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𝚘𝚝𝚑𝚎𝚛 𝚠𝚘𝚛𝚕𝚍𝚜 𝚝𝚑𝚊𝚗 𝚝𝚑𝚎𝚜𝚎

⟿ ✿ ship :: DabiHawks

➭ ✧❁ SMUT alert :: "Un folle che fluttua nell'aria."

➥✱ song :: "OTHER WORLDS THAN THESE", STARSET

⤜⇾ parole :: 8.717

➸★✺ disclaimer :: sono correntemente al capitolo 247 del manga, per cui il fatto che Dabi sia un Todoroki è per me ancora solo una probabile ipotesi, nulla di più. Vi prego di non fare spoiler, ily.

➠♡༊ written :: 04/04/21

⧉➫ genre :: introspettivo, hurt/comfort, fluff

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

Ci sono cose che sembrano finte.

Cose che non mi piacciono, cose che non voglio fare e faccio per forza.

Ce ne sono altre che in fondo in fondo quasi mi diverto a fare, ma che la routine ha reso piatte e monotone nella loro ripetizione inutile, altre ancora che mi lasciano indifferente.

Ho sempre avuto quest'idea, dettata forse dalla consapevolezza che il mio cervello lavora in modo totalmente lineare, che le cose che ti piacciono, ti fanno formicolare la pelle e ti emozionano nel profondo del cuore, sono quelli che sai che non puoi avere sempre.

Quelle un po' sbagliate, quelle che sono fuori di testa e che ti fanno sentire in una bolla di scelta soltanto tua.

Che poi la scelta non la fai per davvero, è solo che sei convinto di scegliere uno sbaglio da cui invece sei dipendente, ma ragionare non è mai stato il mio forte.

Forse è un processo mentale automatico, forse la mia stessa volontà.

Alla fine, chi se ne frega?

Cioè, insomma, e falle e basta le cose, Keigo, prima di impallarti nei processi di un cervello che manco sei sicuro di avere.

Tornando al filo principale dei miei stupidi pensieri, quella cosa che faccio sapendo di non doverla fare, quella che mi fa sentire eccitato e infiammato e mi dà quella sensazione urticante e spasmodica dell'emozione, è Toya.

Toya Todoroki, alto, stronzo, insopportabile e freddo come il ghiaccio, bello di una bellezza rotta e violenta.

Dabi.

Non mi piace chiamarlo in quel modo.

Mi fa sentire distante e uguale agli altri.

E tra tutte le cose inutili che sono stato, fra le fumose imitazioni dell'immagine di un eroe perfetto che non sarò mai, uguale agli altri è una definizione che decisamente non sopporto.

Sarò un folle egocentrico affascinante e angelico idiota, ma non sono uguale agli altri.

Dovrei smettere di perdermi nei miei stessi discorsi.

Ho la sensazione di aver perso di nuovo il filo.

Ok, Toya. Stavamo parlando di Toya.

Toya è una cosa sbagliatissima.

Cioè, parliamone. È sexy, perché che sia sexy penso lo sappiamo proprio tutti, però è anche un omicida. E un Villain.

Però ha qualcosa che mi attira lo stesso.

Quando è iniziata la storia dell'indagine sotto copertura, non ci avevo pensato.

Che sarebbe potuta finire così, insomma.

Però poi eravamo noi due, ed era notte, ed eravamo proprio dietro quel motel osceno dove non ti chiedono manco la carta d'identità per il check-in, e lui sorrideva in un modo davvero seducente.

Diciamo che ci siamo un po' saltati addosso.

Letteralmente.

Toya Todoroki morde.

E Toya Todoroki ha le mani violente, lo sguardo fiero, il corpo teso e le labbra strette, quando ti mette al tuo posto.

Ha la voce bassa.

Il sesso è stata la cosa che mi ha spinto a crederci, all'inizio, che magari fosse qualcosa di diverso dalla banale immagine del cattivone tutto misteri e occhiate a metà.

Ho fatto molto sesso, nella mia vita.

Se sei un ragazzino bello e disperato, è l'unica cosa che ti rimane.

Cercare di riempire un vuoto che ti mangia dall'interno con le attenzioni effimere di chi ti adora, anche se per poco, anche se da fuori.

Ci sono persone brave e persone incapaci, a fare sesso.

E tra loro c'è chi lo fa con amore e chi con violenza, chi con disperazione, chi con una venatura di muta tristezza e chi come se nemmeno volesse farlo.

Toya è un po' tutto e un po' niente.

Ha la violenza sfacciata di chi sa di avere le carte in regola, di chi sa cosa fare.

La voce bassa e minacciosa di chi conosce il suo posto, ma la tristezza di chi sa che finirà tutto.

C'è un amore muto nei gesti, impercettibile ma presente.

Ti fa sentire come se dovessi ringraziare il cielo che lui sia lì, a sprecare il suo preziosissimo tempo per te, piccolo e indifeso di fronte alla magnificenza strafottente di chi è sicuro di sé, mascherato e mescolato in una patina disperata di contatto fisico.

Mi sono innamorato prima del modo in cui mi toccava, che di lui.

Dei segni scarlatti che le sue mani violente lasciavano sui miei fianchi.

Poi, poco a poco, è arrivato anche il resto.

E quando dico "poco a poco" intendo quasi pochissimo a pochissimo.

Gocce?

Nemmeno.

Minuscoli granelli di umanità, polvere trasparente che danza nel riflesso caldo della luce, indizi criptici da infilare in uno schema generale.

Ed è di questa umanità, che ultimamente, cerco di nutrirmi.

Alla fine io e Toya abbiamo deciso che i motel non erano pratici per le nostre scappatelle notturne. Quando hanno iniziato a diventare tante, frequenti e spasmodiche, ho iniziato a pensare che per quanto scegliessi le peggiori bettole della periferia, comunque le mie ali, qualcuno le avrebbe riconosciute.

E non potevo permettermi.

Per cui, scelta più plateale e più intelligente, casa mia.

Sotto gli occhi di tutti.

Nessuno sano di mente porterebbe il proprio malvagio amante notturno a casa propria, no?

Ecco perché lo faccio.

Toya non è un idiota, comunque.

Non è che viene da me vestito con quella sorta di cappotto di pelle che indossa quando "lavora", né con le cicatrici delle ustioni scure perfettamente in vista, anzi.

Certe volte appare da una sorta di portale melmoso nero che non vuole dirmi dove ha trovato.

Non che me ne importi molto, in realtà.

Basta che arrivi, e poi posso farmene una ragione.

Ieri era Natale.

Ieri ci siamo visti in un modo che non mi sarei aspettato, che ha comportato quanto più di fragile io abbia mai avuto esperienza di riconoscere in qualcuno di così intoccabile.

Ma ero messo peggio di lui, non ho voce in capitolo.

Non abbiamo fatto sesso, ieri.

Strano, lo so.

Facciamo sempre sesso, quando ci vediamo.

Che è tipo l'unica cosa che ci fa stare meglio.

Fra tre giorni è il mio compleanno, comunque.

Ne faccio ventisei.

Non so cosa c'entri, ora.

Stiracchio le gambe sul divano.

Quando arriva?

Voglio pressarlo per la debolezza di ieri.

Posso?

Non è carino.

Non gli farà piacere.

Meglio.

Mi sono fatto la doccia, quando sono tornato a casa. Ho lavorato tutto il giorno, fino a spaccarmi la schiena e i muscoli.

Chi lavora il giorno dopo Natale?

Chi non ha niente da fare.

Chi non ha una famiglia.

Non importa.

Il lavoro è la mia famiglia. Sono votato al mio lavoro, sono il mio lavoro.

Va bene così.

No, cazzo, non va bene.

Sì, che va bene.

Tanto sarei solo in ogni caso.

Le mie ali ci mettono un po', ad asciugarsi. Le strizzo e tampono con un asciugamano ogni volta, le lascio vibrare libere di scrollarsi di dosso le gocce sulle pareti del bagno che dovrei pulire, ma rimangono sempre umidicce.

Le mie ali sono un impiccio.

Non prendetemi male, sono parecchio fighe. Mi fanno sembrare un misto fra un animale incredibile e un angelo e combinate con le fattezze decisamente eleganti del mio viso creano un bello spettacolo, e lo so.

Ma farci sesso è un dramma.

Una volta ho colpito uno che era dietro di me con un'ala.

Toya non ci ha mai trovato nessun problema, però.

La maggior parte delle volte mi lascia steso di schiena sul materasso, le mie piume aperte attorno al mio corpo ad incorniciare la pelle chiara con il loro colore scarlatto.

Una volta ha sussurrato a mezza voce che gli sembravo un angelo.

O forse ho capito male io.

Tiro indietro le ciocche biondicce dei miei capelli.

Oggi è in ritardo.

Non che ci sia un orario predefinito per il sesso che non dovrei fare, insomma, sono organizzato ma non fino a quel punto, però di solito è sempre qui a quest'ora.

Chissà cosa sta facendo.

Ticchettano, i minuti.

Anche se non ho un orologio analogico, anche se non ho mai imparato a leggere le cazzo di lancette storte di un quadrante.

Sembra che scorrano in un modo quasi ritmico.

Forse dovei vedere qualcuno, per i miei problemi mentali.

Ma che cosa risolverebbe? Non penso di poter dire molto a nessuno, in realtà.

Di cosa parlerei?

"Scusi, signor terapista strizzacervelli inutile antipatico pagato dalla mia agenzia, è che ultimamente mi sembra di pensare tutto il tempo ad un tipo che mi scopa come Dio comanda ma che poi mi molla come una puttana sul letto e scappa."

Cioè, questo potrei dirlo.

Chi è forse no.

Sarebbe rischioso.

Mi fanno male le braccia.

Mi è caduta la giacca del costume da Hero, oggi, al lavoro, e volare non è piacevole quanto sembra.

L'aria ti fende la carne in un modo quasi violento, ti graffia e fa freddo.

Non ci sono segni, però.

Tanto meglio.

Dove sei, Toya?

Dove ti sei perso?

Dove sei sparito?

Non vuoi venire, stasera? Eppure vieni sempre, perché oggi sarebbe diverso?

Forse perché ieri mi hai fatto vedere una patina di te vulnerabile e ora hai deciso che non merito più, di saperla, quell'aura ferita che hai.

Ma perché buttarmi via così?

Perché mollarmi in una solitudine che mi divora?

Arriva.

Quando la mia sanità mentale inizia a vacillare delle idee sofferenti che ci sono sempre state, nella mia testa, arriva.

Di nuovo con il portale melmoso.

Appare in un angolo del salotto, un paio di pantaloni della tuta e una felpa che potrebbero essere addosso a un qualsiasi ragazzo della sua età, gli occhi azzurro ghiaccio che bucano i miei, i capelli disordinati.

− Mi stavo facendo la doccia. Toga mi ha staccato l'acqua calda che mi stavo facendo lo shampoo e mi sono dovuto ingegnare per scaldarla con il mio quirk senza farla evaporare. - racconta, appena il suo corpo è completamente nel mio campo visivo.

Che?

Cosa sono questi, aneddoti di vita? Racconti ridicoli di com'è essere lui senza la pretesa della cattiveria che sembra adorare?

Scoppio a ridere.

Le gambe nude che si incrociano sotto la maglietta che indosso, nascondo il viso fra le ginocchia.

− Che cazzo ti ridi? È stato un incubo. - borbotta.

− Siete ridicoli. "Unione dei Villain" il mio culo, siete solo degli idioti! - riesco a rispondere, fra le risa.

Alza le spalle.

− Forse. Sicuro meglio di quella volta che Shigaraki ha polverizzato la maniglia della porta del bagno e Spinner ha chiamato Kurogiri per farsi portare la carta igienica. -

Rido ancora.

Si avvicina.

Un passo alla volta, scalciando le scarpe dietro di sé e lanciandosi sul divano al mio fianco.

− Cazzo, questo divano è la mia vita. -

− Non ti piacciono i futon come quelli che ha tuo padre in casa? -

Mi guarda un istante.

Di sbieco, incrociando le sopracciglia.

Sbuffa.

− Punto primo, perché sei stato a casa di mio padre? Se scopro che hai fatto sesso con lui ti faccio secco, uccellaccio. -

Scuoto la testa.

− No, no, Endeavor è fedele. Ci ho provato, sai, ma mi ha detto che è sposato. - scherzo.

− Il fatto che questa cosa sia così plausibile mi disgusta. E comunque odiavo quei cazzo di tappeti in stile tradizionale, insomma, ma in che cazzo di anno viviamo? Io volevo il materasso ad acqua. -

Ridacchio.

− Il materasso ad acqua? -

− Sì, il materasso ad acqua. Sai che figata, che vai a dormire e ti sembra di galleggiare. -

− Certo che sei strano, tu. -

Sospira.

Getta indietro la testa, la linea netta del pomo d'Adamo che si staglia contro lo sfondo scuro di casa mia al buio, gli occhi azzurri che sembrano quasi brillare.

− Lo facciamo? - chiede.

− Secondo te perché sono qui in mutande? Per prendere aria? -

− Che ne so, magari avevi caldo. -

Mi alzo dal divano, stiracchio le gambe, allungo una mano verso di lui.

− Caldo? Il ventisei dicembre? -

Piega le labbra in una linea.

− Il divano non andava bene? - cambia discorso.

L'abbiamo fatto ovunque, non mentirò. Nella doccia, sul tavolo della cucina, sul divano, sul letto, sul mobile dell'ingresso e sulla porta di casa.

Ma ogni luogo ha una sacralità sua.

La doccia ha qualcosa di rilassante e sfatto, il tavolo della cucina il gusto di fare qualcosa dove non andrebbe fatto, il divano mi sembra... sensuale ma distaccato.

Non saprei dirlo bene, credo.

Ma il letto, il mio letto, ha qualcosa di familiare che mi fa sembrare che tutto questo non sia sporadico come è nella realtà.

− Mi va il letto. È un problema? -

− No, no. Sia mai. -

Certe volte mi capita di associare alle persone che conosco determinate immagini nella mia testa. Non so quanto questo possa avere un senso né tantomeno quanto sia calzante.

Ma Toya, Toya il ragazzo che sprizza fuoco dalle mani e brucia, in ogni sua parte, mi è sempre sembrato una creatura che implora di respirare aria che non arriva nel suo corpo che annega.

Quest'immagine così macabra e distruttiva del volto emaciato che implora la vita, alla fine l'ho sempre associata a lui.

Quando mi scaraventa sul letto, è in quel modo che fa.

Come se avesse bisogno, un bisogno che neppure lui totalmente comprende, di respirare.

La mia schiena atterra sul materasso, e rimbalzo di qualche centimetro sul tessuto morbido, mentre le mie ali si aprono e mi aiuto a sistemarle perché non siano d'impiccio.

Apro le gambe, le cosce chiare spalancate con il corpo di Toya in mezzo, lo stringo.

− Mi sei mancato. - borbotta, all'incavo del mio collo, inspirando piano fra le linee della spalla.

E come potrei non essergli mancato, chiede una parte di me.

E come invece potrei mancargli, si domanda l'altra.

Confuso.

È tutto confuso e sfumato sui bordi quando mischio le labbra con le sue nel silenzio di una voglia mutilata e nuda.

Ha un buon sapore, nonostante tutto. Ho sempre pensato potesse avere un retrogusto di sangue, non so perché, ma la sua bocca sa di qualcosa di dolce e accogliente nella durezza del suo volto.

− Anche tu mi sei mancato, Toya. Mi manchi sempre. - confesso con il fiato che si mozza, nella solitudine completa che provo.

− Dimmelo ancora. -

− Mi manchi sempre. -

La verità non mi ha mai fatto paura, con lui.

Non la sincerità, non la schiettezza e quell'onestà che sembra grattarti dall'esterno come l'aria che mi stria la carne quando volo, perché sono una parte di me incontrollabile e libera, in fondo.

Un folle che fluttua nell'aria.

Labbra contro le mie, la pelle delle sue cicatrici è ruvida contro la mia, morbida, sana e rosata.

Profuma di pulito, di sapone e doccia, quando si sfila la maglietta.

Le ustioni non sono belle, nell'ottica comune.

Non le cicatrici, non gli sfregi. Non lo sono mai stati, ed eppure, eppure...

Eppure creano una tela, un ammasso disordinato ma egualmente in equilibrio della pelle violacea e bruciata, simbolo così lampante della sofferenza e dell'esperienza della sua vita.

Trovo ci sia qualcosa di lascivo e romantico in chi porta con così tanto orgoglio i segni della violenza che ha vissuto.

Qualcosa di irraggiungibile e meraviglioso.

E Toya lo è, irraggiungibile e meraviglioso.

Respiriamo in contatto, le parole che sfumano in un marasma di nulla e di solitudine.

− Non mi odi, dopo ieri? - chiedo di colpo, le mie mani che si aprono sulle sue guance, gli occhi che salgono sui miei in un istante.

Non risponde.

− Vuoi far finta che non sia mai successo? - tento ancora.

Mi lascia cadere sul letto con un tonfo muto, slaccia i pantaloni.

− Non facciamo finta, Keigo. Ricordiamo e andiamo avanti. Non è così che funzionano queste cose? Che funzioniamo noi? -

Da quando esiste un "noi"?

Da quando non esiste?

Confuso.

− Non capisco che intendi. -

Una gamba alla volta, lunghe, eleganti e magre, più robuste delle mie ma egualmente chilometriche, la pelle abbronzata che si mescola ai punti di sutura che brillano del metallo freddo e asettico nel calore del momento.

− Intendo che noi siamo così, Keigo. Sappiamo e andiamo avanti. Ce ne sbattiamo delle cose e ignoriamo il resto. No? -

Ci mette un secondo a scendere un'altra volta su di me, ma questa volta sono le mie mani ad aggrapparsi alle sue spalle con urgenza, e sono io che lo ribalto sul letto con il petto contro il mio, la schiena sul materasso, le mie ali che svolazzano dietro di me.

− Non voglio ignorare te, Toya. Non voglio sbattermene. -

Sorride in modo meschino.

− Che peccato. E io che invece non vedo l'ora di farlo. -

Mani sull'orlo della maglietta, le incrocio e le sciolgo sopra la mia testa togliendo l'indumento che ho indosso e lasciandolo cadere indietro, petto nudo contro petto nudo.

− Cosa? -

Respiriamo insieme, il mio sterno e il suo che si incontrano a metà strada.

− Sbatterti. -

Fuoco dell'ironia, furia del sarcasmo, calore dell'eccitazione.

Come una vampata, questa.

La vampata di un annegato, mi ritrovo a pensare.

Appoggio le labbra fra le sue clavicole.

− Sei un pervertito, Toya. -

Alza le spalle.

− Tu no? -

− Non stavamo parlando di me, qui. -

Infila le dita fra i miei capelli, lunghe e violente fra le ciocche chiare.

− Cazzo, se mi sei mancato, stronzetto. - borbotta, guardandomi di sbieco.

La sensualità di quest'uomo non solo è palese e innegabile, ma ha anche qualcosa di davvero disarmante.

Se me lo chiedi in quel modo come posso dirti di no?

Mi inumidisco le labbra secche.

− Impaziente. -

− Lento di merda. -

Lo bacio un'altra volta, sento un'altra volta la sua lingua che si intreccia con la mia, respiro un'altra volta la sua presenza.

So che entrambi abbiamo una carica sessuale molto singolare e probabilmente molto erotica, e so anche che la nostra combinazione è come detonare una stanza piena di esplosivo, non si sa mai che verso prenderanno le cose, se i danni saranno contenuti o se la distruzione non lascerà spazio nemmeno al ricordo.

So che ci sono volte in cui mi ha trattato male.

E volte che, come questa, la violenza del suo corpo deriva da un bisogno che necessita immediata soddisfazione.

Voglio farlo stare bene, e voglio che sappia che a farlo star bene sono io, perché se mi guarda con gli occhi azzurri pieni di un'emozione che riserva solo a me, mi sento diverso e importante.

Mi sento qualcuno.

Io, che sono tutto e nel mio tutto non sono niente, io e la mia fama fatta di menzogna e un lavoro in cui non credo, io divento qualcuno, specchiato negli occhi di una rottura interiore profonda come quella di Toya.

Bacio lo sterno, bacio il petto, bacio le cicatrici.

Indietreggio, le cosce che si aprono, piego un'ala e solletico il suo fianco per dargli fastidio.

Ridacchia e dice qualche sua solita espressione colorita.

Ma non smetto.

Non smetto di tracciare questa languida linea verso il basso, e non smetto di volere che sia la mia bocca quello che desidera.

− Non vuoi scopare subi... − chiede, senza un grammo di eleganza, ma si blocca quando apro una mano sul fronte dei suoi boxer che ben poco lasciano all'immaginazione.

Prende fiato a bocca aperta.

− Non ti va? -

− Ah, cazzo. Sì che mi va. Non volevo dire que... −

Di nuovo, la voce diventa aria quando premo, quando le dita percorrono la forma esterna di un'eccitazione innegabile.

Sentilo, come è ridotto.

Per te Keigo, perché sei qualcuno, perché sei qualcuno per lui.

Sono bravo?

Sì.

In quasi tutto, ma in questo in particolare.

So di essere sensuale, e c'è qualcosa nell'immagine di un essere così dannatamente simile all'idea che gli uomini hanno degli angeli che fa impazzire chi mi fissa in questo modo adorante.

Toya non è un'eccezione, su questo frangente, anzi.

Sorride di sbieco accompagna i miei movimenti nel far scendere l'orlo delle mutande, si aiuta una gamba alla volta a sfilarle e lanciarle nell'angolo della stanza dove le ritroveremo a scappatella finita, afferra i miei capelli.

− Pronto? -

− Idiota. - risponde.

Era una domanda legittima.

Doveva prepararsi psicologicamente, immagino. Forse alla mia disarmante bravura, forse alla mia lingua tagliente che oltre al sarcasmo può essere usata per un numero vasto e dolce di operazioni.

Lingua di piatto sulla punta, il suo bacino che si alza impercettibilmente, la voce che è calda e roca quando geme.

− Keigo, cazzo, cazzo... −

Dio, quando amo quest'adorazione sfrontata.

Lascio che la saliva rotoli giù dal mio mento in una visione confusa e arruffata di me, che non c'è niente da nascondere, niente di cui vergognarsi, niente da temere nell'essere in questo modo così lascivo, mi dico.

Attraverso le labbra spalancate, fino in fondo alla bocca.

Tutto, di te.

Voglio tutto, Toya.

Spinge, contro il mio capo, e spinge un po' da sotto con i movimenti che non controlla e un po' da sopra con il palmo che preme sulla mia testa, mi fa sentire così sopraffatto, sopraffatto mentre sopraffaccio lui.

Sopraffazione mutua, condivisione violenta, cantilena di gemiti e versi strozzati in questo dare e ricevere che non ha altro che onestà.

La mia gola scende nel movimento della deglutizione, quando entra più a fondo.

− Keigo... − ripete.

Il mio nome, detto dalla sua voce, ha un suono più vero.

Mi appartiene e gli appartiene, ci appartiene.

Ancora, e ancora, il movimento su e giù, distratto e concentrato e adorante del mio viso.

Lo lascio uscire, respiro, riempio un paio di volte i polmoni.

− Sei, cazzo... sei bravo, stronzo... − riesce a dire fra le parole che gli si impastano in gola, fra il movimento spento delle labbra.

Guardalo, come fissa il mio viso distrutto per lui.

− Lo so, Toya. - ribatto ridacchiando, e di nuovo, bocca aperta, lui in me.

Lascivo, osceno.

Qualcosa che ti fa paura vedere, le mie labbra occupate solo per lui, che hanno una sensazione profonda e sbagliata nella loro essenza, ma che non sai rifiutare.

Mi piace, questa reciproca dipendenza.

E non in senso lato o relazionale, ma in quello puro della parola.

Drogati.

Drogati di noi stessi e della relazione che cancella le vite che non abbiamo.

Più in fondo, più in fondo.

Prendi tutto.

Descrivo la linea della sua erezione con la lingua non lasciando i suoi occhi, infilo le unghie sulla pelle martoriata del bacino, poi più in fondo, nella gola.

Perde un po' della delicatezza che si fregia di non avere ma che inevitabilmente dimostra, a questo punto.

Cercando spasmodicamente la soddisfazione, chiude le dita fra i miei capelli, muove il polso in un ritmico movimento in alto, in basso, più in fondo, più in fondo, più in fondo...

"Dentro di me", vorrei dirgli.

Ma so che lo sa.

Stringo più forte le mani sui fianchi, spalanco le labbra, la mia voce risuona strozzata e vibrante contro di lui.

Quando viene, sembra a me che la tensione si spezzi.

Il bacino scatta in alto, in un secondo l'aria scompare e lui, lui, cazzo, lui è dove deve stare, dove è il suo posto, dove voglio che sia.

Chiama il mio nome, mentre viene.

Chiama il mio nome come io cerco per quanto mi è possibile di chiamare il suo.

Finisce troppo in fretta.

Mi stacco, prendo aria, osservo la patina lucida dei suoi occhi mangiati dalla pupilla dilatata che mi seguono senza scampo, e mi asciugo la bocca col dorso della mano.

− Sei veramente... osceno. - commenta.

Ha la voce rotta, ma in un certo senso ancora stranamente e potentemente dominante.

− Non ti piace? -

− Mai detto questo. Vieni qui, idiota. -

Sorrido in un modo quasi ridicolo, mentre mi faccio tirare su dalle spalle.

Rimaniamo una quantità di tempo indefinito in quel miscuglio di confusione e calore, le sue mani sulle mie spalle e il respiro che batte contro la mia pelle.

− Vuoi continuare? - chiede, dopo un po', i polpastrelli che scorrono lungo la mia spina dorsale, si inerpicano fra le piume soffici e ne descrivono i contorni quasi con reverenza.

Annuisco senza rispondere.

Inspira.

− Non mi sembri convinto. -

− Lo sono. -

Non è che non sono convinto, infatti.

È che mi sembra che più andiamo avanti, più il tempo di questa libertà sbagliata diminuisca.

− Dimmi la verità. -

− Vorrei che rimanessi. -

Non rimane.

Toya non può, Toya non deve.

Se ne va come un soffio di vento quando finiamo, mi bacia la fronte e scompare nel turbinio di nulla che siamo.

Ed eppure questo mi ferisce in un modo così profondo.

− Sai che non è una buona idea. -

− Ti sembro uno che ha buone idee, Toya? -

Ridacchia piano.

Prende fra le punte delle dita la radice magra di un'ala, la stringe con delicatezza.

− Anche se non rimango è come se lo facessi sempre, lo sai. -

− Non è vero. -

Inspira, espira, con calma.

− Se ti penso quando me ne vado, una parte di me è come se restasse qui, no? -

No.

Ma... sì.

− Mi pensi quando te ne vai? -

Mani fra i capelli un'altra volta, un bacio a metà.

− Ti penso quasi sempre. -

E di nuovo, avvampo della bellezza annegata di Toya.

Di Toya che spinge le mani in me e contro di me.

Voglio svegliarmi coi segni e con i morsi e con la cattiveria pura di quello che c'è stato.

− Quasi? -

− Non quando combatto, che sarebbe un problema. E non quando mi faccio la doccia che già gli altri sono abbastanza fastidiosi se sono veloce. - scherza.

Strofino il viso contro la sua guancia.

− Mmh, può andar bene. Se è il meglio che puoi fare... −

− Lo è. -

Una mano scende sulla mia schiena.

Si inerpica sulla linea dolce della spina dorsale, sull'incavo della pelle sottile, giù verso il culo ma sopra una volta ancora, come se non si riuscisse a decidere.

Come se volesse toccare tutto ed imprimere la forma del mio corpo sulle sue mani.

− Che aspetti? - chiedo dopo un po', che apprezzo la calma ma non capisco tutto questo indugiare.

Sbuffa.

− Antipatico. -

− Noioso. -

Ridacchiamo assieme.

Non c'è bisogno che mi prepari a fondo, non che stia minuti interi a fare in modo di non farmi male.

Ho fatto da solo sotto la doccia.

Non volevo perdere il poco tempo che trascorriamo assieme in una cosa inutile che riguarda solo me stesso.

Volevo impiegare assieme ogni istante.

− Hai fatto da solo? - mi chiede, quando le sue dita si infilano dove sa che voglio le metta.

Annuisco.

− Prima o poi voglio vedertela fare, questa cosa, sappilo. - scherza.

Vorrei rispondere con una battuta ma non riesco a reagire quando, nonostante non ce ne sia bisogno, la sua mano spinge contro e dentro di me.

La mia voce si piega, la schiena si inarca, gli occhi si spalancano.

− Quanto cazzo sei bello, Keigo. - lo sento commentare.

Mi ribalta in un secondo.

Sistema le mie ali con delicatezza, accarezzando le penne e il loro colore intenso, il tocco sensibile che mi fa tremare appena.

Apro le cosce.

La mano è un'altra volta dentro di me, il palmo contro il mio corpo, le mutande spostate a metà che nemmeno siamo riusciti a togliere, prima di metterci a fare... questo.

Non siamo tipi da parlare molto, mentre facciamo sesso.

Diciamo che preferiamo guardarci e sentirci gemere e fare tutto come se non ci fosse nulla da discutere.

Abbiamo una chimica che funziona, un equilibrio esatto, sappiamo cosa vogliamo l'uno dall'altro per abitudine e per comprensione reciproca.

Apro le gambe, le dita sono più in fondo.

− Voglio... te. - mi ritrovo a chiedere, con la voce un po' rotta e gli occhi lucidi, quando le sue dita si piegano e le mie ginocchia tremano davvero.

Il mio respiro è spezzato.

Sorride.

Sorride e le dita sono più violente, per un attimo, come volessero punirmi della sfacciataggine di una richiesta così onesta.

Ma poi, le toglie.

Eppure, non entra subito.

− Toya, Toya, ti prego... − inizio, le cosce che premono contro il materasso e le ginocchia spalancate, il suo bacino che inizia ad avvicinarsi precisamente al mio.

Pelle bruciata e violacea contro la mia chiara, mani sulla carne, occhi azzurri che sembrano bruciare del fuoco di un animo che non comprendo.

− Di più. -

− Ti prego, ti prego... cazzo, Toya, ti prego... −

Alza un angolo della bocca.

− Che cosa vuoi? -

− Te, cazzo, voglio te... voglio che entri dentro di me, Toya, ti prego, ti prego... −

Non so cosa sto dicendo e non so bene neppure perché io lo stia facendo, non so perché vuole che lo preghi e non so perché lo faccio.

Ma mi va bene, non sapere niente.

Mi va bene, questo romanticismo disperato.

Mi va bene perché è vero, perché è onesto e frontale, perché non mi illude e mi dà qualcosa che nessuno mi toglierà mai.

Mi bacia.

Toya mi bacia prima di chinarsi verso di me, allaccia le mie gambe alla sua vita ed entra piano.

Straziante, la sensazione di essere allargato, ma dolce e rilassante.

Dammi di più.

− Miseria, Keigo. - commenta, un centimetro alla volta.

Mi viene da piangere.

Non perché mi faccia male, ma perché non so dare un verso a niente di quello che mi succede.

Le lacrime sono trasparenti e minute, quando rotolano attraverso le mie guance, e Toya le raccoglie con le labbra che mi baciano il volto rigato, quando entra completamente dentro di me.

Così, così.

Solo noi due.

Noi due contro il mondo, noi due contro tutto, noi due e basta.

Inspiro e mi sembra una tortura, riempire i polmoni, mentre rimane fermo.

− Muoviti. -

− Sicuro? -

Annuisco.

Piego un'ala verso di lui, poi l'altra, lo chiudo, ci chiudo nell'abbraccio di qualcosa che non può scomparire.

Lo vedo, che trema, quando le piume sfiorano i lembi di pelle chiara della sua schiena.

Fuori, dentro.

Gemo, tutto il corpo che sembra tendersi ogni istante di più, la carne che si tende e si inarca, diventa dura dello sforzo e sudata, il bacino che incontra il suo.

Chiamo il suo nome.

Vorrei che il mondo ci vedesse.

Vorrei che tutti potessero capire quanto il male che ci hanno fatto non ci abbia resi altro che due anime che si scontrano e non possono fare altro.

Vorrei esibire nella libertà più completa l'oscenità di un momento che non dovrei vivere, i corpi intrecciati, il sudore di Toya e il mio che si mescolano, la saliva che bagna le mie labbra e i suoi occhi blu che fiammeggiano nel buio, i capelli arruffati e le ali che ci proteggono.

Guardatelo, l'angelo che pensate vi protegga.

Guardate che cosa fa, com'è davvero, che cosa ama e chi ama, la rabbia e la disperazione che gli avete inculcato per farlo diventare come mi piaceva che fosse.

− Ti amo, Toya. - sussurro, dopo una spinta particolarmente forte, una gamba che lo tiene dentro di me mentre preme quel punto che raggiunge perfettamente e in quel modo solo lui, quello che è suo.

Sorride, strafottente e soddisfatto, corre con una mano ai miei capelli e li tira indietro.

− Perché me lo dici solo quando scopiamo? - chiede, la voce ariosa ma più controllata della mia.

Gemo di risposta, perché il ritmo è serrato e non riesco a fermarlo, io, non riesco a fermarmi, nella foga del momento che vorrei non finisse mai.

− Rispondimi, Keigo. - insiste.

Provo, davvero, ma la voce non riesce a fare altro che esibirsi nei versi più lascivi che riesca a produrre.

Mani sul retro delle cosce, ginocchia che si alzano e premono sul mio petto, schiena inarcata.

Tutto dentro, più dentro di quanto non sia mai, completo e saturo di quello che amo.

− Rispondimi, cazzo. -

Bacino in avanti, indietro.

Violenza, nei movimenti che trasformano la dolcezza in cattiveria senza sosta.

− Perché amo... amo fare questo con te. - riesco ad elaborare.

Un altro sorriso, un'altra spinta.

− Solo... ah... solo questo? -

No, certo che no.

Piegato a metà, aperto in due.

− Amo tutto... amo fare tutto con... −

− Con...? -

La mia voce è alta, sempre più alta, sempre più rumorosa.

Quanto vorrei, che qualcuno mi sentisse per come sono davvero.

Che mi sentissero mentre sono in questo modo così singolare e onesto con me stesso.

− Con te, Toya, amo fare tutto con... cazzo! -

Non trattengo la fine della frase, perché ora è davvero forte, dentro di me.

Senza alcuna pietà, frettoloso e spasmodico, cerca la libertà e la liberazione come la cerco io, non ha più ritegno e non vuole che ne abbia più nemmeno il mio volto, è solo... disperato.

− Keigo, Keigo, Keigo... −

Non mi dice che mi ama anche lui.

Non lo fa... mai.

Non m'interessa quasi, che lo faccia.

Il peccato che compio volendolo e amandolo prescinde da lui.

È l'essenza dell'errore, che mi soddisfa, e che lui risponda o meno, questa cosa non cambierà.

− Toya, cazzo, Toya sto per... sto per... −

Mano che si stringe sulla mia spalla, dita che scavano come se volessero tingermi per davvero la pelle del viola del possesso.

− Lo so, cazzo, lo so... io... −

Non c'è vergogna nell'essere così onesti nelle nostre intenzioni.

Passiamo vite intere a rispondere a immagini che le persone hanno di noi, lui che si ribella in tutto e per tutto e io che aderisco al modello di cui fugge, ma quando siamo da soli, quando siamo da soli siamo solo Keigo e Toya.

Siamo solo due ragazzi che si vogliono.

E siamo solo un ammasso di arti sudati e confusi.

− Dentro... cazzo, dentro, Toya, dentro... −

− Sì, sì, cazzo, Keigo, Keigo, Keigo... −

Fiato spezzato e veloce, anime che si cercano, mani che si incastrano, dentro di me, con me, in me.

Prendiamoci e inghiottiamoci a vicenda, Toya.

Che stiamo bene solo quando siamo insieme.

L'orgasmo, fra noi, è sempre di quel genere meraviglioso e disperato che ci contraddistingue.

Un'ondata di puro e trascendentale piacere, ma così dolce ed effimero, il segno che è tutto finito, che ci siamo completati e ora non ci resta che separarci.

La bellezza di venire assieme, è una bellezza rotta.

Piango e forse gemo un po' troppo forte, mentre vengo, e Toya allo stesso modo lascia che la sua voce sia bella e bassa contro di me, mentre lo sento.

Sento che in ogni caso ci sarà qualcosa di lui dentro di me anche quando scomparirà nel nulla della notte.

Questo mi piace.

Mi fa sentire bene.

Mi tiene in vita.

Si lascia andare contro di me, le spalle più larghe delle mie che mi schiacciano appena contro il letto, ma che non rifiuto.

Respira, e respiro anch'io.

− Ancora? - chiede dopo qualche istante.

Esce da me lentamente, in modo quasi impercettibile, ma lo sento.

Fisso gli occhi sui suoi.

Anche io sono distrutto, ma più di lui, più internamente, più nel cuore, parlare mi è difficile.

Capisce.

− Aspettiamo qualche minuto, allora. -

È caldo.

Toya è caldo, la sua pelle è calda anche nel freddo dell'inverno, e non so se sia il suo potere o vederlo fra le mie braccia che mi scaldi, ma non m'interessa.

Mi bacia la guancia, disegna i tratti del mio volto con le dita, dalle sopracciglia agli zigomi, i lati delle labbra, la mascella.

Mi osserva in silenzio, riprende fiato con me, in un attimo di eterna e purissima attesa.

Solo noi.

Noi e la notte.

Tranne che non è vero.

Tranne che sento, a quest'ora della sera, in questo momento che per me è solo pura sacralità, qualcosa di estraneo.

La porta del mio appartamento si apre.

Ci sono poche persone che hanno le chiavi di casa mia.

I membri del team che mi ha cresciuto e addestrato, loro possono.

Ma perché dovrebbero?

Perché il giorno dopo Natale di notte?

E in ogni caso non ho il tempo di chiedermelo.

Non ho il tempo di ragionarci su, perché sono nudo, nudissimo, sul mio letto, con un criminale ricercato in tutta la città altrettanto nudo sopra di me.

Cazzo.

Una delle cose che mi rendono un buon Hero? Grandi riflessi.

E sì, sono in post orgasmo e il mio corpo chiede pietà, ma non mi tradisco.

Non devo fare rumore.

Non devono capire che sono con qualcuno.

Guardo fisso Toya, che spalanca gli occhi verso di me ma egualmente non emette un singolo rumore.

Muovo le labbra senza usare la voce.

− Ora vado in salotto. - mimo, e annuisce.

Respiro, una, due volte.

− Hawks? Dove sei? Takami? - sento urlare dall'ingresso.

Voce femminile.

È la mia manager, credo.

Mi allungo verso il bordo del letto, prendo la maglietta. Ho il petto sporco di qualcosa che non vorrei rimanesse appiccicato alla mia pelle, ma ignoro la questione coprendolo e basta.

Infilo le mutande in un istante.

Ho giusto il tempo di lanciare un'occhiata verso lo specchio.

Sono un casino.

Ma non posso farci nulla.

Esco dalla camera, chiudo la porta alle mie spalle.

Lei è in un tailleur scuro, elegante e rigida come l'ho sempre vista, il taglio di capelli ordinato, il volto severo, gli occhiali squadrati.

È seduta sul bracciolo del divano, alza un sopracciglio quando mi vede.

− Dov'eri? -

− Dormivo. -

Non ci crede.

− Quelli? - indica me stesso.

Ho dei segni sul collo, cazzo. Non ho fatto in tempo a coprirli.

− Sesso occasionale. - ribatto semplicemente.

Non ho bisogno di dare dettagli, credo.

− Ora? -

− Prima. -

Sembra un interrogatorio. Sembra una madre che vuole scoprire ogni retroscena della vita del proprio figlio, tranne che di solito una madre ti vuole bene, non cerca di usare ogni grammo di te come se fosse un progetto di lavoro.

− Non trasformare le tue stronzate in una relazione. Perderemmo audience dalle tue fan, non possiamo permettercelo. -

Oh, questo "noi". Questo "noi" così falso.

L'unico "noi" al quale voglio partecipare è scorretto e onesto, non rigido e severo come te, stronza.

− Non uscirà nulla. - rispondo.

Che cosa vuole da me?

Perché è qui?

Ed eppure non posso chiederle nulla, non voglio che sospetti qualcosa.

Posso solo rimanere con le gambe molli e la speranza di passare la serata con Toya che sfumano mentre la vedo togliersi la montatura di dosso e fissarmi sospirando.

− Sono venuta qui a dirti che abbiamo deciso che farai delle pattuglie in altre circoscrizioni della città, i prossimi giorni. Vogliamo che il tuo personaggio pubblico cresca anche in altre parti, hai troppi pochi fan nelle periferie. - dice, poi.

Alzo un sopracciglio.

− Dovevi venire qui a dirmelo? - mi scappa.

Mi inchioda con lo sguardo.

− E perché no? Tanto non è che abbia interrotto nulla di importante, Takami. -

No, certo che no.

Stronza.

− Domani sarai ad est, dopodomani ti mandiamo a nord, e poi... −

La interrompo ancora.

− Dopodomani è il mio compleanno. -

Che cosa speravo di ottenere, con quelle parole, nemmeno io posso dire di saperlo con certezza. Forse la speranza di un ragazzino che a venticinque anni ancora non sa come gira il mondo, forse un'abitudine che non ha senso di esistere.

La mia manager ride, la voce fredda e sfiatata.

− E allora? - chiede.

Giusto, Keigo.

E allora?

− Volevo... festeggiare. -

Che idiozia.

− E con chi vorresti farlo? -

La domanda mi arriva addosso come una doccia gelata.

Ho degli amici.

Vero?

Li ho.

Gli amici... gli amici di Hawks. Quelli sono amici dell'Hero, non di me. Non del Keigo Takami in mutande e maglietta stanco e sudato.

Nessuno festeggerebbe con questo Keigo.

Nessuno con la versione di me che preferisce rimanere a casa piuttosto di andare in pattuglia.

Nessuno.

Mi fa pale il petto.

− Giusto. Ci sarò. Mandatemi le specifiche nei prossimi giorni, ora devo andare a dormire. Grazie di essere passata. - riesco a dire, alla fine.

Non aspetto che se ne vada.

Come un bambino, come un ragazzino giovane e stupido, scappo.

Scappo in camera mia, ancorandomi a qualcosa che non c'è.

La camera è vuota.

Toya sparito.

Che schifo.

Il mondo, intendo.

Che schifo.

Il ventotto dicembre compio ventisei anni. Ventisei è un numero curioso. Il primo multiplo del numero fortunato tredici, un anno più della metà del secondo decennio della vita, tondo e pari e assolutamente asettico.

Tanti auguri, Keigo.

Tanti auguri, stronzo che ha passato la giornata a stringere mani di sconosciuti ai quali non fotteva niente di te.

Tanti auguri.

Casa mia è buia, quando rientro.

Sono stanco, sfinito, distrutto.

Endeavor mi ha mandato gli auguri via messaggio.

Non so se quell'uomo mi disgusti o cosa.

Abbiamo lavorato assieme, e sorrido al suo volto serio, perché sono un grande attore, ma certi retroscena della vita di Toya mi fanno rabbrividire.

Capisco il perdono, ma certe cose, possono davvero essere perdonate?

Non credo, non penso.

Non se la persona che ami è ricoperta di cicatrici e per scappare dalla sua famiglia ha scelto di uccidere come professione.

Qualcosa di profondamente folle, quell'uomo, deve averlo fatto.

Non so cosa, Toya è la personificazione di una tomba quando si parla di parlare del suo passato, però che ci sia un problema di fondo, solo un idiota non lo capirebbe.

Mollo la giacca del mio costume all'ingresso, scalcio via i pantaloni sulla strada per il bagno.

Non ho voglia di farmi la doccia.

Che schifo, lo so.

Ma non ho voglia.

La farò domani mattina.

Stacco via dal torso la canottiera termica, sfilo le mutande, lancio via i calzini, tiro indietro i capelli.

Marcio nudo fino a camera mia, prendo la maglietta che ho messo ieri dal bordo del letto, la sistemo sulle ali.

Fanculo le mutande, le metto domani.

Fanculo tutto.

Ho sonno.

Volevo mangiare la torta.

Butto un'occhiata di sbieco alla sveglia.

Sono le ventitré e trentacinque.

Bel compleanno di merda.

Mi spiaccico faccia in avanti sul materasso, afferro il cuscino con entrambe le mani.

Fanculo.

Quando la mano mi tocca la schiena, dire che salto è un eufemismo.

Mi congelo, salto di lato, le piume che si staccano e la voce a metà in un urlo sorpreso, il corpo in tensione.

Cazzo, Keigo, che Hero di merda sei? Qualcuno ti entra in casa e nemmeno te ne accorgi. Complimenti, davvero un ottimo eroe, un genio.

Idiota, cazzo.

E se ora...

Devi difenderti.

Sono mezzo nudo.

Eh, amen.

E invece, la mano è bianca, il braccio violaceo, gli occhi... blu.

Spalanco gli occhi di sorpresa.

− Toya? -

Pensavo che volesse scappare.

Che dopo essere stati quasi beccati non volesse più avere a che fare con me.

È sparito.

È svanito nel nulla.

Non è venuto qui ieri sera, non mi ha lasciato un biglietto, non ho saputo nulla.

Ora...

− Buon compleanno, Keigo. - dice, la sua voce.

Buon... compleanno?

Crollo.

Crollo mezzo alzato sul letto, crollo addosso ad una mano che ora è un braccio, anzi due, crollo come una creatura di pezza, senza ossa o articolazioni, crollo nella debolezza di me stesso.

Crollo inspirando e piangendo.

Crollo contro un odore familiare.

− Toya, Toya, tu... −

− Sono qui, idiota. Non c'è bisogno che piangi. - commenta, con la voce stranamente tranquilla, con il tono basso e calmo e appena grattato.

Una mano fra le scapole.

− Ho portato la torta. Non ti ho comprato un regalo che non avevo idea di cosa volessi. -

− L'hai rubata? -

− La torta? Pensi davvero che non sia in grado di cucinarne una da solo? -

Ridacchia, e ridacchio anch'io fra l'ondata di lacrime che non riesco a controllare in nessun modo.

− L'ho rubata. Non so manco che cazzo sia il lievito, è ovvio che l'abbia rubata. Ma ne ho rubata una bella. - dice dopo qualche istante,

Scoppio a ridere fra i singhiozzi.

Idiota.

Tenero, violento idiota.

− Perché? - mi ritrovo a chiedere.

− Dovrei chiedertelo io, perché. Non mi hai manco detto che facevi gli anni, uccellaccio. Ho dovuto sentirlo da quella stronza. -

Ha sentito?

E perché allora è svanito nel nulla?

− Sono andato via che avevo paura ci beccasse, ma ci sono rimasto di merda. Con chi volevi festeggiare, eh? -

Scuoto la testa asciugandomi le lacrime.

Potrei essere onesto.

O potrei prenderlo per il culo.

− Con tuo padre. Non vedevo l'ora. - rispondo.

Storce il naso, ridacchia.

− Ora sì che ti riconosco, Keigo. -

Non smette di abbracciarmi, però.

Non smette nonostante le lacrime si diradino.

Anzi, rimane fermo con le mani fra i miei capelli, nel silenzio della notte che ci nasconde.

− Ti sei lavato? - chiede, dopo un po'.

− No. -

− Che schifo. Hai lavorato tutto il giorno e nemmeno volevi lavarti prima di andare a dormire? -

Si vede che era un fratello maggiore, una volta.

Si vede che si sa prendere cura delle persone nonostante la facciata minacciosa.

Di me di sicuro.

− Ero stanco. -

− Fai schifo lo stesso. Ora ci laviamo. -

− "Ci"? -

Ridacchia, e poi, come nulla fosse, mi bacia fra i capelli.

− Se vuoi puoi lavarti da solo. Però perderesti un'occasione. Sono davvero bello nudo. -

Cretino.

Stringo più forte le braccia attorno al suo torso, premo più forte il naso contro il suo sterno, annego più nella bellezza annegata di un uomo che è la composizione di ustioni, sofferenza e bellezza innata.

− Volevo festeggiare con te. Passare il giorno insieme. Guardare un film, chiamare d'asporto, fare sesso. Era così idiota? - confesso, alla fine.

Mi sarebbe piaciuto.

Un giorno normale, solo noi due.

Comportarci per ventiquattro ore come se non fossimo chi siamo, fare qualcosa di semplice e solo, e stupido come quello.

− Non lo era. Il diciotto gennaio è il mio compleanno. - risponde.

Speranza.

La speranza è una fiamma che ti mangia vivo, quando si accende.

E la speranza è quello che mi dà, che voglio.

− Riuscirò a liberarmi. - prometto.

− Anch'io. -

Silenzio.

Mi tira verso di sé, le mani che scendono verso le cosce, le chiude attorno alla sua vita, si tira su con me addosso.

Un passo alla volta verso il bagno.

Andiamo a lavarci.

E prima di entrare sul pavimento di piastrelle, prima di accendere la luce, prima di rompere la bolla di buio e silenzio, muta conoscenza della nostra sofferenza, si ferma.

Mi bacia la fronte.

Sussurra.

− Anche io ti amo, Keigo. -

E ricomincia a camminare.

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➠♡༊ beta-read by --sparkles mianonnaincarriola MonicaKatfish

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