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𝚍𝚎𝚗𝚝𝚛𝚘 𝚒 𝚖𝚒𝚎𝚒 𝚟𝚞𝚘𝚝𝚒

⟿ ✿ ship :: BokuAka

➭ ✧❁ SMUT alert :: "Non riesco a mangiarmela, la richiesta, ma cerco di farla nel modo meno impositorio possibile."

➥✱ song :: "Dentro i miei vuoti", Subsonica

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➤♡❆ comfort fic for :: akaashi_is_babie

➠♡༊ written :: 30/06/21

⧉➫ genre :: fluff, chill

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

La terza volta di fila che accade, la terza, la terza scatto.

La terza volta di fila che Bokuto Kōtarō, quel Bokuto Kōtarō, mi torna a casa di notte, senza svegliarmi per salutarmi, senza far niente, si trascina in bagno e poi a letto e si gira dall'altra parte, non riesco a trattenermi.

La terza che Bokuto smette di comportarsi come lui, quella, è la volta in cui capisco che c'è davvero, davvero qualcosa che non va.

Io e Kōtarō viviamo insieme dalla fine del liceo.

Facciamo l'università.

Direi che, tutto sommato, siamo felici.

Sono davvero innamorato. Ho ventun anni, ma sono convinto che questo sia tutto quello che dalla vita posso desiderare. Aspiro a livello lavorativo a realizzarmi, non dubito lo faccia anche il mio ragazzo, ma sotto la voce "amore", la mia vita, non ha niente, niente, niente che debba cambiare.

Ci siamo innamorati da ragazzini, direi.

Ero uno riservato, credo di esserlo tutt'ora.

Ma c'era quel qualcosa di invitante, nella gioia che di Bokuto non solo ti invade ma davvero, ti contagia, che non avevo mai visto. Mi faceva sentire le farfalle nello stomaco.

Mi sembrava di non essere mai completo, quando non c'era.

E le cose sono andate come sono convinto fossero destinate.

Mi ha baciato in spogliatoio. Tutto rosso in viso, come se non ci credesse nemmeno lui, intimidito dalla sua stessa voglia di farlo, con le mani che si raggranellavano sul suo grembo.

"Mipiacitantissimotipregousciamoinsieme", ha detto.

Esattamente in questo modo.

Tutto d'un fiato.

E ho pensato che detto da qualcuno come lui, che non solo è bello ma sa di esserlo, detto da qualcuno che dimostra sempre quel filo di fierezza arrogante delle persone di successo, fosse la cosa più indubbiamente tenera mai vista sulla faccia della Terra.

So di essere arrossito anch'io, quella volta, e di come poi dopo quell'appuntamento ce ne siano stati tanti altri, non è il momento ora di parlare, quel che volevo dire era, ed è, che a ventun anni, ora, io sono davvero, davvero innamorato.

E se ami qualcuno, quando quel qualcuno sta male, allora dentro di te, si accende qualcosa che non ha niente di umano.

L'università non è facile, per Kōtarō.

Non è tagliato per lo studio.

Ma lui vuole farlo, vuole laurearsi, vuole perché gli piace, vuole perché l'ha deciso.

E che abbia difficoltà, non lo fermerà mai.

Certo, un po', potrebbe farlo vacillare.

Mi giro verso la sua schiena col buio che ci inghiotte, più per la sensazione del suo corpo vicino al mio che per altro, e la prima cosa che faccio, forse la più importante, è che lo stringo.

Lascio passare le mie braccia oltre i fianchi del suo busto, spingo la fronte contro il centro della sua schiena, lo incastro con le gambe, e stringo Kōtarō, il mio Kōtarō, davvero davvero forte.

Non so che cosa sia, che l'ha reso così.

Non posso saperlo.

So che non m'interessa.

Che potrebbe essere la cosa più irrisoria come quella più seria, che se lui sta male, a prescindere da quel che da fuori potrei percepire, l'unica cosa che devo fare, è stare con lui.

E Bokuto, quando sa che è al sicuro, smette di fingere di essere invincibile.

Si mette a piangere.

È un ragazzo molto emotivo.

Non c'è niente di male, in questo, anzi, penso sia una delle cose che mi ha fatto innamorare di lui. Il modo in cui non rinchiude tutto dentro se stesso – e se ci prova, come ora, non riesce a reggere molto a lungo – ma si lascia attraversare dalle sensazioni.

Lo trovo ammirevole, adorabile, maturo.

Mi piace tanto, questa cosa, di lui.

Bokuto è un ragazzo alto, ha le spalle larghe, sembra tanto grande e grosso, ma nasconde l'animo di un ragazzino, quando qualcosa lo turba.

Piange e singhiozza senza vergogna, mentre mi stringe le braccia fra le mani grandi e se le porta al petto, come volesse farsi difendere.

All'inizio, lo lascio piangere.

Qui, nella notte, stretto addosso a lui.

Lo lascio singhiozzare, piangere, tutto quel che faccio è stringere più forte, fargli sentire più forte che ci sono, amarlo di più, nonostante non credo sia possibile.

Il suo respiro è frammentato, interrotto, tento di calmare il mio per aiutarlo e poco a poco, nei minuti che scorrono, si calma.

Si calma lentamente.

Inspira ed espira con me.

E quando lo sento tirare su col naso invece di cercare aria per piangere, decido che posso fare qualcos'altro.

Mi allungo verso il suo collo, appoggio le labbra sulla nuca, e senza dire nulla, non faccio altro che baciarlo lì, dove i capelli si arruffano nel loro colore tipico e si incastrano in ciuffi disordinati.

Sfrego il naso contro il principio della spina dorsale, salgo con una gamba all'incavo del fianco e la lascio passare sopra, stringo forte gli avambracci al suo petto e non lo mollo.

Bokuto è grande e grosso, sembra fatto di ferro.

Ma Bokuto è fragile, dentro.

Non è come me, che nascondo la mia debolezza sotto una coltre di mattoni e per quanto le cose mi facciano male, mi giungono sempre attutite dalla mia stessa natura.

Bokuto è uno che la vita la vive in ogni sua parte.

E come è felice, più felice di me quando qualcosa va per il verso giusto, allo stesso modo soffre di più quando invece tutto sembra andare storto.

Ma quel che ho imparato, che lui mi ha insegnato, anzi, è che l'amore è anche proteggersi a vicenda, e questo è il modo in cui io proteggo lui.

So che non posso nascondere la bruttezza del mondo ai suoi occhi, che non posso fare in modo che per lui sia tutto perfetto, ma posso fargli vedere attraverso di me quanto ci sia di meraviglioso in lui nonostante il nero che sembra colargli nella visuale.

Posso dirgli quel che so, tentare di consolarlo.

Perché penso sia anche questo, amarsi.

E Kōtarō io l'amo, ma l'amo davvero in un modo che a parole non trasparirà mai, quanto è forte in me questa sensazione che provo.

− 'Kaashi. – è la prima parola che dice, con la voce lagnosa e trascinata.

Non rispondo, lo bacio un'altra volta sulla nuca.

− Mi... mi giro, ok? –

− Ok. – mormoro di risposta.

Ha gli occhi gonfi, ma sono belli.

Sono sempre belli, i suoi.

Sono dorati, profondi, sinceri, non nascondono niente e brillano senza posa, che sia di felicità, di tristezza.

Dice che sono i miei, ad essere magnetici, ma non sono d'accordo.

Ha la bocca rivolta appena all'ingiù e le guance arrossate di chi ha pianto, le lacrime non sono scomparse, solo diminuite, e si avvicina a me come se volesse rifugiarsi.

Apro le braccia, aspetto che appoggi la testa al centro del mio petto, stringo il suo collo contro di me e lo bacio fra i capelli, più volte.

Non m'interessa, ripeto, perché pianga, al momento.

M'interessa che sappia che può contare su di me.

E che sappia che lo amo.

E questo, questo lo sa.

Prende grandi respiri contro la mia pelle coperta dalla maglietta – una sua, giustamente – e vedo la schiena tremare sempre meno, le mani che non stritolano più la mia vita come fossero un'ancora, più gentili.

Attendo.

Attendo e attendo.

E non lo lascio mai.

Non so quanto tempo sia passato, quando finalmente dice qualcosa.

− Mi hanno bocciato all'esame. La quarta volta. –

Qua molti riderebbero, molti che conoscono di Kōtarō solo la facciata da atleta, molti che pensano che sia stupido.

"Andiamo, ma a che gli serve, la laurea? E in Scienze Motorie, tra l'altro, che cazzo è?"

No.

Non esiste.

Non esiste assolutamente.

Bokuto si vuole laureare.

Gli piace quello che studia, lo fa con tutto il cuore, si applica.

E nessuno, nessuno mi verrà mai a dire che quest'uomo, che ha delle difficoltà, sarà pur vero, non si meriti di avere quel pezzo di carta fra le mani.

− Penso di essere idiota, 'Kaashi. Me lo dicono tutti, magari è vero. Non ci riesco, a passarla, statistica. Sai che la matematica non mi piace. – borbotta poi, strofinandosi forte contro il mio sterno, come a cercare qualcosa.

Infilo le dita fra i suoi capelli, le muovo piano, aspettando che butti fuori tutto.

− È che vorrei tanto laurearmi, ma forse ho fatto il passo più lungo della gamba. Forse mi sono illuso che ce l'avrei fatta, ma andiamo, chi penso di prendere in giro? –

Un'altra ondata di lacrime gli invade il viso, credo, perché la mia maglietta si infradicia ancora.

− Non so più dove sbattere la testa. Non so cosa fare. – conclude, riprendendo la stretta serrata di prima e avvolgendosi a me come se ne andasse della sua stessa vita.

Attendo qualche istante.

Prendo fiato, lo bacio al centro della testa una volta ancora, e cerco di mantenermi il più calmo possibile.

− Io credo che tu possa farcela. E credo anche che tu te lo meriti, Kōtarō. – dico, alla fine, tentando di infondere quel che provo in ogni parola.

− Sono un cretino, Keiji. –

− E allora? –

Quando sente queste due parole, per un attimo, si stacca.

Mi fissa con due grandi occhi d'oro, un miscuglio di confusione e tristezza.

− Non ti riesce la matematica, e allora? Vuoi fare matematica nella vita? –

Scuote la testa.

− Vuoi fare l'atleta. Non sarà un esame a dirti che cosa sei o che cosa puoi diventare. Sei meraviglioso a prescindere da quel che ti dice uno stupido, fottutissimo esame. –

Incertezza che si cementa nel suo volto adorabile.

− Se non la passo non posso laurearmi, 'Kaashi. –

− E allora la passerai. Che ci provi cinque, sei, mille volte. –

Non credo sia bastato, anzi, ne sono certo, quando tira su un'altra volta con il naso e si rimette com'era prima, con il volto sul mio petto.

Riprendo un attimo fiato, lo stringo a me.

− L'intelligenza non è come sai fare i conti, Kōtarō. Non è come sai leggere, non è come studi. L'intelligenza è tante cose, e la tua non è come quella degli altri. Essere diversi non equivale ad essere stupidi. –

È vero.

È dannatamente, seriamente vero.

− Tu non sei uno studioso canonico, è vero, ma sei tante cose, tante, tantissime. E sei un testone che fa le cose se vuole farle, a costo di riprovarci cento volte. La perseveranza e l'impegno valgono più di un trenta, se chiedi a me. –

Impasta le labbra fra di loro.

− Lo dici solo perché stai con me. –

− Lo dico esattamente perché sto con te. Perché so di chi mi sono innamorato, e non è un uomo stupido. –

Si gira di lato, mi trascina con sé, mi guarda dal basso con gli occhi che incontrano i miei per qualche istante, prima di tornare chini.

− Non ho passato l'esame, Keiji, tu come mi chiameresti? –

Sorrido, so che non mi sta guardando ma lo faccio perché so che può sentirlo.

− Se vuoi una lista di aggettivi che ti darei, facciamo mattina. –

Non dice nulla.

− Bravo in matematica, Kōtarō, no. Ma sei empatico, sei adorabile, sei bello, sei dolce, sei premuroso, sei tenero, sei protettivo, sei un po' geloso qualche volta, sei rumoroso, sei perseverante, sei... −

Tira su con il naso e smetto di parlare.

− Non so fare niente. – borbotta.

Gli prendo la faccia fra le mani.

Apro le dita contro le guance, lo tiro su perché mi guardi, sorrido con tutto l'amore che provo.

− Non è affatto vero. –

− Tu lo dici perché... −

− Perché ti amo, Kō, perché ti amo, lo dico. Chi dovrebbe dirtelo, se no? Gli altri non lo sanno, come sei, ma io sì. E sei nel modo in cui devi essere, nulla di più e nulla di meno. –

Si mordicchia il labbro inferiore fra i denti.

− Non posso dirti di non essere deluso, non posso proprio. E se potessi togliere dal mondo tutte le cose che ti fanno stare male, lo farei subito. Ma quello che posso fare è dirti che non è vero che sei stupido, non è vero che sei un illuso e cazzo, non è vero che non sai fare niente. –

Gli si riempiono un'altra volta gli occhi di lacrime, non so se di commozione o di tristezza o di cos'altro possa trovarsi dentro di lui.

− Kōtarō, guardami. – chiedo, poi.

Mi guarda.

Fa un po' di fatica, ma mi guarda.

− Partiamo dall'inizio, ok? Cosa vuoi fare nella vita? –

− Giocare a pallavolo. –

Annuisco.

− Perfetto. Sai farlo. Benissimo. Cos'altro? –

− Vorrei laurearmi in Scienze Motorie. Perché mi piace e perché vorrei che fosse il mio lavoro quando un giorno smetterò di giocare. –

Annuisco un'altra volta.

− Ti piace, hai detto? –

− Mi piace un sacco. –

Non trema d'incertezza, la mia voce, quando parlo, perché non ne ho. Non ne ho nemmeno uno straccio.

− E allora tu ti laureerai. Perché se senti che è la tua strada, tu ce la farai, punto. –

− Ma se non passo... −

− È un solo esame. Un solo, bastardissimo esame. Troveremo un modo, lo facciamo sempre. Chiediamo a Kuroo di darti una mano a studiare, a qualcun altro, come vuoi. Ma è uno solo, non dice niente su quello che sei. –

Si asciuga la faccia con il polso.

− Ma... −

− Non ci sono "ma", Kōtarō, non ci sono cose che mi faranno cambiare idea. Non mi convincerai che non puoi farcela in nessun modo. –

Grandi, i suoi occhi, si fanno grandi e vitrei.

− Da... davvero? –

− Davvero. –

Quando si china un'altra volta per abbracciarmi, non si nasconde. Mi avvolge con lo stesso bisogno, ma mi guarda in viso, il volto sul cuscino e le labbra tese in una linea.

Gli accarezzo la guancia, strofino la punta del naso contro la sua.

− Non so chi ti abbia convinto che non puoi farcela, se sei tu o qualche stronzo a cui farò il culo un giorno o l'altro, ma non è vero. Non serve fretta, per combinare qualcosa, serve volerlo fare. Non trasformare la tua visione di te in fallimento perché qualcosa non ti riesce, sai quante te ne restano che sai fare bene? –

Sporge il labbro.

− Tipo? –

Sorrido.

− Come sono, io, secondo te? –

Incrocia le sopracciglia, non capisce.

− Ma ora che cosa c'entra? –

− Rispondimi e basta. –

Ci pensa un po' su, vedo un'ombra di un sorriso formarsi fra le sue labbra.

− Sei la cosa più bella del mondo. E sei forte, sei sicuro di te, sei intelligente, sei... indipendente, Keiji. –

Un po' arrossisco, perché i complimenti mi fanno quest'effetto, ma scuoto via l'incertezza e respiro per arrivare al punto.

− Mi conosci, non credi? –

− Insomma, penso... di sì. Ti conosco, Keiji. –

Vorrei baciare via tutta l'incertezza che si spande sul suo viso con le mie labbra sulle sue, ma non è di questo che ha bisogno, ora.

Inspiro.

− Pensi di riuscire a pensare come penso io, per un attimo? –

Di nuovo, non sembra capire appieno la mia richiesta. Annuisce, però.

− Forse. –

− Ok, allora prova a pensare come me. Come sei tu, secondo me? –

La domanda lo ammutolisce.

Rimane zitto, fermo.

− Io? –

− Esatto. –

Si gratta la nuca un po' interdetto, distoglie lo sguardo.

− Non... io non lo... −

− Pensa come me. Prova a pensare come me. –

Zitto una volta ancora.

Riallinea il suo sguardo col mio e, quando lo fa, c'è una decisione diversa nel suo sguardo. Sembra squadrarmi le iridi chiare come volesse tuffarcisi dentro, carpirne la verità.

So che c'è una minuscola immagine di quello che è, là dentro, riflessa.

Vorrei che la guardasse.

Vorrei che si vedesse, anche se solo per un attimo, attraverso i miei occhi. Che desse una chance ad un'interpretazione di lui che lo adora, la mia.

− Faccio un sacco di casino, secondo te. – inizia.

Non rido, ma mi si alzano gli angoli della bocca.

− Sono rumoroso, attiro un sacco l'attenzione. Ma non ti dà fastidio, anzi. Secondo me... ti piace. –

Faccio "sì" con la testa.

Ha ragione.

− Rido fortissimo, quando lo faccio. Le persone si girano per strada a guardarmi, ma tu pensi che sia carina, questa cosa. Ti piace che io sia... emotivo. –

Ripeto lo stesso gesto.

− Sono un bravo giocatore. Sei sempre fiero di me quando vieni alle partite, perché sono forte. E arrossisci sulla punta del naso quando segno un punto e mi giro per dedicartelo. –

Sembrano un fiume, le cose che dice, una più vera dell'altra. Non c'è menzogna, non autocelebrazione, solo esattamente, in senso puro, quello che io penso di lui.

Nient'altro.

− Ti fa arrabbiare quando non lavo i piatti e ti dico che l'ho fatto perché non ho voglia. Ma ti diverti quando lo facciamo insieme, anche se fai tutto tu, perché ti abbraccio mentre sei al lavello e ti do un sacco di baci. –

Le lacrime si diradano, sui suoi occhi, che rimangono umidi ma meno afflitti, più onesti.

Lo sento, quando la gioia ricomincia a fluirgli in corpo, perché sembra che ricominci a brillare, nonostante il buio al quale mi sono abituato, nonostante tutto.

− Tu credi tanto in me, e ci sei sempre. Penso che sia perché mi ami, ma anche perché mi vuoi bene. Non mi abbandoni mai, anche se sono un disastro. Penso... penso di essere... −

Si blocca.

Mi avvicino alle sue labbra, appoggio la mano contro la sua guancia, scorro le dita contro il collo.

− Come sei, secondo me, Kōtarō? –

Lo dice con commozione, quando lo dice, non perché non ci creda, più perché non credeva di averne il diritto.

Ma invece ce l'ha, il diritto di dirlo.

È vero.

− Penso di renderti tanto felice, Keiji. –

Stringo più forte, fortissimo il suo collo fra le braccia, aderisco completamente al suo corpo e annuisco senza nemmeno guardarlo, contro la sua pelle.

− Tanto, tanto felice. –

Si scioglie.

Si scioglie come se tutta l'ansia di prima, raggrumata contro la sua pelle, se ne fosse improvvisamente andata e si lascia abbracciare.

− Lo so che magari non è andato bene, l'esame, lo so, lo so davvero. Ma non sei solo quello, sei tante, tante cose, non sminuirti così. – blatero senza il minimo senso contro l'incavo del suo collo, chiudendo le labbra l'istante subito dopo solo per stamparle sui muscoli lunghi delle spalle.

− Keiji... −

− Ti amo, Kō. Ti amo tanto, tanto, tanto, tanto. Sei la cosa migliore della mia vita. Non smetterai di esserlo perché non sei bravo in matematica. –

Mi tira su di peso, mi stacca dal suo petto e mi guarda in viso, prima di fare quello che aspettavo facesse da tutta, tutta la sera.

Mi bacia.

Mi bacia e sento tante cose, sulle sue labbra che conosco, tante e tutte diverse, sulle mani che mi stringono e sul corpo che si rilassa sul mio e sul respiro che si mescola.

− Che cosa ho fatto per meritarti, Keiji? – borbotta quando si stacca, con gli occhi che brillano.

− Tutto, Kō, hai fatto tutto. –

È tutto un po' un casino, io e la mia maglietta fradicia e lui e i suoi capelli arruffati e il letto, non so bene cosa accada o come, so solo che continuiamo a volerci bene per un po', a baciarci per un po', a farci le coccole e basta.

Ho bisogno, quasi, che lo senta.

Che lo amo davvero, e che vale, come persona, perché vale e nessuno mi dirà mai il contrario.

So che in ogni caso la ferita è fresca, lo so bene, e non posso cancellarla.

Ma posso almeno tentare.

Non ho idea di che ore siano quando il suo viso torna ad ingrigirsi e l'espressione è meno allegra, so che gli bacio la fronte.

Lo capisco anche da come mi guarda.

Credo che sia il beneficio di essere anime gemelle.

− Leggiamo un libro, Kō? – chiedo.

Devo distrarlo.

E questa è la prima cosa che mi viene in mente.

Kōtarō è dislessico.

Ha provato qualche volta a descrivermi com'è, esserlo, e non credo di averci capito poi molto. Tutto quel che so è che tremano, le lettere, quando le guarda, e si sovrappongono e si mescolano, fino a sembrare tutte uguali.

Le persone sono cattive, con chi è dislessico.

Le persone sono cattive con chiunque, in realtà.

Non c'è niente di male, invece, ad esserlo. Fa fatica a firmare i contratti di lavoro perché si vergogna a far vedere che ha bisogno di tempo per leggere quelle poche righe, a studiare ci mette tanto.

Gli piace la narrativa, però. Lo interessa, come i film, forse di più.

Ho iniziato a leggergli ad alta voce che facevamo ancora il liceo. In pullman per andare in trasferta, si sedeva al mio fianco con quella faccia da cane bastonato dicendo che si annoiava, che non aveva niente da fare e che voleva compagnia.

Stavo leggendo Ishiguro, quando me l'ha chiesto, e i romanzi di quell'uomo mi piacevano troppo persino per Kōtarō.

"Posso leggerti ad alta voce? Scusami, ma mi piace davvero, questo libro", mi pare di aver risposto, anche se ne ricordo poco.

E al contrario di quanto mi aspettassi superficialmente, Kōtarō si era davvero messo ad ascoltarmi. Non era distratto, anzi, quasi forse più preso di me, ad ascoltare le reminiscenze di un maggiordomo in viaggio fra le pagine di "Quel che resta del giorno".

Kōtarō ama leggere.

Lo fa attraverso di me.

− Che cosa... che cosa hai comprato? –

Mi tiro su sulla testiera del letto, la schiena dritta, mi sporgo per accendere l'abat-jour. Distinguevo di lui i tratti, prima, ma quando la luce lo illumina si aggiungono anche i colori, all'immagine che intravedevo.

Bello, Kōtarō.

− Sono andato al club del libro con Suga e Oikawa, l'altro giorno, e parlavano di questo. – commento, sporgendomi verso il mio nuovo acquisto.

Mi ha incuriosito il titolo.

− Come si chiama? –

− "Il profumo". –

Sul rovescio di copertina penso di aver letto qualcosa, ma non mi ricordo bene cosa fosse.

− Oikawa dice che è un romanzo sensuale, ma Oikawa lo dice più o meno di tutto. Credo sia un po' fissato. – scherzo, rigirandolo fra le mani.

L'ho comprato usato, al club del libro succede che ne portino copie vecchie e oltre a costare meno hanno quel fascino del passaparola letterario che ingiallisce le pagine e piega i bordi delle copertine.

− Oikawa mi fa un sacco paura. – mugugna di rimando Kō, annuendo davvero convinto.

In effetti.

Non so cosa potrebbe succedere, a mettersi contro qualcuno del genere.

Esiste una posizione da lettura, a casa nostra.

Esiste e nessuno dei due se ne vergogna.

Io apro le gambe, Kō ci si infila in mezzo, spiaccica tutto il suo enorme essere sopra di me – che sono esile ma non fragile, e non mi sento schiacciato – e appoggia il mento sopra gli avambracci incrociati sul mio petto.

Ha gli occhi vispi, quando leggiamo, e rimane in un silenzio quasi sacro.

− Secondo te ci piacerà? –

− Non ne ho idea. –

Mi allungo verso il comodino per prendere gli occhiali, li apro e appoggio sul mio viso, scorro le pagine e faccio quella cosa orribile che non riesco a risparmiarmi di girare la copertina su se stessa per tenere il libro con una mano sola.

Sto per iniziare, quando Kō mi bacia lo sterno con affetto.

− Grazie. Per tutto quello che fai, Keiji. Grazie. –

Inizio a leggere prima di mettermi a piangere.

Me ne rendo conto quasi con amarezza, con un filo di disgusto, persino, che Oikawa aveva ragione. Davvero, davvero ragione.

Questo libro è sensuale.

Più che sensuale, dovessi usare una parola, è decisamente carnale.

"Il profumo" è un titolo davvero adatto.

Descrive, questo è un libro che descrive, ma mai mi era capitato di leggere, descritto, qualcosa come un odore.

Ed è tremendamente nuova, la sensazione.

Dare nomi ai profumi, sembra impensabile.

E invece si ricollega con un senso che proviamo ma dal quale siamo tanto distanti, mette in luce qualche dettaglio naturalmente umano, al punto da farti sembrare tutto una scoperta.

Quanto è vero, che l'odore ci contraddistingue.

Quanto che tutto, abbia un odore, che i ricordi persino, lo abbiano.

La descrizione del profumo di questo autore è sensuale, Oikawa, ripeto, aveva ragione.

E se sei col tuo ragazzo addosso, a leggere ad alta voce dei toni e delle tonalità dell'odore dell'attrazione più pura e carnale, allora, te ne rendi davvero conto.

Abbiamo mollato il libro aperto sul comodino.

Kō mi annusa da cinque minuti.

Mi rigira e impasta fra le mani come fossi una bambola di pezza, incastra il naso in ogni angolo, mugugna e ripete frasi a mezza voce.

− Qui, qui... profumi diverso. – mi fa notare, in un preciso minuscolo angolino della mia pelle, che preme con le dita.

Sorrido.

− Di cosa profumo? –

− Tipo di... di fiori, credo. –

− In questo punto? –

Fa spallucce, si allontana un po'.

− Profumi tutto, ma in quel punto si sente meglio. –

Traccio con lo sguardo la linea della sua mano, poi stringo le sue spalle larghe fra le mani e lo distolgo appena da me.

Raggiungo con la punta del naso specularmente lo stesso punto, sul suo corpo.

Inspiro.

Tante, tante cose.

Non saprei dare un nome a tutte.

Rimango fermo, quasi incantato, a inspirare forte la fragranza speziata del ragazzo di cui sono tanto innamorato.

− Profumo anche io? –

− Sì. –

Non so se sono pronto a parlare, so che come il protagonista del libro che ci ha condotti qui, ho solo la smania di annusare ancora, ancora, ancora.

Lo faccio.

Più volte.

− Di cosa? –

Già, di cosa?

Chiudo gli occhi, lascio che le immagini scorrano nella mia mente, finché una non si fa più nitida, più chiara.

− Se la luce del sole avesse un odore, sarebbe questo odore. –

Risponde con un "ooh" adorabile, a metà fra l'apprezzamento e la curiosità.

Poi in modo ridicolo e davvero carino, prova ad annusarsi da solo.

− Non lo sento, Keiji. – si lagna.

Lo rimprovero pizzicandogli la guancia.

− Perché lo posso sentire solo io. –

− Solo tu? –

Annuisco convinto.

− Sì, assolutamente. –

Ci pensa un po' su, poi la risposta sembra andargli giù e iniziare a piacergli, e sorride soddisfatto.

− Già, solo tu. – ripete.

So quando l'atmosfera cambia quando so che il suo corpo lo sento più presente contro di me.

Non che non ci fosse, prima.

Ma ora c'è di più.

− E di cosa so? –

− Scusami? –

Si avvicina col naso contro il mio e finalmente, sorride.

− Che sapore ho? Lo sai solo tu, che sapore ho. –

Inghiottisco la saliva.

− Sai di... di... −

− Non lo sai? –

Mi bacia prima che riesca a rispondere, questa volta in modo più sensuale, non disperato come prima, e di questo sono felice, con le labbra spalancate contro le mie.

Mi lascio catturare dalla sensazione e mi concentro, al punto da analizzarne ogni singolo elemento.

La risposta a cui giungo, poi, però, è una sola.

− Sai di te, Kōtarō. –

Ride.

− Anche tu sai di te, Keiji. –

Lo tiro a me perché mi baci senza aspettare che prenda l'iniziativa, quasi curioso di scoprire qualcosa che conosco ormai bene.

− Ancora, fammi sentire ancora un po'. – chiedo, prima di chiudere forte gli occhi e lasciarmi invadere da quello che è.

Mi stacco col fiatone.

E mi stacco lievemente più eccitato di quanto penso dovrei essere dopo aver passato ore a consolare il mio adorabile ragazzo.

Non riesco a mangiarmela, la richiesta, ma cerco di farla nel modo meno impositorio possibile.

− Possiamo... insomma, se ti va, possiamo farlo? Se non te la senti non c'è nessun problema, ma insomma, io... −

Sorride a metà, annuisce.

− Ho bisogno, Keiji. Ne ho bisogno. –

Un'ondata di sollievo mi pervade, ma con quella anche la perdita delle inibizioni.

− Perché mi sento forte quando mi guardi, ma quando facciamo quello, insomma... non c'è niente che non vada quando sono dentro di te, Keiji. – si spiega.

Miseria.

Miseria, cazzo.

Maledetto Kōtarō, un minuto prima un cucciolino indifeso e due righe dopo questo agglomerato di tentazione e onestà.

− Volevi che ti consolassi in quel modo? – chiedo, poi, indietreggiando dalla sua stretta per levarmi di dosso la maglietta.

Scuote la testa.

− In realtà volevo dormire e far finta di nulla. Ma tu sai sempre cosa fare, quindi facciamo quello che vuoi tu e basta. Tanto hai sempre ragione. – mi prende in giro, aiutandomi a spogliarmi.

Ho le mutande, sotto, ma durano meno di un istante.

Mi spiaccica sul letto, inerme.

Prende qualcosa dal comodino – il lubrificante, immagino – ma non mi lascia sfuggire, anzi. Mi tiene attaccato al materasso in attesa, mi fissa come volesse mangiarmi.

− È da un po', che volevo chiedertelo, in realtà. Da quando mi hai detto che ti rendo felice. Non so perché ma vedere che mi ami mi eccita. – aggiunge, con un tono quasi intimidito.

Rido, la pelle nuda nella stanza fredda.

− Non che non mi piaccia leggere con te, sia mai! Ma insomma, ecco... siamo a letto, e io sono tanto triste, e tu sei bello e mi abbracci, ecco... −

Gli prendo il viso fra le mani.

− La prossima volta mettiamo il sesso prima del libro, ricevuto. –

Annuisce.

− Tu sai sempre tutto, 'Kaashi. Sei un genio. –

Mi bacia forte un'altra volta, non si spoglia ma si infila fra le mie gambe. Non abbiamo fretta, mai quando facciamo questo tipo di cose, ma siamo stanchi e abbiamo subito così tante emozioni, negli ultimi momenti, che sembra ci sia una tensione forte, nella stanza.

Si stacca da me, mi guarda le labbra, apre il tubetto con i denti.

− Apri le gambe, Keiji. –

Apro le gambe.

Erano già aperte, ma le apro di più. Prima un po', magari, mi metteva in soggezione che mi guardasse in modo così aperto, ora invece credo mi dia soltanto una sensazione adrenalinica che si inerpica nel mio corpo fino al midollo.

Mi piace, quando mi guarda.

Da morire.

− Se posso passare la notte a sentirti dire che mi ami e a fare questo ogni volta che non passo un esame penso che darò statistica fino alla morte. – commenta, e ridacchio alla battuta.

Annuisco.

− Stai dicendo che guardarmi nudo ti fa piacere la matematica? –

− Guardarti nudo mi fa venir voglia di lottare per la pace nel mondo, altroché. –

Scoppio a ridere.

− Non sapevo di avere questo potere. –

− Ce l'hai, cazzo. Ce l'hai. –

Si tratta di attimi, prima che senta il lubrificante contro la mia pelle.

Tremo.

È freddo e... non lo facciamo da un po'.

So che tre giorni non sono abbastanza per lamentarsi, ma certo se sei abituato come me a fare un certo tipo di cose, iniziano a farsi persino sentire.

− Pia... piano, Kō. –

Annuisce.

− Piano come piace a te, Keiji. –

Cazzo.

A me non piace piano.

Non faccio in tempo a dire altro che una delle sue mani – enormi, perché sono davvero enormi – stringe la carne chiara della mia coscia destra e la tiene ferma contro il materasso mentre l'altra, con un'urgenza che poco si addice alla situazione domestica in cui siamo, entra dentro di me in un unico gesto fluido.

Mi mordo il labbro.

Gemo lo stesso.

− Kōtarō! – tento di rimproverarlo, ma c'è troppo "ancora" nascosto nelle mie parole perché il messaggio sia comprensibile.

− Keiji? –

Si lecca il centro delle labbra, un gesto quasi di riflesso, mi rivolge gli occhi dorati e muove la mano un'altra volta.

Ripete il mio nome.

Vorrei quasi urlargli in faccia.

Come, Kōtarō, come? Come fa la tua faccia ad essere stata spiaccicata sul mio petto interi momenti mentre piangevi ed essere ora l'apoteosi dell'arroganza, come?

Impossibile.

− Male? – mi chiede, poi, più per abitudine che altro.

Scuoto la testa.

No, male no.

È che ho paura di durare troppo poco, se lo fai con quest'intensità.

− Perfetto. –

Non smette di muovere la mano e dedica la sua intera attenzione alle mie cosce. Le bacia, la carne chiara all'interno, le riempie di minuscoli baci costellandole piano, e... annusa.

− Cazzo, profumi anche qui. – commenta, prima di leccarne la superficie morbida.

− E hai anche un buon sapore. –

Risponderei a tono, ma non credo di averne il potere, anzi. Kō sa quel che fa nel modo in cui mi tocca, sfiora e preme quell'esatto punto dentro di me, e i gemiti sovrastano le parole che vorrei dire.

So che prima di rendermene conto sto muovendo i fianchi contro di lui.

− Sai di tutte le cose buone del mondo. Vorrei mangiarti, se potessi. – continua, fissandomi di sottecchi con la mano esattamente dove tutti sappiamo che è.

Miseria, il movimento accentua persino i muscoli delle sue braccia.

− Aspetta, ma posso. – è l'ultima cosa che dice prima di serrare i denti sulle mie cosce.

Non mi fa male.

È intenso, non doloroso.

Morde e succhia la pelle nello stesso momento in cui apre le dita fra di loro come se volesse fare spazio per lui dentro di me, e tutto quello che so è che all'improvviso, tutto diventa troppo.

Sono stanco, sono preoccupato e sono sensibile perché l'ho visto triste e vederlo triste mi fa un male che non si può spiegare a parole.

Sono accaldato per quel maledetto libro.

E sono inarcato sul letto perché il mio ragazzo sta tentando di ingoiarmi intero come se fosse la cosa più importante che volesse fare.

− Kōtarō, Kō... basta, basta, basta o io... − inizio a sputare fuori, senza controllo.

Mi guarda dal basso.

Alza un sopracciglio.

Sa cosa sta facendo.

Morde forte con gli occhi fissi sui miei, la mano in fondo dentro di me, inarca le dita e mi spezzo. Sarò forte, sarò un gran consolatore, ma ahimè, non sono fatto di ferro.

E sono quasi costretto a farlo.

Sento la schiena staccarsi dal materasso, inarcarsi nell'aria, la testa cade indietro e...

Scomparsa.

La mano dentro di me, scomparsa.

Il piacere cade come fosse costruito di cartapesta e una folata di vento l'avesse investito.

Mi adagio sul letto con le ginocchia che si chiudono, lo stomaco che si stringe e quel che esce dalle mie labbra altro non è che puro, semplice fastidio.

− Kōtarō! –

Ride.

Ride piano, questo stronzo, aspettando che il mio corpo si ammorbidisca.

Mi apre le cosce con le mani, si sistema verso di me, parla mentre spreme altro lubrificante fra noi.

− Scusa, scusa. Sei bello quando lo fai e volevo che venissi con me. – si giustifica.

Stringo gli occhi.

− Sono bello quando lo faccio? –

Annuisce.

− Ah-ah, e sei più sensibile dopo. –

Sono a tanto così dal picchiarlo che mi tira su il bacino con le mani, si piega verso di me e mentre mi bacia, entra nel mio corpo come se nulla fosse.

Tranne che mi sembra di andare a fuoco.

È vero, sono più sensibile dopo.

Il problema è quanto sensibile.

− Ah, cazzo, sempre... ah... sempre meglio. – lo sento dire, aspettando che mi adatti con la testa contro la mia spalla.

Afferro la sua schiena con le mani.

Pianto le unghie sulle scapole.

− Muoviti, Kōtarō. –

Giocosamente, mi sfrega il naso contro il suo, mi lascia un bacetto veloce sulle labbra.

− Se no? –

La mia mano si muove sulla sua schiena, sento la carne graffiarsi fra le mie dita.

− Ti ammazzo. –

− Sarebbe una bella morte. –

Il suo bacino fa un movimento che lo fa quasi uscire da me, indietro, e l'istante dopo eccolo, completamente, inevitabilmente dentro di me.

− Cazzo! –

Non sono volgare, ma mi esce, non posso farci niente.

Mi tiene saldo con le mani, forte che potrebbe distruggermi, sembra, prima di farlo un'altra volta.

Questa volta, "cazzo", lo dice lui.

E poi di nuovo io.

E poi insieme.

Mi aggrappo letteralmente alla sua schiena, non trovando altro punto d'appoggio, incrocio una gamba dietro la sua vita mentre, letteralmente, mi sbatte contro il materasso.

Più forte, sempre più forte, più forte.

- Keiji, Keiji, Keiji... - lo sento ripetere, parlare di me, adorarmi.

Mi viene caldo, mi sento caldo, quando mi ama in questo modo.

Non riesco a sorridere come vorrei, ho la testa che cade indietro senza che ne abbia il minimo controllo, le labbra aperte, la saliva che cola appena dall'angolo della bocca.

Mi mancava, questo.

Mi mancava sentirlo.

Sentire che c'è, sentire che ci siamo tutti e due.

Le sue mani sono ruvide, contro di me, mi tengono fermo e serrato e saldo, mi toccano ovunque.

Ma non c'è parte di me che non vorrei non toccasse, non una che non sia già sua, per cui non temo il contatto, no, lo desidero.

C'è sempre un momento, quando tutto ciò che è razionale si sfalda e inizia a prendere potere la parte ferina di noi, in cui nulla sembra avere più importanza, tranne la tempesta delle cose che sentiamo l'uno per l'altro.

È in quel momento, che di solito iniziamo a dirci che ci amiamo.

Più del solito.

Lui mi dice che mi ama, io rispondo che lo amo.

Lui mi prende più forte, io mi aggrappo con più violenza, lui è più aggressivo, io mi inarco come fossi un filo d'erba, lui mi bacia e io lo bacio.

È quel momento in cui diventiamo una cosa sola, credo.

Più del solito.

Direi un ricongiungimento.

Ci ricongiungiamo.

Ci amiamo in un modo che si vede, non solo con le parole, con tutto. Con ogni angolo di noi stessi.

E non credo il mio amore sarà mai più bruciante di quando lo sto dando a quest'uomo.

Ha ragione, che il mio orgasmo è più forte, se me lo nega prima.

Ma sarebbe forte lo stesso.

Perché fare questo con chi ami, ti rende così.

Veniamo insieme.

Come voleva lui, come in fondo volevo anch'io.

Stretti e abbracciati, insieme nella notte, nell'aria satura di tutte le cose che sono successe, che ci sono successe.

Sembra di tirare via qualcosa dal mio petto, quando vengo e quando sento lui venire dentro di me.

Come se mi liberassi.

E dopo non c'è nulla.

Nulla che non sia Kōtarō.

Solo lui.

Che sorride.

Finalmente sorride.

Libero e liberato dal peso di non essere nessuno, che si specchia nei miei occhi e sente, vede l'amore che provo per lui, tutto.

− Sei l'amore della mia vita. – riesco a dire, prim'ancora che esca da me.

Sorride.

− E tu sei l'amore della mia. –

E come tutto è iniziato, prima della tempesta di se stesso, si stende al mio fianco, uscendo da me.

Dovremmo lavarci, ci penseremo domani.

Questa volta non si nasconde, non si gira, non aspetta che sia io a tirar fuori da lui la rabbia e la frustrazione che prova, no.

Mi guarda in faccia.

E si addormenta così, bocciato all'esame ma felice, felice un po' perché ci sono io, perché si guarda coi miei occhi, felice perché è come dev'essere.

Le ultime parole le mormoro ripetendo le sue, innamorato di lui e della vita, di noi.

− Tu mi rendi tanto, tanto, tanto felice. −

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➠♡༊ special thanks to esserechemangia (like she's too talented even for me) che fa i doodles adorabili della bokuaka ily

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