlo. –

Un torrente d'acqua salata sulla mia pelle chiara.

Lo vedo caricarsi, arrabbiarsi, sempre di più, sempre di più.

Questo è il momento in cui capisci, vero?

Quello in cui dici "non è che forse ha ragione" e smetti di crederci anche tu.

Quello in cui...

− Tu chi cazzo pensi di prendere in giro? – è ciò che invece, sento.

In che...

− Pensi che sia io sia scemo? Pensi che non mi sia accorto del fatto che non sei perfetto, Tooru? Pensi che io non lo sappia, che fallisci anche tu? –

Non capisco.

Fa male, ma non capisco.

Cerco istintivamente i suoi occhi.

− Te lo ripeto, Tooru, tu chi cazzo pensi di prendere in giro? –

Io non prendo in giro nessuno.

Io...

− Questa immagine che dai di te, forse se la bevono gli altri. –

Penso che stia dicendo che...

− Non mi freghi, con le battutine e le cazzate. Io ti voglio per come sei, e ficcatelo bene in quella tua testa di cazzo, Tooru. Per come sei, nulla di più. Che cosa in più devi essere? Chi devi diventare? Tu puoi fare grandi cose, ma nulla toglie il fatto che mi sia innamorato di te per la persona che vedo, non per una messinscena che hai inventato per nasconderti. –

C'è... cattiveria.

Ma cattiveria buona, se ne esiste un tipo.

Non sono le parole accoglienti e dolci di una madre, le sue, non quelle comprensive di un amico.

Sono quelle violente di chi distruggerebbe qualsiasi cosa, anni di menzogne compresi, pur di dimostrare al mondo di avere ragione.

− Non deludi nessuno, cazzo, sicuramente non me. Mi hai mai visto deluso di te una volta? –

La domanda aleggia nell'aria come una minaccia.

Non è gentile.

Pretende una risposta.

E chiudo gli occhi bagnati di lacrime alla ricerca di una risposta ma non una, non una singola immagine attraversa la mia mente.

− Ti fai del male da solo perché pensi che gli altri vogliano tutto, da te, ma non è vero. E se le altre persone magari lo pensano, cazzo, a me non importa. Non posso dirti come essere il miglior alzatore del mondo, ma posso dirti che se ti permetti di dire un'altra volta che non ti meriti me, io ti giuro che ti ammazzo. –

Mi ammazza?

Mi...

− Tu che non mi meriti è la peggior stronzata che tu abbia mai detto. Tu c'eri, quando io stavo male, quando non riuscivo all'università, quando non mi prendevano a lavorare perché ero apertamente gay. Tu c'eri quando faticavamo a trovare casa perché non avevamo un soldo e quando l'unico paziente disposto a farsi toccare eri tu. Tu mi hai dato così tante cose, Tooru, che mi sembra una follia sentirti dire che non mi meriti. –

Io c'ero?

Io...

Ho fatto solo quel che sentivo di fare.

Stringo l'interno della bocca fra i denti, le mani di Hajime che smettono di toccarmi sulla pancia e mi prendono la faccia per avvicinarsi alle mie labbra.

− Io sono disposto a sopportare il tuo dolore, Tooru. Sono disposto a costringerti a mangiare, a tirarti via dal campo ad un'ora precisa, a prendermi tutte le tue frustrazioni e le tue incertezze. Rimarrei qui anche se volessi staccarmi la testa. Ma tu devi darmi la possibilità di farlo. –

Lui è disposto a...

− Non voglio vederti fare quella cosa di prima mai più. Tu hai idea di come mi sia sentito, quando ti ho visto cadere a terra nel bel mezzo di una partita? Sembravi morto, cazzo, morto. E vuoi dirmi che è stato tutto perché sei convinto di non potercela fare senza farti del male? –

Le nostre lacrime si mescolano, le sue sul mio viso e le mie che scendono dalle mie guance.

− Io non riuscirò mai a fare niente, Hajime, perché devi mentirmi? –

− Sei tu che menti, cazzo, sei tu! Perché non riesci a vedere la realtà? Eri un ragazzino in una prefettura del cazzo, in un buco sperduto del mondo, nessuno ti avrebbe mai dato una lira, e tu hai fatto il culo ad una marea di persone per arrivare dove sei. Tu non sei il migliore, non ancora, ma perché devi punirti quando tutto quello che hai collezionato nella vita sono solo successi? –

− Ma noi abbiamo perso per colpa... −

− Ti ricordi cosa ti ho detto quando eravamo alle medie? Visto che sembri ricordarlo come il periodo in cui è iniziato tutto, te lo ricordi? –

Me lo ricordo?

Se ci penso, ora, mi sembra solo di vedere un enorme buco nero di delusione e fallimento.

− Tu sei uno su sei, Tooru, uno su sei. Il dolore non è tutto tuo, lascialo andare. Avete sbagliato in sei, perché devi soffrire tu per tutti? –

Io... lo sto davvero facendo?

− E se quegli stronzi volessero anche dare la colpa a te, anche se volessero farlo, e allora dallo a me, lo prendo io, lo voglio io. Farei di tutto, pur di non vederti così mai più nella vita. –

Non credo che farsi urlare addosso sia convenzionalmente il modo di essere consolati.

Ma non lo vorrei, se fosse diverso.

Non lo vorrei.

− Io non posso distruggerti, Hajime. –

− Tu non mi distruggi, cazzo, non sono un bambino. Io lo so come sei fatto ed è vedere che ti odi che distrugge più di ogni altra cosa. –

Sposta il peso sugli avambracci piegati ai fianchi del mio volto, il suo naso che tocca quasi il mio.

Mi sento...

Rinchiuso addosso a lui.

E niente è mai stato così confortevole.

− Senti, ascoltami bene. Sai che cazzo è l'amore per me? Sai come lo vivo? –

Penso di...

No, voglio sentirlo.

Basta... assumere al posto suo cose che non posso sapere.

Scuoto la testa.

− È condividere, Tooru, condividere. Abbiamo condiviso così tanto, così tanto tutta la vita, e mi sono reso conto che di te non ero solo un amico quando ho iniziato a sentirmi speciale per ogni cazzata che volevi darmi, dalla tua gioia ai pianti torrenziali, tutto. Avere qualcosa di te, mi fa sentire speciale. Mi fa sentire amato. –

Amato?

Lui si sente... amato?

− Non devi avere paura di addossarmi responsabilità che non dovrei avere, perché le voglio. Voglio tutto, voglio tutto di te, cazzo. Non c'è niente che mi spaventi, se lo affrontiamo insieme. Ma non devi tagliarmi fuori, o non farai altro che far male ad entrambi. E io ti assicuro che sto male solo quando mi accorgo di quanto poco tu riesca ad amare te stesso. –

Le lacrime mi annebbiano la vista.

La rendono appannata e distante, non credo di riuscire a distinguere molto di ciò che mi circonda. Ma sento il calore, e la voce, il profumo.

− Non posso chiederti di rimanere se devi... −

− Puoi chiedermelo. Se la persona che amo ha bisogno che io rimanga perché non riesce a stare da sola, io rimango o la porto con me. Non decidere al posto mio che cosa cazzo sia giusto o sbagliato, lo so fare benissimo da solo. –

Trema di rabbia e per il pianto, contro di me.

Il suo petto è scosso da una miriade di sensazioni diverse.

Tiro su le braccia per schiarirmi la visuale e quando lo vedo è...

Io non credo di essere in grado di sconfiggerla, la mia ambizione.

Non credo di poterla mettere da parte.

Ma credo di... potergliene dare un pezzo, perché la tenga al posto mio.

− Non so se ci riesco. – dico, con un filo di voce.

I tratti del suo viso si addolciscono.

− Tooru, se devo amarti per entrambi, non ho paura di farlo. Non permetterò a nessuno di rovinare la cosa più bella che ho, nemmeno a te stesso. Se necessario, continuerò a proteggerti per tutta la vita. –

Le mani che riposavano ai lati del mio corpo, le tiro su per appoggiare sulle sue guance.

− Perché mi ami così tanto, Hajime? –

Sorride fra le lacrime.

− Perché c'è così tanto in te da amare. –

Così...

Tanto.

Io non mi sento non abbastanza, in questo istante.

Io mi sento... tanto.

− E non parlo della facciata simpatica che metti in giro con gli altri, o delle battutine, nemmeno delle tue fottute gambe lunghe o di quanto tu sia bello. –

Si abbassa, la fronte che preme contro la mia, il fiato spezzato.

Entrambi chiudiamo gli occhi.

− Parlo della persona che lavora sodo, che s'impegna e ama quello che fa, anche se a volte non ci riesce. Parlo di quella che è gentile con tutti, che tiene ai propri amici, che mi dà forza quando non ce la faccio, che mi aiuta ad essere migliore. –

Lui pensa che io sia così tanto.

− E se... succedesse ancora? –

"Che arrivi al punto di odiarmi", manca alla frase.

Ma lo sa.

− Tu hai bisogno di qualcuno che ti aiuti, Tooru, e la prossima volta la prenderai in un modo diverso. Tu puoi iniziare a sentirti meglio con te stesso solo se permetti a qualcuno di darti una mano. Troveremo un terapista, qualcosa del genere, e sarai così forte come non lo sei stato mai. –

Tiro su con il naso.

Un terapista, lui dice?

Forse...

− Io non sono forte. –

− Se credi che la forza sia vincere, allora no, Tooru, non lo sei. Ma penso che ammettere di non essere invincibile, sia essere forti, guardarsi in faccia e capire che da soli non si può fare tutto. Dammi la possibilità di darti una mano, ti imploro, rendimi partecipe di quello che provi. –

Renderlo... partecipe.

Dovrei renderlo partecipe.

Deglutisco la saliva.

− Non voglio che tu te ne vada mai più. Se torno a casa e ci sei, posso anche aver perso una stagione intera, non riesco a pensare di non meritare niente. Ma se non ci sei... i miei pensieri fanno troppo rumore. Però non voglio che tu viva solo appiccicato a me, non posso rubarti tutto. –

Sorride una volta ancora, staccandosi piano.

− Possiamo iniziare che rimango con te tutto il tempo che posso e tu provi a lavorare un po' su te stesso. Magari poi riusciamo anche a stare separati, non credi? –

Annuisco un po' goffamente.

− Pensi che ce la possa fare? –

− Io penso che tu possa fare tutto, Tooru. Se prendi le cose dal verso giusto, se lavori in modo pulito e corretto, tu puoi fare tutto. Ma non devi dimenticarti di te stesso nel mentre, o fallirai facendoti del male. –

Io non...

Non dico "no", alla domanda "te lo meriti?".

Dico che non lo so.

Perché c'è qualcosa, in quest'uomo, nelle cose che riesce a dire, nel modo in cui può e vuole porsi, che lo rende diverso da qualsiasi altra cosa.

Non so se sia l'amore, o lui stesso.

So che...

Non mi sembra di aver derubato.

Mi sembra semplicemente di avere la più grande delle fortune.

Scorro con le braccia fin dietro il suo collo, l'interno dei gomiti che lo spinge verso di me.

− Tu sei una persona meravigliosa, Hajime. Sei... incredibile. –

Ticchettano contro il mio viso, non scendono più come un torrente, le lacrime dalle sue guance sulle mie.

Sono verdi, attorno all'iride, i suoi occhi.

Scuri e severi.

Sono sempre minacciosi, come lo è lui, dopotutto. Minaccioso e rabbioso e comunque la persona più dolce che esista.

− Sono solo molto innamorato, molto spaventato e molto felice di essere qui con te in questo momento. –

− L'ho detto, incredibile. –

Non ricordo mai come sia baciarsi piangendo.

Non piangiamo mai tutti e due insieme, come ho già detto, Hajime non piange mai.

Ma sa di sale e disperazione, quando appoggia le labbra sulle mie, sa di "non voglio che tu scompaia" e "non ti lascerò mai andare", quando preme delicatamente la mia testa indietro con la sua.

E io so di "non voglio andarmene via da te" e "non lasciarmi scomparire", mentre apro la bocca per sentire qualcosa che ho sempre avuto e che continua comunque a valere così tanto per me, così tanto che neppure riesco ad immaginarmi senza.

Fanno male, le mie braccia, quando gliele stringo attorno al collo.

Ma non fa male il cuore che mi batte contro il torace, perché si sente più leggero, come se qualcuno gli avesse tolto una morsa d'acciaio che lo faceva soffrire.

Mi sento...

Non perfetto, non meritevole, non corretto, ancora.

Mi sento speranzoso.

Mi sento persino un po' stupidamente ottimista.

La lingua di Hajime s'intreccia con la mia, la sua voce risuona contro di me, le mani si cercano e i corpi si vogliono e...

Stringe una mano sul mio fianco, forte come lo fa quando desidera la parte più carnale dell'amore che condividiamo.

Fa male, e invece di fingere che non lo faccia, attraversa le mie labbra un verso di puro dolore.

Hajime si stacca.

Ha le palpebre a metà, gli occhi arrossati e gonfi, il naso tinto dalla foga del pianto.

− Merda, mi sono dimenticato che... −

Non voglio le scuse.

− Continua. – chiedo, ma scuote la testa.

− Col cazzo, sei un rottame. –

Provo a piegare la testa, ma anche il collo soffre, e lo vede.

− Per favore? –

Di nuovo, è un "no".

Anzi, si allontana da me quel che basta per evitare che la tentazione lo pervada, si arruffa la faccia con i palmi delle mani e sembra rinsavito, quando mi guarda l'istante dopo.

− Tu hai bisogno di una settimana di pausa. Ti finisco la fisioterapia, ordiniamo una pizza, prendi un analgesico e andiamo a dormire. Domani chiamiamo la federazione e sentiamo degli psicologi sportivi. Quando stai meglio facciamo sesso. Ok? –

Me lo chiede come se potessi contraddirlo.

Mi spaventa la "settimana", ma l'ambizione che ho separato per darla ad Hajime, questa volta non vince sulla voce che chiede pausa in vista di tempi migliori.

È come se il buonsenso avesse la meglio, a dirmi che se non sono in forma, il mio gioco sarà penoso.

Annuisco.

− Va bene. –

Sorride solo con un angolo della bocca, una minuscola fossettina che s'intravede quando fa così.

− Bravo il mio Tooru. –

Mi sento bravo, mi ci sento davvero.

Si risistema per ricominciare a mettere a posto i miei muscoli, prende un braccio fra le mani che sono grandi e ruvide ma così gentili.

− Hajime? –

− Mh? –

Io...

− Per me l'amore è che ti prendi cura di me anche quando non riesco a farlo. –

Tira su la parte di me che ha fra le dita, mi bacia il dorso della mano.

− E allora non credo che smetterò mai di amarti. –

Non sono guarito, dieci giorni dopo, quando esco dallo studio di una psicologa nel centro di Buenos Aires.

Non lo sono.

Non posso esserlo, non... ancora credo.

Ma come ho detto mentre piangevo di dolore sul letto di casa mia con il mio ragazzo addosso, non è la guarigione, che mi rende più sereno.

È la speranza.

Se stai male ma credi di poter star meglio, è diverso.

Ho smesso di avere male due o tre giorni fa, forse, ma non sono tornato a giocare.

Ricomincio domani.

So che non è quello che ci si aspetterebbe da qualcuno che è arrivato al punto di svenire per giocare e migliorarsi, ma è quello che ci si aspetta da chi si prende cura di se stesso.

Hajime ha preso una settimana di ferie.

È stato come...

Essere in vacanza insieme, credo.

Ero troppo felice e tranquillo, a fare colazione con cibo preparato da qualcuno che sa farlo, a farmi toccare e coccolare tutto il giorno, per dire "basta".

E sono contento, in piccola parte contento, anche di pensare che mi dispiace tornare alla routine.

Mi dimostra che qualcosa vale più dei risultati.

Anche se è solo una.

La psicologa dice che ho la sindrome dell'impostore, che non riesco a riconoscere i miei meriti perché li attribuisco a fortuna o errori altrui, che è una cosa che succede alle persone di talento.

Dice che non sono solo.

Che... lo faccio solo in un modo un po' più plateale degli altri.

L'ultima cosa che ha mormorato, con un tono di studio e comprensione, mi è piaciuta.

Mi risuona in testa mentre chiudo la porta di vetro dello studio in cerca di una macchina che conosco.

Non sono vestito in nessun modo appariscente, ho i pantaloncini che metto a casa e una maglietta di Hajime, gli occhiali da sole tirati sulla testa. Ho messo le Converse glitterate perché non ho resistito, ma per il resto ho pensato che fosse un bene spogliarmi della mia vanità per parlare di me senza filtri.

Vedo Iwaizumi.

Sorrido mentre corro verso la macchina, apro la portiera e mi butto sul sedile del passeggero.

Sarebbe ironico e divertente, se fossi entrato nella macchina di uno sconosciuto, lo ammetto, ma mi va di fortuna ed è davvero Hajime, quello seduto di fronte al volante che si mordicchia le dita in attesa.

Non si spaventa ma sobbalza.

− Schifokawa! – esclama, vedendo la mia brutta faccia comparirgli di fronte di botto.

Sorrido a trentadue denti.

− In persona! –

Vedo lo spavento scomparire in favore di una risata appena accennata.

Si sporge dal posto del guidatore verso di me e faccio la stessa cosa, per baciarlo.

− Da quanto aspetti? –

− Venti minuti. –

Mi sembrava di avergli detto che sarei uscito a quest'ora, e allora...

Iperprotettiva testa calda.

Strofino il naso contro il suo, lo bacio ancora e lo lascio andare qualche istante dopo.

− Annoiato? –

− Nah, ho chiamato Mattsun per passare il tempo. –

Indietreggia sul sedile, io mi giro per mettermi la cintura.

− Che ha fatto? –

− Lui e Makki hanno pensato che fosse un'idea geniale ridipingere casa, solo che Mattsun è daltonico e Makki era fuori per l'università. Hanno le pareti rosa confetto. –

Rido.

− Sono due menti brillanti. –

− Verissimo. –

Lo osservo girare la chiave nel quadro, prendermi la mano e metterla sotto la sua nel cambio come fa sempre.

Sono gesti piccoli, quelli quotidiani, ma mi scaldano il cuore come niente.

Esce dal parcheggio e imbocca la via di casa.

Dopo qualche istante di silenzio, tiro giù lo specchietto e mi guardo i capelli sulla superficie appannata della plastica che non abbiamo avuto cuore di togliere.

− Non mi chiedi come è andata? –

− La terapia è tua, Tooru, non devi mica rendermi conto. –

Sorride e vedo il profilo del suo viso con la coda dell'occhio.

Incredibile, Iwaizumi, è una persona incredibile.

Schiarisco la voce, tiro su lo specchietto con una botta e appoggio la spalla sul sedile per girarmi verso di lui. So che non può voltarsi per incontrare il mio sguardo, ma io posso vederlo e mi piace.

− È una mezza pazza, mi piace un sacco. Mi sembra di essermi tolto un peso, anche se non le ho detto niente di serio. – inizio.

Annuisce, ridacchia al mio commento.

− Mi ha detto che possiamo vederci un paio di mesi e poi decidere se mi trovo bene, se no mi darà qualche nome di qualcun altro che potrebbe darmi una mano. –

− E tu credi di voler cambiare? –

Mi mordo l'interno della bocca.

− Non lo so, credo di dover fare un po' di esperienza, ancora. Però mi è piaciuto, oggi. –

Mi lancia un'occhiata veloce, stringe la mano sopra la mia.

− Sono felice, davvero. –

Non è una frase comunicativa, ma il modo in cui la dice ha un significato ben preciso.

− Ha detto che mi brillano gli occhi quando parlo di te. –

− Davvero? –

Annuisco.

− Mi ha chiesto cosa ci fosse che mi avesse convinto a provare la terapia, e non sono tanto riuscito a rispondere. Poi però quando mi ha chiesto le cose belle che volevo tenere nonostante tutto, è stato così facile parlare di te. –

La macchina si ferma ad un semaforo rosso, Hajime si gira verso di me e si sporge per arruffarmi i capelli.

Diventa verde l'attimo seguente, ricomincia a guidare.

− Mi ha chiesto che cosa volessi ottenere dalla terapia e ho risposto che volevo imparare a vedermi come mi vedi tu. –

È la verità, l'unica verità.

− Sono fiero di te, Tooru. –

− Sono fiero anch'io, Iwa-chan. A momenti alterni e poco poco, ma un po' sì. –

Sembra scuoterlo, questa cosa che gli dico, e passa con la mano sulla mia coscia stringendola appena.

Hajime è una persona protettiva, si vede da come si comporta, come si atteggia e si pone con me. È una di quelle che tiene tanto a chi ama, che mette sempre in prima linea se stesso per darti qualcosa.

La mia ambizione gorgoglia sul fondo dello stomaco.

Ma la respingo pensando che il modello della persona che vorrei essere non è quella per la quale mi sono fatto del male.

Io vorrei essere...

Come Hajime.

Vorrei essere così forte, come lui.

E credo di poterlo essere, perché se ha scelto me, forse un motivo c'è.

− Domani torno a giocare. – dico, anche se lo sappiamo entrambi.

Fa "sì" con la testa.

− Sei pronto? –

− Credo di esserlo, anche se mi mancherai. –

− Mica me ne vado, Merdakawa. –

Sbuffo.

− Sì, ma farai la fisioterapia anche agli altri e io voglio le tue mani tutte per me, Iwa-chan. –

Ridacchia, imbocca l'uscita per l'appartamento che condividiamo.

Non viviamo in città.

Stiamo fuori.

− Non ti preoccupare, prendo a schiaffi solo te. –

Alzo un sopracciglio.

− Perché devi rendere tutto così sessuale? –

− Non era sessuale, pervertito. –

Ridiamo insieme, le case che scompaiono e le transenne autostradali che si aprono ai nostri lati.

Cade di nuovo il silenzio, ma è un silenzio pacifico.

Un silenzio comprensivo.

Squadro il viso di Hajime che guida, concentrato e presente allo stesso istante.

Bello, Hajime, così bello.

Non credo ci sia nulla di più bello al mondo.

Nulla di più incredibile.

− Hajime, accosta. – sento chiedere dalla mia voce prima di riuscire a filtrare il pensiero in maniera cosciente.

Si gira un attimo verso di me, poi torna sulla strada.

− Eh? –

− Accosta. C'è la vietta tra gli alberi a sinistra, quella dove abbiamo fatto sesso un paio di mesi fa. Accosta. –

Arruffa le sopracciglia.

− Non possiamo arrivare a casa? –

Scuoto la testa.

− Per favore. –

Sbuffa, ma accondiscende con un semplice scuotersi delle spalle.

Gira il volante a sinistra, rallenta, infila la macchina sullo sterrato della via chiusa, le luci iniziano a scurirsi filtrate dagli alberi.

− Che cos'hai in mente? –

Non rispondo, aspetto che si fermi.

Quando gira la chiave e spegne il motore, mi sporgo verso di lui e infilo la mano sotto il sedile per mandarlo indietro completamente.

Gli salgo in grembo l'istante dopo, le gambe aperte attorno alle sue cosce e il viso che pende sul suo.

− Voglio che mi tocchi, Hajime. –

− Hai fretta? –

Scuoto le spalle.

− Di stare con te? Sempre, Iwa-chan. –

Si lecca le labbra secche.

− Folle. –

Non è un "no". Non lo è quasi mai, so che non lo è quasi mai.

Lo è, ho imparato, quando cerco di sfiatare la mia sofferenza usando l'aspetto fisico che mi rende forte nonostante non lo sia.

Non lo è quando m'innamoro una volta ancora di qualcuno che conosco e amo da anni.

Indietreggia con la testa quando la chino verso di lui, mi bacia con le labbra aperte e tranquille. C'è tanta foga, in noi, quando facciamo questo genere di cose, di solito.

Ma...

Amo anche la calma.

È così forte, il contrasto fra il pregarlo di toccarmi nei sedili della macchina perché non riuscivo ad aspettare fin casa, e la dolcezza con cui mi tocca.

Non mi fa più male nulla.

Non fa male.

Non fa male niente, quando mi tocca Hajime.

Infila le mani sotto l'orlo della maglietta larga, stringe forte la pelle chiara, scorrendo sulla vita e sul costato, sulla spina dorsale.

Io non faccio altro che baciarlo e baciarlo ancora, intrecciandomi a lui.

− Vuoi farlo qui? –

− Voglio farlo sempre. –

Credo sia una risposta vaga, ma Hajime la registra correttamente come un "sì". Alza il mento verso di me, la mano che sbuca dal retro del colletto e mi stringe i capelli, le gambe che scivolano nello spazio del cambio.

− Tooru, Tooru. –

Scorre dalle mie labbra al collo, bacia piano senza mordere e senza ferire, con dolcezza come sta facendo tutto.

E se di norma gli chiederei la violenza, ora voglio essere custodito.

− Non voglio andarmene da casa, domani. – mi lagno, premendo la sua testa contro l'incavo della mia spalla con una mano aperta.

− Torni da me, tanto. –

− Sempre? –

Sento la lingua che traccia una striscia umida dalla clavicola alla base della mascella.

− Sempre. –

Alza la mia maglietta e mi passa l'orlo perché lo tenga fra i denti, quando preme le labbra contro il mio sterno, contro il pettorale sinistro, contro il battito veloce del mio cuore.

− Sei così bello, Tooru, cazzo. –

"Bello" è stato per me sempre un complimento fatto di lame acuminate.

Mi ha sempre fatto pensare che fosse una superficiale riduzione di quello che volevo essere, che fossi "bello" ma non abbastanza bravo per essere qualcosa di più.

Ma il "bello" di Hajime è un genere diverso, di "bello".

Mi fa sentire tutto e non una cosa sola, mi fa sentire... prezioso per davvero.

− Hajime... −

− Ti amo, Tooru, ti amo, cazzo. –

Sento le mani che salgono verso l'alto, che si stringono sulla vita in un modo doloroso ma dolce allo stesso tempo.

Mi preme in basso contro di sé, e la mia voce si piega in un gemito.

− Hajime! –

− Ti amo, ti amo, ti amo. –

Succhia un capezzolo fra le labbra, la mia pelle si tende e la schiena inizia ad inarcarsi indietro.

Quando il mio gemito somiglia più ad un lamento che ad un semplice versetto, si stacca. Sa quando inizia a salirmi ed avvamparmi nelle vene, l'eccitazione, lo sa e conosce il mio corpo.

Si sporge oltre me e sgancia il vano portaoggetti per tirarne fuori una bottiglietta mezza usata di lubrificante.

− Pensavo che disseminare lubrificante ovunque fosse una cazzata, ma avevi ragione. –

Ridacchio con i denti ancora chiusi sulla maglietta.

− Paese che vai, cazzo che trovi. – rispondo, facendo perfettamente leva sulla mia ampia conoscenza linguistica.

Mi schiaffeggia la coscia.

− Sei un coglione. –

Annuisco, perché è la verità.

Torna in una posizione normale, si sporge per baciarmi prima di attaccare le dita sull'orlo dei miei pantaloncini.

− Una gamba alla volta, ok? –

Alzo il primo ginocchio, lascio che l'elastico si tenda quando ce lo fa passare oltre, poi procede con l'altro.

Rimangono appesi ai polpacci.

C'è qualcosa di bello nelle sue dita scure che stringono il mio fianco magro, qualcosa di contrastante e affascinante nelle carnagioni che si mescolano.

− Vieni qui. – chiede, aspettando che appoggi la fronte contro la sua spalla.

Mi giro con il viso verso il suo collo e bacio la pelle tesa di quella zona, mentre apre il lubrificante e ne spreme un po' fra le dita scaldandolo coi movimenti dei polpastrelli.

Mi aiuta con un braccio ad indietreggiare con il bacino di modo che sia più esposto, poi avvicina la mano a me.

Abbiamo fatto sesso... ieri, credo.

Non dovrebbe essere doloroso.

Non lo è.

È delicato.

− Bravo, Tooru, con calma. – mi sussurra all'orecchio, quando indietreggio sulle sue dita.

Accarezza la mia schiena con movimenti ampi e delicati, dolci persino.

− Posso? –

Annuisco contro la sua spalla.

Non è la solita cosa che facciamo, non è rabbia e violenza e sudore.

Credo che l'equilibrio sia anche questo.

Le sue dita entrano ed escono da me con calma, il rumore umidiccio del lubrificante che riempie l'abitacolo e il mio fiato corto che batte contro la spalla di Hajime.

Apre le dita fra di loro, le tira fuori e poi dentro un paio di volte, poi sono a fondo, più a fondo, e premono dentro di me.

Non cerca, sa.

Sa come sono fatto.

Sa tutto.

Nessuno sa di me più di Hajime.

La mia voce chiama il suo nome piano, il mio bacino spinge indietro e cerca più contatto, più frizione.

− Piano, piano, Tooru. – ripete, cercandomi con lo sguardo.

Annuisco.

Lo bacio piano, il cuore che mi batte in gola mentre continua a prepararmi lentamente, i gemiti che rotolano direttamente sulla sua bocca.

Ho le palpebre pesanti, stanche, ma mi sento a mio agio, mi sento abbastanza, fra le braccia di Hajime, mi sento amato.

Vorrei che mi stringesse fino a farmi scomparire, vorrei che potesse prendere tutto di me e non lasciarmi più nulla.

Ma non è possibile.

L'unica cosa che possiamo fare è...

Condividere.

− Basta, Hajime. – mi lagno.

Aggiunge un terzo dito.

− Non voglio farti male, domani devi giocare. –

− Non sono mica fatto di vetro. –

Le spinge più a fondo con un movimento un po' più brusco del solito, la mia schiena s'inarca da sola e la voce non riesce a rimanere dritta.

− Sì che sei fatto di vetro. –

Non sono...

Delicato.

Forse lo sono, invece.

Forse posso esserlo e non esserlo, forse sono delicato e non lo sono, forse...

Continua a mormorarmi complimenti all'orecchio mentre prepara il mio corpo più che attentamente.

Quando toglie le dita, ho il fiatone, il torace che si alza e abbassa spasmodicamente, la vista annebbiata.

So che apro la cintura con le dita che tremano, la slaccio e abbasso la zip di Hajime di fretta.

Mi aiuta a sistemare i fianchi verso di lui.

− Domani mi lavi la macchina. – borbotta, nell'attesa straziante a cui mi sottopone tutte le volte, dolce o meno, probabilmente solo per gustarsi di più il momento successivo.

− Come vuoi, come... −

− Ti amo, Tooru. – ridice l'ennesima volta, sorridendo, prima di sistemare il mio bacino in linea con il suo e abbassarmi su se stesso.

È...

Ricongiungersi, forse.

Rimettersi in una condizione in cui non si sa più cosa sia reale e cosa no.

Aprirsi e farsi accogliere, credo.

− Cazzo! – dice la mia voce quando la testa mi cade appena all'indietro.

Sorride con metà del volto, Hajime, prima di farmi appoggiare la schiena sul volante e prendermi i fianchi fra le mani.

− Perfetto, Tooru, perfetto per me. – sbotta fra i denti.

Mi tira su, poi giù di nuovo, i movimenti delicati ma profondi, la sensazione del suo corpo che riempie il mio più forte di qualsiasi altra, più dei dubbi, più delle fragilità o delle ansie.

− Hajime... −

− Tu sei fatto per me. – ripete.

E potrebbe essere una frase idiota, una di quelle cose che qualcuno ti dice tanto per, se solo non fosse Hajime, a dirlo.

È come se volesse darmi un posto nella sua vita.

Come se volesse dirmi quanto sono la sua perfetta metà.

E non mi sentirei così amato, se non lo dicesse.

Mi aggrappo alla portiera quando le spinte si fanno più decise, ed egualmente mi sento sbalzato e tremante sotto l'energia che mette nel dimostrarmi quanto mi ami.

Ho le ginocchia molli.

Accompagno i suoi movimenti spingendo contro di lui, la testa che cade indietro e il fiato che mi manca nel petto.

− Così, bravo Tooru, bravo, bravo, bravo... −

− Hajime! –

Mi scaldo, mi sento caldo e mi sento come se stessi ribollendo di così tante cose che non posso più negare o trattenere o privare a me stesso.

Potrei anche punirmi per tutta la vita, anche odiarmi così tanto da voler scomparire, anche rifiutare l'aiuto che il mondo prova a darmi, ma so che fallirei quando vedo come mi guarda.

Non posso resistere ad Hajime, e non posso resistere al fatto che il suo modo di amarmi sia solo rendermi felice.

Non avermi, non possedermi.

Rendermi... felice.

− Ancora, ancora, Hajime, ancora, cazzo! – mi sento dire con la voce rotta e un po' troppo alta per il luogo non esattamente privato in cui siamo.

Mi tira verso di sé.

A mezz'aria, con le bocche fuse e i fiati che si mescolano, a respirare la stessa atmosfera calda e seducente che ci scorre indosso.

− Ti amo, Hajime. – rispondo, con così tanta convinzione, così tanta che...

− Tooru, cazzo. –

− Ti amo, ti amo. –

Io non credo...

Non credo che sarei felice se non fossi innamorato.

E credo che un certo tipo di amore, quello adulto, dovrebbe essere più maturo e distaccato, più consapevole.

Ma il mio è così, ed è così perché c'è così tanto in me da mettere a posto.

L'amore che provo è totalizzante.

Credo di poter dire con sufficiente certezza, che mi salvi la vita ogni istante.

Le cosce iniziano a bruciare per lo sforzo, le gambe a tremare e la schiena a cadere indietro.

Le braccia solide di Hajime mi stringono e muovono assieme, la sua voce mi chiama e la mia chiama lui, si mescolano nell'aria e intrecciano assieme.

− Dentro di me. – è quello che mugugno, con la bocca impastata dalla fatica e dall'ebbrezza.

− Sicuro? –

Spalanco meglio le gambe, il movimento diventa più completo, più profondo.

Incontra il mio bacino con il suo.

− È il posto in cui devi stare, Hajime, dentro di me. –

La sua voce è più gutturale, la mia più ariosa.

Veniamo insieme, con i finestrini che si appannano e l'orgasmo che ci scuote, con i cuori che battono forte l'uno contro l'altro e le labbra appiccicate fra loro, l'enfasi di quella che sembra nulla più di una sveltina che ancora serpeggia nel corpo.

Non è finita.

Ne voglio ancora.

Ma aspetterò di essere a casa, per chiederlo.

Hajime si riprende con grandi respiri e la testa contro il mio sterno, le braccia che tremano contro di me e la stretta di ferro sui miei fianchi.

Non sono i miei occhi a brillare quando parlo di lui, inizio a credere.

È lui a brillare e basta.

− Prendi... i fazzoletti. – borbotta col fiato mozzato.

Patisce più di me la fatica sessuale, soprattutto se lascio fare la maggior parte del lavoro a lui.

Gli accarezzo la fronte e bacio la punta del suo naso, prima di sporgermi verso il vano portaoggetti e rimettere il lubrificante dov'era per prendere le salviettine.

Ne passo una sulla mia pancia, una sulle macchie che hanno sporcato la sua maglietta e una dietro le cosce, su me stesso.

Tremo a toccarmi, sono sensibile, ma lo faccio lo stesso.

Iwaizumi è sufficientemente padrone del suo corpo per rimettermi in ordine i pantaloni, non per chiedermi di spostarmi.

Lascia che io rimanga sulle sue gambe ancora per un po'.

In silenzio.

Solo noi due.

Come dev'essere e come sarà sempre.

Tiene la fronte contro la mia e lo sguardo basso, le mie mani fra le sue.

− Sai che cosa mi diceva sempre mia madre? – mormora, ad un certo punto.

Sorrido.

− Tua madre è filippina, Iwa-chan, non ho mai capito niente di quello che diceva. – rispondo, e ridacchia con me.

Il sorriso si affievolisce un pochino, poi, e lo sguardo rimane basso.

Ha le dita intrecciate fra le mie.

− Diceva sempre che le cose folli vanno fatte durante i giorni di tempesta, che tanto c'è così tanto casino che nessuno si accorgerà che le stai facendo. –

Annuisco piano, anche se non capisco il punto.

− Tu sei... in un giorno di tempesta, credo. –

− Sono in un giorno di tempesta, sì. –

Le parole non escono, rimangono chiuse nella sua gola prima che la schiarisca per riprendere a parlare.

− E quindi forse dovremmo fare una cosa folle. –

Sento gli angoli della mia bocca sollevarsi da soli.

− Potremmo scappare via insieme per un mese, in effetti. –

Scuote la testa.

Hajime... trema.

Trema e...

− Io voglio fare una cosa folle con te. – ripete, come se non l'avesse già detto.

Lascia la mia mano.

Lo guardo in viso per trovarlo con gli occhi dolci ma pieni di ansia, un po' intimoriti e un po' affezionati.

Quando sento le sue dita sulle mie, stanno alzando il mio palmo verso l'alto.

Chiude le mie mani nella sua stretta.

C'è qualcosa che mi ha dato.

Ma non riesco a vederla.

− Stasera andiamo a cena e lo faccio meglio, te lo prometto, ma questo è il momento in cui io lo chiedo a te da solo. –

La cosa che ho in mano ha la forma di...

− Tu sei un disastro, Tooru, sei davvero un disastro. Sei rumoroso e quando non sei triste sei sempre irritante. Abbiamo una quantità di mobili rosa in casa che fa imbarazzo e se penso a tutte le cose che mi hai fatto fare con la scusa che faceva parte della tua estetica del personaggio, mi vorrei picchiare da solo. –

Una scatolina.

− Ma sei anche la persona migliore che conosca, la più dolce, la più forte, la più divertente e la più vivace. Lo so che pensi di non esserlo, che pensi di non valere niente, che hai bisogno di calma e aiuto e che forse sto facendo una cosa di fretta quando dovrei aspettare che tu stia meglio. –

Mi si mozza il respiro in gola.

− Ma è la cosa giusta da fare. È la cosa giusta perché io ti amo tantissimo, voglio vivere con te il resto dei miei giorni e perché durante tutto quello che affronterai non voglio che dimentichi nemmeno un istante quanto tu sia importante per me. –

Io...

Apre le mie mani.

Non sembrava una scatolina, era una scatolina.

Di velluto.

E l'aprirei per guardare quanto brilla l'amore di Hajime, ma non ci riesco, perché il mio corpo non riesce a stare fermo.

− Io voglio che tu diventi mio marito, Oikawa Tooru, stupido idiota amore della mia vita. –

Il mio cuore si ferma.

Me lo merito?

Ma sai una cosa, Tooru? Non m'importa, se te lo meriti. Non è importante, non è il punto, non è la cosa che conta.

Non me ne frega un cazzo, se me lo meriti o meno.

Non m'importa.

Perché tutto quello che riesco a provare ora è euforia e calore e una gioia così sfrenata che non sapevo di poter sentire in me.

Scoppio a piangere contro il petto di Hajime che mi stringe forte e bacia i miei capelli.

Ripeto "sì" così tante volte che mi finisce la voce in gola.

Singhiozzo e dico di sì, dico che lo voglio, dico che lo amo così tanto, così tanto.

Perché è vero, perché è la persona più incredibile che esista e l'unica che sia fatta per me.

E anche perché, alla fine, mi rendo conto di una cosa.

Non fa più male.

Niente fa più male.

L'amore, non può farti male.

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

⇉❃➶ note :: NON CHIEDETEMI DA DOVE SIA USCITA PERCHE' NON NE HO IDEA NEPPURE IO, vi dico solo che ci ho pianto due giorni e che non credo, escluso atsumu, di essermi mai impersonata tanto in uno dei miei personaggi. è stata complessa e non ho inserito il solito sesso kinky delle mie iwaoi perchè non avrebbe avuto senso, (cercaste iwaoi più spinte ne ho scritte ben TRE le trovate nell'indice), so solo che è uno dei miei lavori preferiti e che spero piaccia a voi quanto piace a me.

per il resto, spero che stia andando tutto bene, che il vostro rientro a scuola non sia stato traumatico (io ricomincio con l'uni il 27 sono ancora in vacanza) e che vi mando un mega bacino.

love you, mel ;D

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