Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

𝚌𝚘𝚛𝚊𝚕𝚒𝚗𝚎 :: 𝟸

➭ ✧❁ TW :: se avete qualsiasi tipo di problema col cibo, col sangue e con le ferite, this isnt the right chapter for u. vi dico anche che in questo capitolo si inizia a vedere la luce in fondo al tunnel, della serie la parte iniziale è decisamente forte ma le cose iniziano ad andare meglio.

(sapete e per chi non lo sa lo dico, io kinno atsumu e quando scrivo di lui è come se in un certo modo scrivessi di me, quindi siate delicat* nei suoi conforti perchè questi li prendo decisamente sul personale)

╰┈➤ ❝ continua

− Prendi ancora qualcosa, 'Tsumu, non hai mangiato abbastanza. –

− Non ho fame, Rin. –

Ho gli occhi vuoti, mentre guardo il ragazzo di mio fratello sporgersi sul tavolo della cucina, spingere verso di me il piatto pieno di onigiri.

− Hai appena toccato quello che c'è in tavola. –

− Non sei mia madre, Rin, non rompermi il cazzo. –

− Non parlargli così, 'Tsumu. –

Reprimo l'istinto di mandarlo a fare in culo, incollo lo sguardo in basso, verso il piatto.

È bianco.

Pulito, lindo, senza una sola macchia.

La ceramica è perfettamente liscia, vuota.

Non so quando sia iniziata.

Non so perché.

Non lo so.

− Che c'hai, l'influenza? –

− No, 'Samu, semplicemente non ho fame. –

Non ho...

È un po' diverso, in realtà.

Troppo complesso da spiegare, credo.

− Mangia anche se non hai fame, allora. –

− Sono pieno. –

Pieno.

Pieno di che cosa?

È strano, raccontarlo, cercare di spiegarlo ad alta voce. Ma a me, è palese, definito.

Pieno di niente.

Paradossale.

Sono pieno di niente, sono pieno di un nulla così grande che mi riempie completamente.

Sono...

− 'Tsumu, ma stai bene? Non sarà di nuovo che... −

− Non dirlo, Osamu, non provare a dirlo un'altra volta. –

− Di nuovo lui, 'Tsumu? Ancora? –

Il tono della sua voce è acido, aspro, amaro. Come se provasse rancore nei suoi confronti, come se lo odiasse.

Ma come puoi?

Tu non capisci, come puoi farlo?

− 'Samu, lo aspetto da tutta la vita, pensi davvero che abbia smesso di cercarlo? –

− Ma ti fa male, cazzo, ti fa male! Vogliamo parlare di cos'è successo l'altra volta? Mi avevi promesso che l'avresti ignorato. –

− Io non ti ho promesso niente, bastardo. –

Il momento esatto in cui lui si alza, quello in cui sento la sedia strisciare indietro sul parquet, è quello in cui lo imito e indietreggio con le gambe che tremano.

− 'Tsumu, non puoi andare in fondo alla faccenda. –

− Come no? È la mia cazzo di anima gemella, Osamu, perché dovrei smettere di cercarla? –

− Perché ti fa male, testa di cazzo, ti fa male! –

Stringo le mani fra di loro, tiro giù per bene le maniche della felpa.

Passo con lo sguardo da lui a Suna, seduto e con gli occhi sbarrati, e quel che mi esce dalle labbra è il principio di una risata.

− Facile, eh? A te che cazzo te ne frega, dopotutto? –

− 'Tsumu, io lo faccio per... −

− Per me? Lo fai per me? No, stronzo, tu lo fai per te stesso, perché ti fa paura vedermi star male. Tanto a te che importa, tu ce l'hai il fidanzatino. –

− Non è quello il punto, Atsumu. –

− Certo che è questo, il punto. Il punto è che la fortuna ti ha benedetto dandoti tutto subito e che non puoi capire che cosa voglia dire passare quello che sto passando io. Il punto è che vieni dal tuo piedistallo di merda a cercare di dirmi cosa fare e pretendi pure che ti ascolti. –

Lo vedo oltrepassare il tavolo, allungare una mano verso di me.

− Non toccarmi, Osamu. –

− Atsumu, ascoltami, ti prego, ascoltami. –

Indietreggio ancora.

− Non ho la minima intenzione di farlo. Per sentirmi dire che cosa, poi? Che devo smettere di cercarlo? –

− Io capisco come ti senti, Atsumu, ma... −

Se c'è qualcosa che mi fa infuriare, quella è chi assume senza fondamento. Se c'è qualcosa che mi fa infuriare è chi pretende di capire.

− Tu non capisci un cazzo. Tu non capirai mai un cazzo, e non so perché fai finta di farlo. –

Ci sono lacrime, che si accendono sui suoi occhi.

Non mi dispiace.

Non mi dispiace perché sono pieno di nulla, e persino per il dispiacere, non c'è più posto.

− Io voglio solo che tu stia bene, Atsumu. Che ricominci a mangiare e non... −

− Egoista del cazzo. –

Non è corretto, chiamarlo egoista.

Qualcosa dentro di me lo sa che non è corretto.

Non se lo merita.

Sta cercando di aiutarmi, e non lo sta facendo perché è egoista, ma perché mi vuole bene.

Ma c'è una furia, in me, che non mi permette di respingere le reazioni che ho.

Rin si alza dal tavolo.

Non si arrabbia mai, Rin, è una persona di natura pacata, calma e pacifica.

Non alza la voce, non minaccia, non grida.

− Di' un'altra volta una cosa del genere e ti caccio di casa a calci nel culo, Atsumu. Tuo fratello sta cercando di darti una mano. –

Gli rido in faccia.

− Oh, guarda, 'Samu. È venuta la mammina a darti una mano. –

− Atsumu... −

Stringo le braccia al petto, alzo il mento, mi giro dall'altra parte.

− Potete andarvene a fare in culo, tutti e due. Non ho né la voglia né il tempo di star dietro a voi due che non capite un cazzo. –

− Sei tu che non capisci un cazzo. –

Oh, Rin, ma quale cattiveria.

− Ah no? E cos'è che dovrei capire, secondo te? –

− Che se la tua anima gemella ti spinge a smettere di mangiare e a farti quello che ti fai, non è la tua anima gemella. –

L'altro Atsumu nella mia mente, prende il sopravvento.

È diventato così stabile, in me, che mi sembra quasi che siamo una cosa sola.

− No, se non ci fosse lui non sarei qui ora. –

− E questo cosa dovrebbe significare? –

Atsumu che discute con Atsumu dentro di me, Atsumu che si mescola con Atsumu.

Perché l'amore è così difficile?

− Scappa, Osamu. – dice la mia voce.

− Perché dovrei... −

− Mi dicevi da piccolo che se mi fissavi negli occhi potevi sentire che cosa stessi pensando, che potevi entrare nel mio cervello. –

− Ed è ancora così, cazzo, io so quello che... −

− Qui, qui non ci entrare. –

Che cos'è, che sento?

Sento tanto dolore, sento tanto senso di colpa. Non sono veramente arrabbiato con Osamu, sono solo invidioso.

Invidioso che questo fardello lo debba portare solo io.

Dall'altra, condividere mi è impossibile, perché Osamu non accetta il mio dolore, non lo vuole, lo rifugge e mi comanda di mandarlo via.

È complicato.

È tutto complicato.

E questa complicazione, io neppure so dove cercarla, che mi fa così male, così tanto male ma non so da dove nasca.

Non dico nient'altro, quando mi giro e torno in camera mia, a pancia piena di niente, con la testa che gira e qualcosa che brucia nella bocca dello stomaco.

Sento Rin parlare con Osamu, ma non li ascolto.

I passi sono leggeri, felpati, doloranti.

Mi portano ad un letto che conosco, ad una porta che chiudo a chiave.

Prendo il sacchetto della spesa sul tappeto, mi siedo a gambe incrociate al centro del materasso, deglutisco la saliva e mi tolgo la felpa.

Le cose si sono evolute in fretta, come se fossero un'onda carica d'odio che arriva da un posto che non conosco e m'investe.

Le cose sono... difficili.

La mia anima gemella mi parla spesso, mi parla di cose belle, mi parla di cose felici. Ma lo fa con il tono così afflitto e così affannato che non riesco a comprendere se quel che mi dice sia per farmi star meglio o meno.

L'ho vista.

Ho chiuso gli occhi e l'ho vista un pochino.

Ha i capelli scuri, sì, sono scuri.

Anche gli occhi sono scuri.

Non ho distinto i tratti del volto, non ho potuto osservarli come avrei voluto, ma ho sentito la sensazione nel petto che provi quando vedi qualcosa di meraviglioso.

La mia anima gemella mi dice spesso che mi ama tanto, e quando me lo dice mi sembra che nulla sia sbagliato, nulla sia storto.

Non mi tocca.

Non lo sento più, il contatto.

Non sento più il premersi morbido dei polpastrelli su di me, non i baci, non il respiro sulla fronte, nulla.

Misofobia, eh?

Paura dello sporco.

Quel che mi distrugge, è che io ne faccia parte, di quello sporco.

Che io sia sporco.

Che qualcuno che mi ama nel modo in cui mi ama lui, come se non ci fosse nient'altro di importante al mondo, dica di me che sono sporco.

Sono sporco?

Sì, lo sono.

Ho insultato mio fratello perché provava a prendersi cura di me, lo sono.

Faccio schifo.

Non c'è nessuno, a questo mondo, che sia più sporco di me.

Il dolore che provo, non è nato dalla mia anima gemella.

Il dolore che provo è nato dall'altro me. È nato dall'altro Atsumu che mi vive dentro, dall'altro Atsumu che si è seduto a gambe incrociate nel bel mezzo del mio cervello.

Lui, è il problema.

Non è l'amore.

Spiegarlo ad Osamu mi è impossibile, perché faccio fatica a capirlo persino io.

L'amore è così bello, ma poi c'è qualcuno che rovina tutto, e quel qualcuno, sono io. Sono l'odio e sono la limitazione, sono la barriera e sono la cattiveria.

Sono il nemico di me stesso.

Sono la rovina dell'amore che vorrei.

L'altro Atsumu mi distrugge.

E il problema è che ora non lo so, se l'altro Atsumu sia un altro Atsumu, o sia io.

Sento una voragine dentro di me.

Sento come se ci fosse qualcosa che aspira ogni grammo di luce e lo rigetta fuori intorbidito e scuro.

Mi guardo allo specchio e vedo un'altra persona, una triste e una sfatta, una inutile e senza sogni, che rovina quel che tocca e non si merita niente.

Vedo un fragile umano che distrugge qualsiasi cosa bella gli venga data.

Io...

Sto a metà fra due condizioni diametralmente opposte.

Sto a metà fra la consapevolezza di essere la causa del mio stesso dolore e la rabbia di non poterci fare niente.

Cosa posso fare?

Prova a sorridere, mi dicevo, i primi tempi.

Ci provavo.

E poi arrivava l'altro Atsumu.

Arrivava lui, e faceva piazza pulita di ogni sentimento che ci fosse.

Non sono triste.

Non è che io sia triste, il problema.

Il problema è che sono vuoto.

In effetti, il discorso è piuttosto semplice.

Una cosa che a me non piace, per esempio, è il pesce. Non mi piace, mi fa schifo. Sa di marcio e l'odore mi disgusta.

Se vedessi un piatto pieno di pesce, l'istinto sarebbe di scappare via.

Di buttare tutto nel cestino, tirare su il sacco, mollare la spazzatura nel bidone.

C'è l'emozione, c'è, ed è un'emozione che mi fa fare qualcosa.

Se quello stesso piatto fosse pieno di carne, che invece adoro, saprei di nuovo cosa fare. Saprei come mettermi il tovagliolo incastrato nella maglia perché quando mangio di gusto mi sporco come un bambino, saprei come afferrare le posate e saprei come mandar giù ogni singolo boccone.

Ma quando quel piatto è vuoto, che cosa fai?

Quando è vuoto, che cosa c'è?

Devi...

Devi cucinare, fare le cose da zero. Ma se quelle cose non sai farle? Se non ne hai la forza?

Devi chiamare d'asporto, ma se gli altri ti mettono a disagio?

Devi pulire, ma se avessi fame?

Devi fare tante cose.

Non hai la forza di farne nessuna.

E quel piatto vuoto, sulla tavola, ci rimane.

Ci rimane e ti guarda, e inizi ad abituarti a vederlo. Inizi a pensare che ci sia qualcosa di confortevole, nel modo in cui è completamente privo di qualsiasi cosa.

È piacevole.

Mica ti fa schifo, un piatto vuoto.

Certo, non ti piace.

Ma non ti fa nemmeno schifo.

Non ti può dare l'indigestione, quel piatto vuoto. Non può rovinarti, non può farti venire il mal di pancia.

Non può farti sorridere, ma non può nemmeno farti piangere.

Il vuoto è meglio del tutto, perché il tutto è una tempesta, e a me piace stare fermo dove non piove, di non poter vedere il Sole non m'importa.

Questo è quello che ho cercato di fare.

Di rimanere nel limbo del nulla.

Ma poi c'è lui.

C'è lui che parla, c'è lui che sussurra, che dice che mi ama, che mi dice che sono importante.

Io sono importante?

Io non lo sono.

Io sono sporco.

Io vorrei non essere altro che polvere, ma nel modo stesso in cui lui mi eleva all'amore di una vita intera, l'altro Atsumu mi riporta sottoterra, con la sporcizia che in me prende vita.

E quindi ad ogni "ti amo", corrisponde la cattiveria di qualcosa che all'altro Atsumu era familiare.

La prima volta che è successo, è quella di cui parlava Osamu.

Le mie mani scavano nella busta del supermercato.

C'è la carta dei cerotti, quella che copre la parte adesiva, ammassata in una palla che scivola fra le dita.

La appoggio sul letto.

La prima volta non ero io.

La prima volta era l'altro.

La testa contro il muro, le ginocchia premute al pavimento, le dita rigide.

Le maniche della maglietta che tengo sotto sono corte e sottili, inizio a sentire particolarmente freddo, ma non m'interessa.

Prendo l'oggetto che cerco al fondo.

Bisogna tenerlo fra le dita e impugnarlo in un modo specifico, per farlo funzionare.

La prima volta era Atsumu della vita difficile.

Questa volta, come prima, come stamattina e come ieri sera, è questo Atsumu.

È vero, che c'è qualcosa di sadicamente meraviglioso, nel farlo.

C'è qualcosa di...

Dolce.

Dolce nel dolore.

Come il sapore del cioccolato nei dolci all'arancia o al limone. Il dolce che arriva alla fine, dopo l'acidità.

Non dovrebbe essere piacevole.

Lo è.

Mi fa sentire strano, mi fa sentire malato e mi fa sentire sporco, ma rimette a posto le cose. Mi riporta al vuoto, al piatto vuoto.

Mi riporta all'equilibrio della bilancia che torna col piatto dritto.

Tu mi dai amore anche se sai che faccio schifo?

Rimetterò tutto a posto riservando a me la violenza che merito.

Osamu si è spaventato, quando è successo.

Avrei voluto chiedergli scusa.

Avrei voluto spiegare.

Ma mi è sembrato che stesse invadendo, che stesse entrando senza ritegno dentro qualcosa che non era per lui.

Mi è sembrato di troppo.

È mia, questa cosa, ok?

È mia.

Non tua.

Vattene, guarda dall'altra parte come hai fatto una vita intera, sparisci dal dolore a cui aspiro, fatti i cazzi tuoi.

Mio.

Tutto mio.

Come l'amore.

Come l'amore che provo, il dolore.

Geloso, della mia sofferenza. È mia, mia soltanto, me la faccio io, me la prendo io, me la do io.

Mia.

Non c'entra nessuno.

Solo io.

Chissà se il destino se lo aspettava, quando ha deciso di darmi un'anima gemella vissuta in una realtà dove l'amore ci ha distrutti.

Chissà cosa si aspettava da me.

Che ricominciassi da capo?

Che apprezzassi quel che era successo e ricordassi col cuore gonfio di gioia la fortuna che ho?

Sono sempre stato un ingrato, nella vita.

Sono sempre stato uno che si lamenta ma invece di fuggire le cose brutte le cerca, per il gusto di avere qualcosa per cui star male.

Anche questo vuoto di cui parlo, in fondo, non è solo la ricerca spasmodica di qualcosa su cui scaricare la violenza che provo per me stesso?

Ho iniziato a pensare di odiarlo, quell'altro Atsumu.

Ho iniziato a pensare che mi rubasse tutto.

Alla fine le parole che sento solo per lui, no?

Non sono mica per me.

E forse questo è il tentativo di diventare lui, forse invece quello di punirlo, ma è tutto così difficile, in un mondo che cerca la semplicità.

Lui e io, siamo la stessa persona?

Non lo so.

Ma da lui ho imparato tante cose.

Ho imparato come esorcizzare i dubbi di qualcosa che da solo non riesco a capire.

Ho visto un documentario, qualche anno fa, sui metodi di internamento dei folli, dei pazzi, delle persone squilibrate.

Non era un documentario fatto bene.

Era un circo di fenomeni da baraccone presentati come se fosse divertente, guardare chi sta male, perché tanto tu te ne stai seduto col culo sul divano e non le provi, certe emozioni, non puoi proprio farlo.

"Guardatelo, lui, pover'uomo, è matto, è malato. Abbiamo dovuto legarlo con la camicia di forza perché gli veniva l'impulso di farsi male, perché prendeva qualsiasi oggetto ci fosse a tiro e lo usava per mutilarsi."

Che ridere, eh?

Chissà quanto dev'essere distrutto uno per ritrovarsi in quel modo.

Chissà quanto schifo deve fare la sua vita.

E se invece non facesse schifo?

E se lo schifo fosse dentro, e fuori non ce ne fosse neppure l'ombra?

E se fosse l'impulso di dare un motivo ad un dolore che non ne ha?

La mia anima gemella non è cattiva.

Sono io, ad esserlo.

Sono io.

Non chiudo gli occhi, perché voglio vedere.

Quando tiro fuori la lametta di ricambio del rasoio comprata al supermercato in una trance che non conoscevo dalla busta di plastica, sporca di sangue e non disinfettata, non chiudo gli occhi.

L'altro Atsumu voleva un rasoio di plastica.

Mi ha detto che erano più sottili, quelle lamette là.

Che facevano meno sangue, meno casino, ma il dolore era lo stesso.

Non ce l'ho fatta, a pensarla come lui, con quella maniacale dissociazione pratica di chi è abituato e formula la soluzione senza sentirsi in colpa.

Lui sguazzava in quella realtà.

Per me è stata una cosa nuova.

Ci sono tanti taglietti, sulle mie braccia.

Alcuni sperimentali, alcuni fatti per provare.

"I polsi no, che rischi grosso", dice Atsumu in me.

Rischi grosso, eh?

Ma non è forse questa la parte divertente?

Avere così tanto potere su te stesso.

Avere così tanto controllo.

È come non mangiare. È come guardare il cibo e vincere se stessi.

Oh, guarda, neppure la fame mi scalfisce. Neppure un bisogno corporeo insito in me che in me dovrebbe avere la meglio, può battermi.

Sono così forte.

Sono così forte nel controllarmi.

E mentre sono forte sono anche nulla, perché se fossi forte per davvero, non avrei bisogno di distruggermi per provarlo.

Mi mordo il labbro quando la lama affonda.

Mi mordo il labbro in qualcosa che non so se sia piacere o dolore.

È bello.

Fa schifo.

Ma è bello.

È inspiegabilmente liberatorio.

Stringo la mano sulle lenzuola, mi serve che il braccio sia più teso, più rigido.

Lo rifaccio.

Quando il taglio è lì, netto, che mi guarda mentre guardo lui, non faccio altro che aspettare.

Ci vuole un po'.

Ci vuole un attimo.

Prima che...

Non è mai come una cascata che scende, il sangue, non è come nei film dove uno affonda il coltello e fiotti scuri spruzzano ovunque.

È gocce.

Goccioline sottili che compaiono.

Una, due, tre.

Se mettessi il dito là sopra, si romperebbero. Ma mi piacciono, tonde, sferiche e panciute che rimangono lì, aggrappate a qualcosa che io stesso ho distrutto.

Non ero un autolesionista, prima che tutto questo iniziasse.

Non lo ero.

Ora lo sono?

O lo è l'Atsumu che vive dentro di me?

In effetti sono io, che lo faccio, io che uso un canale aperto da lui, ma...

Non lo so, se sono io.

Non è un vizio di settimane, è da due giorni che succede. Ero sul mio letto, come sono sempre, ora che le cose succedono dentro e non fuori, aspettavo che la voce tornasse.

Non è tornata.

È arrivato un odore che mi ha fatto venire il voltastomaco.

E ho aperto le finestre, ho spruzzato il mio deodorante per tutta la stanza, ho cercato di rifugiarmi, ma non è cambiato niente.

Quando ho capito che non c'era nessun odore, che era la mia mente, ho chiesto all'altro Atsumu di mandarlo via.

Mi ha portato ad un supermercato, con la carta di credito in mano ed un pacchetto di lamette di ricambio.

E quando ho provato a tornare in me, quando ho provato a capire cosa stesse succedendo, l'odore è tornato ancora, e quell'odore mi ha distrutto.

Un uomo impazzito per un odore.

Sembra una storia poetica, ma è solo lo schifo che ho sentito di fare.

Da lì è stato terrificante.

Non riesco a mangiare.

Osamu mi mette una rabbia incontrollabile.

Niente mi rilassa se non questo.

Per quanto glielo chieda, ad Atsumu, non vuole dirmi che cos'è quell'odore, dice che non riesce a dirlo, dice di fidarmi di lui e lasciarlo fare.

L'ho fatto.

Dove mi ha portato?

In quel mondo, non c'era niente che mi aiutasse.

Non c'era nulla.

C'era solo questo.

Spingo verso l'interno, arrivo pericolosamente vicino alla vena che pulsa sul polso.

Basterebbe così poco.

Basterebbe premere.

Sarebbe un gesto così facile.

Sarebbe così veloce.

Metterebbe fine a molte sofferenze.

Ma riprendo il controllo io, quando quell'Atsumu cerca di spingermi a farlo.

Perché io non sono mai stato questo, e non so perché lo sono diventato. Perché io amo la vita, anche se non è sempre perfetta. Amo la vita e amo vivere, anche se litigo, anche se sbaglio.

No, Atsumu.

Io non sono te.

Non distruggermi.

Fammi del male, perché voglio capire, perché voglio sapere com'era l'amore, per trovarlo una volta ancora.

Ma non distruggere tutto quello che ho.

Mi dispiace dovertelo dire, ma questa realtà è la mia, non la tua, non spandere gli squarci di quello che avevi in un luogo che non ti appartiene.

L'altro Atsumu non ama che lo contraddica.

Mi dice che se fa schifo lui faccio schifo anch'io.

È vero.

È vero, ed è per questo che sto...

Guardarti odiare te stesso è stata la cosa più dolorosa.

Mi fermo.

Mi fermo a mezz'aria, la lama a pochi millimetri dalla pelle.

Come potevi odiarti?

I miei occhi si aprono, si spalancano.

Come potevo...

Eri così perfetto, ai miei occhi, così bello, così dolce. Eri sarcastico e divertente, non mi annoiavo mai. Desideravo così ardentemente toccarti e renderti felice.

Le dita s'irrigidiscono, la lametta cade, sporca di sangue, sul letto.

Non potevo nemmeno guardarti odiare la cosa che amavo con tutto me stesso.

Mi sembro un folle, quando mi piego sopra il letto per guardare il mio volto riflesso nella lametta così piccola.

Mi sembro un folle, quando parlo con un'immagine che sono io.

− Lui ti amava, Atsumu, non lo vedi? Non c'era bisogno che... −

La mia mente mi dice di tacere. Mi dice che è più facile, cercare il dolore dove lo conosci, cercarlo dentro di te, invece che dare agli altri la possibilità di fartene.

− Io non so che cosa vi abbia separati, non lo so. Non posso nemmeno immaginare come sia stato per te, ma perché devi rovinare anche questo? Possiamo stare insieme, ora, perché devi distruggere questa occasione? –

Perché è fatto così, il nostro amore, è fatto per rovinarci.

Non mangi, Atsumu, non mangi.

− Lui voleva che mangiassi, l'ha detto. Lo sento. Perché... perché non ci hai provato? Perché non provi ora? –

Perché provarci vuol dire rimanere delusi.

Io sono stanco di essere deluso.

Volevo renderti felice.

− Lui ti... −

Lo so cosa voleva fare lui, cazzo, lo so. Voleva amarmi, voleva toccarmi, voleva farmi sorridere sempre. Ma non l'ha fatto.

− Può farlo ora. Dammi la possibilità di provare a farlo ora. –

L'unica cosa che ti lascio, è una che ti ho rubato e che devo restituirti.

Dentro la lametta, il mio viso piange.

Dentro la lametta, vedo una storia difficile, vedo una solitudine divorante, vedo una rabbia incontrollabile.

Vedo qualcuno che è stato calpestato, dalla vita.

Ti chiederei di amarla quanto l'ho amata io. Non è possibile. Nessuno l'amerà in quel modo, nessuno.

Non distruggere tutto, Atsumu, ti prego.

Tu soffri, tu sei stato destinato a soffrire, e vorrei che non fosse successo.

Ma ora rivivi dentro di me, e non è per sotterrarmi con il vuoto che volevi provare al posto del dolore che la vita ti aveva dato, è per liberarti del peso che hai.

Ti lascio te stesso, Atsumu. Tu che odi la vita, ora, sei libero. Sei tuo e basta, ricordalo sempre. Sei l'unica cosa che conta, proteggiti, datti l'amore che meriti. Prenditi cura di te. Sono egoista, mentre te lo chiedo, Atsumu, ma vivi.

− Lui voleva che provassi ad amarti. Che provassi ad amare me. –

Non credo di poterlo fare. Non sono fatto per provare amore per me stesso, sono fatto per odiarmi.

− Non lo sei. Nessuno lo è. –

Atsumu, mio Atsumu.

Ti sbagli, voce, io non sono tuo.

Ero tuo.

Ora credo di essere mio.

− Io e te dobbiamo provare a cambiare, o le cose non andranno mai da nessuna parte. Lo so che è difficile, lo so. Lo sento. Ma devi lasciar andare questa cosa, o non saremo mai felici. –

L'Atsumu nella lametta piange ancora.

Sorride.

Non posso lasciar andare quel che mi ha dato lui, è l'amore della mia vita. Senza di lui non sono niente.

− Se non siamo noi a fare il primo passo, quando tornerà non cambierà niente di quello che è successo e non faremo altro che ricominciare a soffrire da capo. –

Sei forte, in questa vita, Atsumu.

Vorrei aver avuto la forza che hai tu.

− Credo di essere io che devo qualcosa alla tua debolezza. –

L'Atsumu nella lametta ha le labbra screpolate, gli zigomi spigolosi e le clavicole sporgenti, la ricrescita, gli occhi tristi. L'Atsumu nella lametta è uno sconfitto, è un inetto, è un miserabile.

− Se non avessimo vissuto quella vita, non saremmo stati in grado di ricominciare. –

Vorrei solo non averlo dovuto perdere.

− Lo ritroveremo, Atsumu, te lo prometto. Lo ritroveremo. Ma non puoi distruggermi, o rimarremo da soli di nuovo. –

L'Atsumu nella lametta sporge la mano.

La sporgo anch'io.

Scompare quando mi alzo, scompare quando, senza rimettermi la felpa, senza sistemare niente, barcollo verso la porta di camera mia.

Io sono sporco.

Io sono la cosa più sporca che ci sia, in questo mondo.

Ma in questo mondo non è detto che lui sia spaventato da quella sporcizia, e navigare nel dolore di un rifiuto che ancora non ho neppure sognato, è solo puro e semplice autolesionismo.

Io non sono un autolesionista.

Lo ero.

Lo sono stato.

Quel dolore l'ho vissuto.

Quel dolore ha trafitto la mia pelle.

Ma ora basta.

Ora... ora basta. Ora basta soffrire, ora basta farsi del male, ora basta scavarsi fino in fondo al corpo alla ricerca di una singola parte di me che vada bene nel marasma di quello che sento non essere altro che sporco.

Sono sporco.

Va bene così.

Se non fossi sporco non sarei vivo, perché il solo atto di vivere, è di per sé qualcosa di sporco.

Il mio peccato originale, quello di tutti.

Anche se faccio schifo, anche se ti faccio venire il voltastomaco, anche se sono disgustoso, materiale, pratico, terrificante.

Ci siamo frantumati nelle pieghe di quel che di noi era sbagliato già una volta.

Ma per quanto si sia stampato in noi, in Atsumu e in lui, e per quanto quella voragine non sarà mai completamente riempita, questo e quel mondo, non sono lo stesso.

Non lo sono.

Magari andrà male.

Magari farà male.

Magari saremo incompatibili, magari litigheremo, magari ci stancheremo di noi stessi.

Ma non possiamo partire con ferite già fatte da qualcosa che è successo in un'altra vita.

Dobbiamo rifarcele daccapo, le nostre ferite.

E amarci in esse, e amarci dall'inizio, perché in questo mondo, ci è stata data l'occasione di ricominciare.

Apro la porta a tentoni, credo di star piangendo talmente tanto da non vederci neppure più tanto bene.

Il mio petto si alza e abbassa a ritmo con fiato che traballa.

− Osamu! –

Osamu è sul divano che piange, Rin gli sta accarezzando i capelli.

Osamu mi vede.

Vede il sangue che gocciola verso il basso.

Ticchetta sul parquet.

− Osamu ho bisogno di aiuto. –

Non mi sta invadendo, quando si alza.

Non mi sta strappando qualcosa che non gli appartiene.

− Ho bisogno che mi aiuti a... −

− Cazzo, 'Tsumu, cazzo, cazzo, cazzo. –

Entra nel mio spazio personale.

Sono sue le braccia che mi sorreggono quando le ginocchia iniziano a farsi molli.

È sua la spalla su cui appoggio la fronte.

− Osamu, io... −

Mi stringe forte.

Rin ci raggiunge.

Lega un braccio alla vita di mio fratello, l'altro alla mia, appoggia la testa sulla mia spalla.

− Sei al sicuro, 'Tsumu. – mormora, la voce pacata e felpata che ha sempre, rilassante nel solo modo in cui esce dalle sue labbra.

Non parlo e non lo fanno loro due.

Continuo a piangere, a piangere abbracciato a mio fratello.

Lui non c'era, in quell'altra vita.

Qualcosa ci aveva separati.

Ma c'è, qui, ed è importante che ci sia.

− Non sei da solo, Atsumu. – lo sento dire fra le lacrime.

Sei libero.

− Lo so, Osamu. Lo so. –

Il mondo aspetta solo te.

Chiudo forte gli occhi.

Dentro di me qualcuno parla.

Scusami, Atsumu, scusami se ho provato ad affossarti com'ero affossato io. Scusa se ho provato a distruggerti, scusa se ti ho fatto male.

Ma non c'è bisogno che l'altro Atsumu si scusi.

Perché lui è me ed io sono lui.

Ed imparerò ad amarlo dove lui non è riuscito.

Non pensare mai di meritartelo. L'unica cosa che meriti è tutta la felicità di questo mondo, e se in questa non succederà troveremo una quadra per la prossima, di vita.

Anche la voce lo dice.

Che l'avremmo trovata, la nostra felicità.

Atsumu, mio Atsumu.

Te lo dico io, non te lo dice la voce, non te lo dice chi da te è stato strappato perché la vita ha voluto così.

Ci proviamo, ok?

Ci proviamo.

Arriverà il momento in cui saremo felici.

Arriverà.

E saremo pronti per poterlo vivere davvero.

Gestire la situazione, da quando ho chiesto una mano, non è diventato meno pesante ma sicuramente meno pericoloso.

È diventato...

Come quando sei malato, diciamo.

Come quando hai la febbre e tua madre ti porta il brodo e ti rimbocca le coperte e ti dice che ti vuole bene.

Della serie, stai una merda, ma quantomeno senti l'affetto e il caldo febbricitante del tuo corpo e ti sembra di essere libero di provare quel male che ti dà l'influenza.

Continua a scavare, questa sensazione, fino al fondo di me.

Ma non lascia il solco frastagliato della violenza, quando smette di scavare, solo bordi che possono essere ricompattati con un po' di pazienza, di affetto, di amore.

Dormo fra Rin e 'Samu.

Dev'essere una merda, avere ventun anni e dover dormire col tuo fratello gemello nello stesso letto in un bel cosplay della famigliola felice, ma non si sono lamentati.

Sono dolci, con me.

Ho spiegato ad Osamu che cosa stesse succedendo.

Perché l'altro Atsumu non voleva farlo?

È così facile raccontare le cose a lui, è qualcuno con cui ho passato una vita intera, mi capisce per davvero, riesce a mettersi nelle prospettive che descrivo, se ho la pazienza di fare in modo che ci prenda confidenza anche lui.

Ha capito.

Quando gli ho detto che la volevo, la mia anima gemella, e che stavo cercando di trovarla senza farmi schiacciare dal dolore che avevo provato, ha capito.

E ha detto che mi avrebbe aiutato.

Perché è questo che si fanno le persone sane.

Si aiutano.

Prendono decisioni e strade per farsi del bene, anche se non sembra che possano prima di provarle.

Cercano di curarsi.

E io sto cercando di curarmi, o quantomeno, di curare l'Atsumu col cuore in frantumi e le braccia martoriate dentro di me.

Rin è quella classica persona freddolosa che ti si appiccica addosso mentre dorme, 'Samu è invece quel genere di egocentrico che si appropria di tutto lo spazio sul materasso come se fosse solo suo.

Dormire con loro è un casino.

Mi risveglio la mattina un disastro.

Ma se il mio cuore si stringe, se lo sento rinsecchirsi, se l'altro Atsumu nel mezzo della notte si sveglia ed urla, so a chi chiedere una mano.

So come fare per potermi fermare.

So qual è la strada che posso prendere.

Credo di essermi concesso una via di fuga.

La voce mi parla tanto, soprattutto di sera, prima che mi addormenti. Mi fa un po' da ninna nanna, il tono che usa, anche se è distante, come se lo usasse da lontano.

Certe volte sento le sue dita percorrere i bordi delle mie mani.

Sento ancora l'odore che mi fa venire il voltastomaco. Lo sento nei giorni in cui la voce è più affettuosa, in quelli in cui mi si avvicina di più, quando sento il suo respiro sul corpo.

Vorrei mandarlo via.

L'altro Atsumu però aveva un unico modo per farlo, e quel modo di me non vorrei che facesse più parte.

Credo di essere arrivato alla conclusione che l'unico modo in cui potrei evitare le conseguenze che quell'odore ha su di me, sia comprenderne il significato e imparare a buttarmelo alle spalle.

Ma mi terrorizza, quell'odore.

Atsumu dice che il suo dolore, è nato lì.

C'era prima, ma è nato lì.

Lì ha capito cosa sarebbe successo. Lì ha sofferto con quell'intensità che l'ha rotto, lì ha perso la sua strenua battaglia con la vita.

Lì si è arreso.

Non so se ho la forza di affrontare quello che l'ha reso il marasma di rabbia e dolore che è ora.

Non ne ho idea.

Sono forte abbastanza?

Posso combattere abbastanza a lungo?

Posso resistere?

Direi di no, se fossi solo com'era solo lui.

Lui non aveva niente, nessuno.

Io ho qualcosa, però, al contrario di chi ero, io ho costruito una sicurezza su fondamenta fatte di persone vere.

Non sono un ragazzo che cerca di rimettersi in piedi da solo.

Non sono un'anima che rifiuta l'aiuto pur di tenersi dentro anche il più piccolo grammo di felicità.

Ho avuto il coraggio, e questo è solo grazie all'Atsumu che non ne ha avuto, di dire che qualcosa s'era rotto.

E ho avuto il coraggio di combattere, quel che s'era rotto.

L'atto finale, è là che mi attende.

L'atto finale si concretizza sotto le mie mani, sotto le mie dita.

Devo solo stringere.

Devo solo impugnare questo dolore e usarlo per ottenere la felicità che mi merito, e che si merita lui.

Lo terrorizza, l'idea di rivivere quella situazione.

Lo spaventa a morte.

Lo sento e lo guardo, nelle superfici riflettenti delle cose che ho attorno, piangere all'idea di doversi gettare una volta ancora nella marea che l'ha fatto sbattere fra gli scogli rompendolo in piccoli pezzi.

Atsumu, l'altro Atsumu, preferirebbe far finta di niente e ricominciare a rovinarsi, pur di non dover vedere quella cosa mai più.

Ma ci siamo promessi, io e me stesso, che avremmo affrontato tutte le salde e alte mura di ciò che non ha preso il verso giusto, e che ne saremmo usciti vincitori.

Per me è una ricerca, per lui una rivalsa.

Le nostre intenzioni si mescolano, e si fanno forza l'un l'altra.

Chi l'avrebbe mai detto, che scoprire l'amore mi avrebbe reso alleato di me stesso.

Credo che sia l'essenza prima, di questa emozione, però.

La situazione principale.

Pensavo che amare se stessi per imparare ad amare gli altri fosse un concetto buonista e semplicistico, pensavo che fosse stupido, che fosse qualcosa che tutti dicono ma non fanno mai.

Ma la realtà è che è vero, che per imparare ad accettare l'esterno, sia necessario avere la pace dentro.

Sono convinto che l'altro Atsumu non avrebbe sofferto così tanto, se invece di scaricare la sua furia sul suo stesso corpo avesse provato per un solo istante a rispettarsi.

Ma so anche che a lui nessuno l'aveva mai insegnato.

So anche che era davvero solo.

So che ora non lo è più.

"Sarò il bastone della tua vecchiaia", mi pare di aver sentito in un film, una volta. Che cosa stupida ma che cosa significativa, penso ora di questa frase.

Non posso essere il bastone della tua vecchiaia, Atsumu, perché non è quella la scala che devi salire.

Ma posso essere la benda della tua ferita, perché è il gradino che devi superare.

Atsumu che ama Atsumu, non è forse questa la morale?

Amati e amerai, imparati ed insegnerai, accettati e accetterai, rispettati e rispetterai.

Parte tutto da te.

Parte tutto dalla persona che sei.

Poi si espande, poi si apre.

Ma come puoi pensare di reggere una casa, se le tue fondamenta sono fatte di carta? Come puoi prendere in braccio la vita, se le tue mani tremano e i tuoi polsi sono feriti?

Prenditi cura di te stesso, e la cura che darai agli altri funzionerà.

Datti il bene che vuoi.

Gli altri riceveranno l'amore che meritano.

Sposto le gambe nello sciabordio dell'acqua che riempie la vasca da bagno.

Ho freddo, fa freddo, questi giorni.

Mi sembra di avere l'influenza, di essere attappato ovunque, ultimamente. Di essermi incollato con la cera ogni apertura verso l'esterno e di aver rinchiuso tutto dentro.

'Samu ha consigliato il bagno caldo.

Ho preso la sua idea e l'ho fatta mia perché aveva ragione.

Rilassarmi.

Avevo bisogno di rilassarmi.

Prendere un grande respiro e cacciarmi a capofitto nel buio che devo esplorare per capire come uscirne.

Tiro indietro i capelli bagnati, si attaccano alle mie mani.

Mi stendo meglio, il mio corpo si rilassa nell'acqua.

Lo facciamo?

Eh, Atsumu, lo facciamo?

Mi guardo riflesso nell'acqua.

Si vede poco, che la luce taglia strana sulla superficie liscia, ma posso delineare me stesso nella forma che carpisco.

− Credi di potercela fare? –

Non lo so, Atsumu. Ho paura.

− Paura di tornare com'eri prima? –

Paura di rompermi e distruggere quel che abbiamo provato a fare assieme.

Vorrei accarezzarlo, quell'Atsumu.

Vorrei infilare la mano dentro l'acqua e poterlo raggiungere per sentire il suo viso, per togliergli le preoccupazioni una ad una.

− Non sei da solo, questa volta. Lo facciamo insieme. –

Vorrei solo che non facesse male a te come ne ha fatto a me.

Sorrido e sorride l'Atsumu dall'altra parte.

− Farà male com'è giusto che ne faccia. Ma credo che sia l'unico modo per mandarlo via. –

Non possiamo scappare ancora?

Infilare le dita fra capelli che sono i miei, per calmarti, per tranquillizzarti. Questo, vorrei fare.

Dirti che va tutto bene.

Che andrà tutto male e per questo andrà bene.

− Scappare dove ci ha portati? –

A odiare noi stessi e a cercare di scomparire.

− Non credi che sia il momento di affrontare le cose? –

Rimane in silenzio.

Un silenzio che sa di pensiero, che sa di incertezza e di tanta, tanta paura.

Oh, Atsumu, mio Atsumu.

Lui ci ha salvati, me l'hai detto tu. Lui ci ha aiutati a tirarci fuori, ci ha dato la libertà, ha rotto le nostre catene.

Ma per romperle, dovevamo averle, prima.

Ed è l'ora di scoprire le catene, per sapere come staccarle anello per anello e volare come voleva che facessimo, come ci meritiamo di fare.

− Penso che dovremmo buttarci, o quantomeno provare a farlo. Atterreremo da qualche parte, non so dove, ma non sarà di certo questa orrenda cosa che sento provi adesso. –

Penso che tu abbia ragione.

Ho ragione, eh? Atsumu non dà ragione a nessuno, credo che l'unica persona sia se stesso.

Quanto legati siamo, dolce immagine di una realtà sofferente?

Siamo noi due contro il mondo.

L'altro Atsumu dice un nome, ad un certo punto, nella mia mente.

Dice "Icaro".

− Icaro? – chiedo, ad alta voce.

Era un ragazzo che nessuno capiva, Atsumu. Era così giovane, così bello, così allegro. Rinchiuso in una torre per il peccato di suo padre, devastato da quello che c'era fuori.

− Noi siamo Icaro? –

Sì.

Icaro amava la vita, ma gliel'avevano strappata via.

Sento dita fra i capelli.

Il primo accenno di contatto da giorni, sottile e tremante ma caldo.

Icaro però guardava il Sole e il Sole lo faceva sentire felice. Lui amava il Sole perché splendeva senza chiedere nulla a nessuno, senza sottostare a nessuna regola. Il Sole lo faceva sentire forte.

− Lui era il nostro Sole, non è vero? –

Credevamo che lo fosse.

Tu sei Icaro, troverai il tuo Sole.

− Se non era il Sole, allora... −

Io non sono il Sole, Icaro, io sono la torre.

Come un macigno che si adagia nel centro del mio petto. Come un peso che si appoggia sulla mia trachea e spinge verso il basso.

Vola verso il Sole, Icaro, lontano dalla tua torre. Vola e sii felice come non potevi essere rinchiuso qua dentro.

Volare verso il Sole, eh?

Ma Icaro si schianta, volando verso il Sole.

− Lui raccontava la sua versione della storia, non è vero? –

È così.

Stringo le dita fra di loro, appoggio il retro delle spalle sul bordo della vasca da bagno, guardo in alto.

− Secondo me possiamo provare a cambiare mito, che dici? –

Che proponi?

Sospiro.

− Perseo e Andromeda. Lei in catene e lui che arriva per salvarla, che te ne pare? –

Non capisco il nesso.

Mi lecco le labbra secche nonostante l'umidità.

− Noi siamo Perseo. Io sono Perseo umano e tu sei la testa delle Gorgone Medusa. La voce è Andromeda catturata che aspetta che qualche prode eroe la tiri fuori dai casini. –

Lui non era per niente una fanciulla in difficoltà, scemo. Era un uomo grande e grosso, altroché.

− Quanto la fai lunga. –

Mi capita di ridere di me stesso, mentre con me stesso parlo.

− Hai proposte più allettanti? –

Selene ed Endimione, ma solo per me e lui nel mondo dove sono vissuto. Tu e lui, in questo, ve la dovete scrivere da soli la vostra storia.

− Selene ed Endimione, eh? –

L'uomo mortale che s'innamora della Luna, che dorme per sempre per non abbandonarla mai mentre lei solca i cieli solo per poterlo guardare.

− Chi è chi? –

Tutti e due entrambi.

Mi piace più di Icaro e il Sole, Endimione e la Luna. È più confortevole, più delicata, in un qualche senso, forse, persino più rassegnata.

Però è una storia d'amore.

Finisce con la separazione, ma non si esaurisce mai.

− Vi amavate davvero, voi due. –

Ci amavamo perché non potevamo fare altro.

Rimango a respirare il vapore del bagno, sommerso dalla sensazione così pacifica dell'amore che risuona nel mio petto.

− Ora sei pronto? –

Sì, ora sono pronto.

Mi sento debole, mentre mi lascio andare. Mi sento piccolo ed esausto nei muscoli che si ammorbidiscono.

Fonditi con me, Atsumu dell'altro mondo.

Rifacciamolo assieme.

Riviviamolo assieme.

Anche se fa male.

Anche se fa soffrire.

Chiudo gli occhi.

Li riapro ma non qui. Li riapro in un mondo a metà, che mescola il letto di camera mia con la casa di qualcun altro.

Li riapro disteso.

− Tu sei la voce. – dicono quattro persone assieme.

Due siamo noi.

Due siamo io e l'altro Atsumu.

Le altre due sono...

Occhi scuri, pelle chiara, spalle larghe.

Ha i capelli fitti, mossi, i tratti eleganti, altezzosi.

È più imponente di me, più alto, i muscoli che si disegnano sulla tela del suo corpo si muovono flettendosi in un modo sensuale e pigro.

Ha due nei sopra il sopracciglio.

Le ciglia sono folte.

Il sorriso è appena accennato, le mani grandi, le gambe lunghe.

Mi guarda negli occhi.

Eccoti.

Non ho mai visto nulla di più bello.

Lascio all'altro Atsumu la libertà di parlare come lui la lascia all'altra persona che vive dentro il suo corpo.

La sua voce la conosco, quando parla.

− Siamo tornati a quello che mi ha ucciso, Atsumu. –

Le mie labbra le muove qualcuno che non sono io.

− È solo per permettere a loro di avere quello che noi non abbiamo avuto, Kiyoomi. −

╰┈➤ ❝ continua

ok allora volevo solo dirvi un paio di cosine

PRIMO) volevo dirvi che spero con tutto il cuore di non aver rappresentato male il disturbo alimentare. conosco tante persone che ci sono passate tra cui molti amici stretti e una ragazza a cui tenevo quando sono stata in comunità che era nel bel mezzo della malattia, ma in prima persona la cosa non mi ha mai riguardato, ho cercato di essere delicata, spero di esserci riuscita.

SECONDO) ahimè invece conosco bene il self-harm, per cui spendo due parole in più su qualcosa che conosco e su cui ho più diritto di parlare. volevo dire solo una cosa, perchè ultimamente vedo molta romanticizzazione di questa cosa e sinceramente mi infastidisce molto, perchè non è una cosa "bella" o "edgy" ma è qualcosa che fa veramente stare una merda, è farti fare il vaccino in mezzo ai tagli con le infermiere che ti guardano con gli occhi sgranati, avere la gente che ti fissa se ti si alza la felpa e rimettersi i cerotti puliti nell'intervallo fra le lezioni mentre dovresti solo sfondarti alle macchinette e fumare.

non è qualcosa di sano, ragazz*.

non è normale, non è sano, non va bene.

è vero che bisogna accettare le cose e bisogna accettare se stessi, ma bisogna anche lavorarci su e chiedere aiuto. vi assicuro che senza aiuto da quello non si esce, e io che sono in terapia psicologica e psichiatrica da quasi sette anni ancora non ne sono uscita.

bisogna chiedere aiuto.

è l'unico modo.

è difficile, lo è, ci vuole tempo per accettare di doverlo fare, lo so. ma non è impossibile, non è sbagliato e non è da deboli.

bisogna agire prima che le cose sfocino in qualcosa di peggio.

che lo so quanto fa schifo il mondo, ma uno prova anche a guardarla da un altro punto di vista.

uno certe volte prova anche a farsi del bene.

per il resto volevo dirvi che lo smut ci sarà (piccol* pervertit* vi conosco), che mi sto lentamente innamorando di questa storia (non perchè sia perfetta o perchè sia bella non sta a me dirlo ma per come mi fa sentire) e che riscrivere di atsumu in questo modo sta un po' riempiendo il vuoto che mi aveva lasciato.

ci vediamo domani per l'atto finale

see u tomorrow e buona viglia my babies <3

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro