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𝚊 𝚌𝚑𝚛𝚒𝚜𝚝𝚖𝚊𝚜 𝚖𝚊𝚜𝚑𝚞𝚙 :: 𝟸

⟿ ✿ ship :: KuroKen, IwaOi, KageHina, BokuAka, LevYaku

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➠♡༊ written :: 25/12/20

⧉➫ genre :: fluff

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✧*̥˚ Kuroo e Kenma *̥˚✧

Rientro a casa che sono, obiettivamente, sulla via dell'ibernazione.

Le mie dita sono congelate, lunghe e fredde, il collo nemmeno lo sento più, e non parliamo della faccia. Domani potrei davvero avere uno di quei raffreddori epocali, dopo questo.

Ma perché sono deliberatamente diventato un pezzo di ghiaccio, chiederete voi.

Perché?

Il motivo è di tutto rispetto.

Il regalo di Kenma.

Ok, non prendevi male. Non è che me ne fossi dimenticato, che abbia deciso di uscire all'ultimo per comprarlo, è che non c'era davvero altro modo.

Il restock della Play Station 5 era stanotte. Non un giorno prima, non uno dopo.

Sarebbe diventata disponibile in negozio alle otto di mattina in punto, e non potevo perdermela. Non dopo che Ken si è lamentato per mesi che fosse introvabile, che ne aveva bisogno per lavoro, che non riusciva a completare la sua collezione di console senza quella.

Quindi, prevedibilmente, come un bravo figlio del sistema capitalistico, sono andato a fare la fila.

Dalle dieci di sera.

Al freddo.

Il ventiquattro dicembre.

Sono o non sono il fidanzato migliore della terra?

Lo sono.

Lascio le scarpe all'ingresso, sfrego le mani fra di loro per scaldarle un po', appendo sciarpa e cappotto sull'appendiabiti e mi concedo di rilassarmi nel calore del riscaldamento di casa.

Che meraviglia, sento quasi la vita che ricomincia a scorrermi nelle vene.

Mollo la scatola dell'oggetto per cui ho tanto penato sul tavolino del salotto, e procedo a cercare il mio piccolo fidanzato con gli occhi ambrati.

Prevedibilmente, dorme ancora.

Ha storto il naso e si è appena lamentato ieri sera, quando mi sono inventato la prima scusa disponibile - ho ovviamente detto che Bokuto aveva bisogno di me, grazie bro per prenderti sempre la colpa − e me ne sono andato.

Ora è rannicchiato addosso al mio cuscino, i capelli chiari arruffati attorno al viso e una mia felpa indosso che sembra stargli come minimo tre taglie più grande del dovuto.

Oh, piccolo Kenma.

Mi avvicino per guardarlo meglio, ma sono stanco, e infreddolito, quindi inciampo sul bordo del letto e cado faccia in avanti sul materasso, svegliandolo.

Si stropiccia gli occhi con una mano.

− Tetsu? Sei tu? - chiede, la voce ancora raschiata dal sonno.

E chi credeva che fossi? Ha per caso un amante segreto? Oh, mi ucciderai, Kenma.

Appoggio le mani aperte sul lenzuolo chiaro, mi tiro su e lo guardo in faccia, e l'idea dell'amante sfuma quando vedo in che modo dolce e pacato mi sta osservando.

− L'unico e solo, micetto. - rispondo poi, ghignando appena.

Sospira, allunga una manina sottile verso il mio viso.

− Sei congelato. Vieni qui, così ti scaldi un po'. - borbotta, alzando appena il piumone.

− Non mi sono nemmeno cambiato. -

Alza gli occhi al cielo.

− Dobbiamo cambiare il letto, tanto. Dai, vieni. Per favore? -

Ho già detto che è la cosa più adorabile che esista? Sicuramente è l'unica che mi renda così indifeso. Non sono assolutamente in grado di dirgli di no. Potrebbe chiedermi di tagliarmi una gamba e obbedirei senza fiatare.

Scalo il materasso e mi infilo in un secondo sotto la coperta, il mio corpo freddo che viene immediatamente raggiunto dal suo, più caldo e morbido.

Intreccia le gambe alle mie, appoggia il capo sul mio petto.

− Guarda tu come ti sei conciato. Se ti ammali cosa faccio, eh? - mormora, stringendomi il collo con le mani.

− Se mi ammalo ti vesti da infermiera sexy e mi fai la puntura. -

− No. -

Ridacchio appena accarezzandolo piano sul capo.

Ha un profumo così buono e così rilassante.

− Hai dormito bene, almeno? - gli chiedo poi, il mio naso fra i suoi capelli morbidi.

− No. Sai che dormo male se non ci sei tu che tenti di soffocarmi. -

Prendo fiato inspirando, offeso.

− Non tento di soffocarti! È che mi muovo quando dormo! - ribatto, e lo sento ridere appena.

− Stavo scherzando, Tetsu. E comunque mi hanno svegliato stamattina alle otto per portarmi un pacco, il giorno di Natale. E tu non c'eri per andare a recuperarlo. Mi sono dovuto addirittura alzare, pensa tu. - si lamenta.

Allungo le mani per afferrare il suo viso e baciarlo delicatamente.

− Sei perso senza di me. -

− Sono solo pigro. Ma mettila come ti pare. - risponde, sbattendo le palpebre e avvicinandosi ancora per premere le labbra contro le mie.

Non è lento e pigro quando mi bacia. Non è come al solito, quando si sveglia e si rotola fra le mie braccia per farsi coccolare, è più... aggressivo?

Mi mordicchia il labbro inferiore, infila la lingua fra le mie labbra, geme piano al contatto e inarca la schiena.

Frizzantino, questa mattina.

Lo sento appoggiare le cosce attorno ai miei fianchi, aggrapparsi a me con le braccia e fondersi fra le mie mani che lo accarezzano.

− Kenma? Hai voglia? -

Si stacca e arrossisce di colpo.

− Ehm... io... io... forse. - risponde, lo sguardo che vola verso il basso, imbarazzato e fuggevole.

Non sono abituato a Kenma che prende l'iniziativa, decisamente no, ma per oggi, purtroppo devo rimandare questo lieto momento. Perché se iniziamo adesso so che lo terrò inchiodato al letto fino a stasera e voglio che apra il regalo per il quale ho rischiato di morire assiderato.

Apro la mano sul suo fianco, lo stringo appena e tiro su il busto per baciarlo un'ultima volta.

− Apri i regali. Poi ti do tutto quello che vuoi. -

Sbuffa.

− Non possiamo aprirli dopo? Sei tu che mi hai lasciato da solo tutta la notte, ora prenditi le tue responsabilità. - mi stuzzica, ancora rosso in viso.

− Oh, ti ho lasciato da solo tutta la notte? E come potrei mai farmi perdonare? - gli chiedo, provocandolo, un'occhiata a metà che lascia i miei occhi.

Sporge il labbro in un broncio, guarda immediatamente dall'altro lato.

− Dammelo. -

Spalanco gli occhi.

− Cosa? -

Con tutto l'imbarazzo del mondo indica con lo sguardo il mio basso ventre.

− Quello. Dammelo. -

Non so se scoppiare a ridere, avere un orgasmo immediato o piangere di felicità. Nel dubbio, so solo che il mio sorriso diventa più storto e più sensuale.

− Oggi sei proprio un micetto senza freni, eh? Dopo, Kenma. Apri il tuo regalo e poi dopo forse penserò di dartelo. -

Sbuffa e alza gli occhi al cielo.

− Come fidanzato sei veramente inutile. - commenta, prima di scendere da me e tirarsi in piedi sulla moquette della camera da letto.

Il fatto che si sia alzato seduta stante mi fa capire ancora meglio quanto non veda l'ora di saltarmi addosso. Di solito ci mette anni, ere, millenni a muovere un solo dito dalle coperte.

E ora è saltato su.

Ignoro questa cosa ridacchiando appena, e lo seguo lasciando il letto dopo di lui.

Quando raggiungiamo il salotto, insieme, mi accorgo di qualcosa che prima non avevo visto. Un pacco di dimensioni abbastanza grandi, la carta da regalo rosso fuoco e un fiocco enorme, appoggiato in un angolo della stanza.

− Cos'è quello, micetto? - gli chiedo, indicandolo.

Ken si gira e fa spallucce.

− Il pacco che mi hanno portato prima. Te l'avevo detto. -

La curiosità mi invade. Sono un bambinone, quando si tratta di regali, e non riesco mai a tenere le mani ferme. Devo sempre aprirli immediatamente.

− E perché non l'hai ancora aperto? Posso aprirlo io? -

Scuote la testa.

− No, non mi serve. So già cosa c'è dentro. -

Non sto capendo.

− In che senso? -

Kenma si siede sul divano, il volto verso il mio regalo, sul tavolino, le mani coperte dalle maniche troppo lunghe della felpa.

− È la Play Station 5, me l'ha mandata il mio sponsor. La versione personalizzata, credo. - borbotta.

Mi si gela il sangue nelle vene.

Oh, no.

− Ma non la voglio. So che me l'hai presa tu e quella non la voglio. La regalerò a Bokuto, credo, o a Shouyou. -

Spalanco la bocca guardandolo.

− Cosa? Come... come fai a saperlo? -

Ken mi sorride delicatamente, il viso felino che si piega in un'espressione delicata, dolce, affilata.

− Sei uscito tutta la notte. E ieri facevano il restock. E Bokuto ha messo una storia dove sei in fila con un sondaggio se saresti morto di freddo o di noia. -

Mi colpisco la faccia con la mano aperta. È vero che ho chiesto al mio migliore amico di farmi un po' di compagnia ieri, ma penso di aver sottovalutato la sua stupidità. Non pensavo avesse davvero postato una foto.

Ma, a prescindere da questo, è il mio adorabile micetto che mi colpisce, in questo momento.

− Ma... ma quella è personalizzata. - gli faccio notare, indicando il pacco regalo che, a differenza del mio, è incartato con tutti i crismi.

− E ti sembra che mi importi? Potrebbe anche essere fatta d'oro, ma non la vorrei comunque. Voglio quella che mi hai preso tu. - ripete.

Potrei morire.

Brilla, da quanto è dolce e carino.

Brilla e mi acceca.

Penso che il mio cuore si scioglierà e io passerò a miglior vita in questo preciso istante.

− Kenma usa "tenerezza": è superefficace. Tetsurō non è più in grado di combattere. - borbotto, guardandolo sollevare le sopracciglia e sorridere appena.

− Scemo! -

Mi schianto sul divano contro di lui.

− Ah, il mio micetto carino. Sei adorabile. Ti amo tantissimo. - mugugno addosso alla sua pelle mentre lo stringo forte in un abbraccio sbilenco.

− Smettila, Tetsu, mi fai il solletico! -

Ma faccio finta di non ascoltarlo, infilo il viso nell'incavo del suo collo e mordicchio giocosamente la carne chiara.

− Come fai ad essere così carino? Come? Ah, micetto, sei magico. - continuo.

Ride addosso al mio viso.

Poi appoggia le manine sulle mie guance, i palmi contro i lati del viso, mi tiene fermo e aspetta che mi calmi e lo guardi negli occhi.

È timido, e il suo sguardo è sfuggente.

− Anche... anche io ti amo, Tetsu. - mormora.

Poi si avvicina, preme le labbra contro le mie per un attimo e si stacca.

E io volo direttamente in paradiso.

Mi va il cervello in cortocircuito.

Potrei persino iniziare a piangere.

Rimango a fissarlo imbambolato, lo sguardo immobile che vola in ogni angolo del suo viso.

− Te... Tetusrou? - mi chiama.

Sbatto le palpebre.

− Sono morto. - rispondo.

Ride piano, la sua risata che sembra quella di un angelo, tintinnante, delicata, argentea.

− Sei un idiota, Tetsu. -

− Sono un idiota innamoratissimo. -

Sfrega il naso contro il mio, mi bacia ancora, stringe le braccine dietro il mio collo.

Mi riprendo dalla mia trance stringendolo fra le mani. Lui e il suo erotico corpo coperto dalla felpa, la sua pelle cremosa e quella bellezza scioccante e timida che nemmeno si rende conto di avere.

Sono io, a questo punto, che lo tiro sul mio grembo e lascio che mi baci più a fondo, il suo bacino che preme contro il mio e la voce che si piega in un ansimo delicato.

− Devi... devi fare una cosa, prima. Falla ora. Così poi... non ci pensiamo più. - mi ansima poi, staccandosi.

Alzo un sopracciglio.

− Cosa devo fare? -

Con una fatica immane, i pantaloni che iniziano ad essergli un po' stretti e le gambe molli, si alza.

Scarta il mio regalo con calma, e devo ammettere che me n'ero quasi dimenticato, del regalo.

Con altrettanta delicatezza appoggia la scatola sul lato, la apre e toglie la pellicola dalla console, osservandone la forma e la plastica bianca a lato.

Ci passa un dito sopra.

− Vai a prendere un pennarello. Quello indelebile sul piano della cucina. - mi ordina, e per quanto vorrei borbottare e lamentarmi che no, non mi alzerò a prendere un pennarello con l'erezione del secolo fra le gambe, obbedisco in silenzio.

L'ho già detto, vero?

Che non so dirgli di no.

Torno in salotto in un attimo.

Si scosta dalla console per farmi spazio.

− Scrivici... scrivici qualcosa. -

Lo guardo confuso.

− Che? -

− Hai detto che l'altra è personalizzata, no? Allora voglio che anche questa lo sia. Scrivici qualcosa, per favore. - ripete.

Sorrido.

− Sei sicuro? Guarda che ci devi fare un video, con questa roba. -

− Non chiamare "roba" la mia bambina. E poi i miei fan ti adorano, se gli dico che l'hai scritto tu saranno solo più contenti. -

Annuisco ghignando. Se lo dice lui.

Mi allungo sul tavolino, il pennarello stappato in mano, e avvicino la punta di feltro alla superficie chiara.

"Per Ken da Tetsurō. Sei l'idrogeno del mio ossigeno. Che nel caso non lo sapessi formano due legami covalenti polari che sono fortissimi nell'H20. Anche noi siamo fortissimi. Cioè, tu di sicuro. A parte tutto, ti amo, micetto. Buon Natale."

✧*̥˚ Iwaizumi e Oikawa *̥˚✧

Oikawa, ogni fottuto Natale che Dio manda in terra, ogni fottutissimo Natale, diventa tre volte più irritante.

Non so cosa sia.

Forse l'albero? Quella povera pianta ricoperta da festoni glitterati e palline perfettamente bilanciate da ogni lato? O forse la carta dei pacchetti, luccicante e sbrillucciosa come lui.

Magari il fatto che stiamo a casa entrambi.

Forse persino la mia pessima abitudine di essere più affettuoso, nei giorni freddi delle vacanze.

Eppure, l'unica cosa di cui sia fermamente certo, è che diventa più irritante.

Sono sul letto, la tazzina di caffè - che mi ha gentilmente portato perché è irritante ma sa anche come prendermi - fra le dita, le coperte arruffate in fondo alle gambe e la luce che filtra pigra dai fori sulla persiana.

Sono in mutande, l'unica cosa che mi sia rimesso addosso dopo le acrobazie di ieri notte, ho anche un po' freddo, a dirla tutta, e la schiena mi fa male.

Maledetto Merdakawa e le sue unghie che mi affondano nella carne.

Non che mi lamenti, quando siamo nel mezzo di qualsiasi cosa ci stiamo inventando di fare, ma la mattina dopo mi sembra di aver fatto un corpo a corpo con un puma.

Lo sento arraffare cose da di là, passare dalla cucina al salotto, sospirare, e fare troppo rumore.

Fastidiosissimo.

Mollo la tazza sul comodino, mi piazzo a pancia sotto fra i cuscini e dichiaro a me stesso che sono ancora stanco, è presto e mi merito un altro po' di sonno. Oh, sì che me lo merito.

L'unica cosa che amo, a parte Oikawa e lui lo amo sì e no tre minuti al giorno, che tutto il resto del tempo lo detesto con tutto il cuore, è il profumo delle lenzuola pulite, la morbidezza del piumone sulla pelle, la sensazione del sonno che mi assale.

Ah, paradiso.

E invece no.

E invece, inferno.

− Iwa-chan, brutto pigro dormiglione, alza le tue belle chiappe dal letto e vieni ad aiutarmi! - sento urlare proprio quando le mie palpebre avevano deciso di chiudersi.

Non ho voglia di litigare, né ho voglia di ucciderlo, quindi tento quantomeno di ignorarlo.

Passano pochi secondi.

− Iwa-chan, svegliati! Svegliati! Sveeeeeegliati! Ti svegli? Svegliati! - grida ancora.

Dalla mia gola perviene solo un rumore di rabbia e rifiuto, che dovrebbe servire da deterrente. Ma il mio ragazzo è tonto quanto bello. Tanto. Tantissimo.

Si arrampica su di me, preme le cosce accanto alle mie e si siede sull'incavo della mia schiena.

Appoggia le mani aperte sulle mie scapole e appoggia la fronte contro la mia nuca.

− Per favore? Per favorissimo? Ho bisogno di una mano con i regali, e se Takeru arriva e non ho nemmeno finito di incartargli il regalo? Sai che sono perso senza di te. -

L'avevo detto, no? Che è fastidioso.

E non è fastidioso perché balzella in casa come una maledetta diva alla ricerca di attenzioni, no. Lo è perché durante il periodo natalizio è fottutamente adorabile e non riesco a dirgli di no. Fastidiosissimo.

− Arrivo. Levati e mi alzo. - mugugno contro il cuscino, maledicendo il giorno in cui sono nato.

Lo sento stampare un bacio sulla mia schiena.

− Ah, il mio Iwa-chan. Stanotte ti ringrazierò a dovere. -

Grugnisco alla promessa dichiaratamente sessuale. Non voglio fargli capire che mi piace quando parla così, anche se sono piuttosto certo che lo sappia bene.

− Sì, sì, quello che ti pare. Levati. -

Ancora non si alza. Passa le dita sulla pelle martoriata di fronte a lui e lo sento trattenere il respiro.

− Dio, Iwa-chan, non pensavo di essere così disperato. Dovrò farmi anche perdonare questo. -

Bastardo, se voleva farmi eccitare poteva anche evitare di far finta che gli servissi. Che detesto essere svegliato dalla sua voce petulante ma a del sano e movimentato sesso mattutino non dico mai di no.

E invece, pare che non fosse quello il suo ultimo fine.

Perché si alza, e aspetta in piedi al bordo del letto che lo faccia anche io.

Ragazzino impertinente.

Ignoro la situazione soltanto perché stiamo aspettando che passi qui suo nipote a prendere i regali per la famiglia. Non voglio fargli vedere in che modo devasto il suo stupido zio, non il giorno di Natale. Ha undici anni, ancora.

Non ci metto molto ad alzarmi, un braccio che si allaccia al collo per stiracchiarmi quando sono finalmente seduto.

Tooru mi guarda l'addome senza vergogna.

− Chiudi la bocca, o inizierai a sbavare. - commento, una vena di malizia sotto le mie parole.

Sbatte le palpebre e allunga una mano.

Tasta i miei addominali infilando il labbro inferiore tra i denti. Passa la mano fra i muscoli rigidi, alza appena gli occhi al cielo e si lascia andare in un versetto soddisfatto.

− Arte, Iwa-chan. Sei arte. Ora vestiti prima che ti salti addosso, sai che quando inizio non riesco a trattenermi. - risponde poi.

Sorride appena ed è così bello che quasi mi dimentico che è fastidioso. Quasi.

Scappa nell'altra stanza.

Mi allontano dal letto per prendere i miei pantaloni della tuta, e quando cerco la maglietta noto che è scomparsa e che è molto probabile che fosse quella che Oikawa aveva addosso.

Sbuffo e me ne sbatto. I termosifoni sono a palla nell'appartamento - Tooru dice che sotto i venti gradi non si può chiamare casa ma igloo - e tanto vale rimanere senza. Sarà costretto ad avere i miei, cito testualmente, "magnifici pettorali" sotto gli occhi tutta la mattina.

Mi lavo i denti di fretta, mi sciacquo la faccia e raggiungo la mia fastidiosa diva seduta a gambe incrociate sul divano, la carta regalo in mano e un pezzettino di scotch trasparente pizzicato fra le dita.

Ha gli occhiali addosso, e sa quanto adoro quando mette gli occhiali.

Aggrotta le sopracciglia mentre chiude un pacchetto e lo adagia gentilmente sulla pila alla sua sinistra.

− Una carta un po' meno da finocchio no? - chiedo, avvicinandomi per darmi pace e infilare le dita fra i suoi riccioli color cioccolato. È tutta la mattina che penso di volerlo fare.

− Iwa-chan, lo prendo letteralmente nel culo. Che cos'altro avrei dovuto scegliere? - ribatte, e ha sorprendentemente ragione mentre scorre le dita lunghe sul rosa glitterato del pacchetto che sta incartando.

− Mmh, forse. Di cosa hai bisogno? -

− Che controlli la torta salata. E che impacchetti quei tre regali là sotto. -

Alzo le spalle.

− Basta così, Merdakawa? -

− Puoi anche baciarmi tanto che ci sei. -

Ridacchio appena. Che bambino insopportabile.

Mi chino allungando un braccio sullo schienale del divano, e obbedisco al mio dispotico fidanzato. Sa di torta alle mele, quando le sue labbra incontrano le mie. Deve averne fatta una per pranzo.

Si stacca da me con uno schiocco.

− Ok, ora sì che è una bella giornata! -

Idiota.

Ci metto un attimo a impacchettare i regali. E la torta sta benissimo quando vado a spiarla dallo sportello trasparente del forno. Quindi non ci metto molto a fare tutto, anzi, mi basta meno di una mezz'oretta.

Ma ormai, incartato l'ultimo ridicolo regalo da parte di Tooru per sua madre, un qualche coloratissimo oggetto da cucina, mi pare di aver capito, non ho più nulla da fare.

Mollo il regalo sulla pila di Oikawa che ancora è alle prese con il pacco più grande, immagino sia il portabottiglie con il vino italiano per suo padre, e mi lascio cadere sulla poltrona di pelliccia rosa che ho comprato in un momento che non voglio ricordare.

C'era alcol, c'era Tooru nudo e c'era della panna montata, credo, e so soltanto che quando questa schifezza ridicola e pacchiana è arrivata a mio nome dallo shop online di Ikea non ricordavo nemmeno di averla mai vista.

Nel dubbio, però, è comoda.

− Ah, che palle. Questa scatola di merda. La odio. Mi sono tagliato anche con la carta, Iwa-chan. - si lagna, quando mi vede chiudere le gambe incrociandole di fronte a lui.

− Idiota. Vuoi che finisca io? -

− Ti prego, sì! È che sono stanchissimo. Mi fai un massaggio dopo? -

Ho le mani magiche, e sono un medico sportivo. Diciamo che Oikawa approfitta un po' troppo delle mie innumerevoli qualità.

− No. -

− E dai! Per favore! -

Alzo gli occhi al cielo.

Stupido Oikawa.

− Intanto passami il pacco. -

Mi rendo conto del chiaro doppio senso soltanto dopo averle dette, queste stupide parole.

Tooru alza un sopracciglio, si lecca le labbra e si alza giusto per passarmi la scatola che viene mollata direttamente sulle mie mani.

− Iwa-chan! Sta per arrivare Takeru, non puoi aspettare? Ah, così volgare, oggi. - esclama.

Vorrei picchiarlo.

− Intendevo il pacco regalo, cretino. -

− Sì, sì, dicono tutti così. -

Alzo gli occhi al cielo mentre prendo il lembo molle di carta colorata sull'angolo e procedo a finire il lavoro lasciato a metà.

Tooru allunga le braccia sul divano, si stiracchia con un versetto soddisfatto e si butta di schiena steso, i riccioli a ventaglio sul tessuto chiaro e il viso che mi guarda di lato.

− Alla fine la maglietta non l'hai più messa, eh? -

Scuoto la testa mentre taglio il fiocco con le forbici.

− Ce l'hai addosso tu, Schifokawa. -

Ridacchia.

− Giusto, giusto. Vuoi che te la restituisca? -

Alzo le spalle.

− Non ti piaccio senza? -

Si tira su di botto. Il culo appoggiato ai polpacci e le cosce così lisce e sottili perfettamente schiacciate sul divano, una visione che potrebbe farmi sbavare da sola.

Infila la lingua fra i denti.

Afferra il lembo della suddetta maglietta, ormai l'argomento principale della conversazione, e la tira su lentamente con delicatezza sfilandosela di dosso.

Il movimento è lento e nonostante stia facendo altro non riesco a staccargli gli occhi di dosso.

− E io? -

Ok, maledetto. Maledettissimo.

Fastidioso.

Lo detesto, lo detesto, lo detesto.

Perché deve essere così bello? E perché deve essere così sensuale? E perché deve provocarmi proprio nel momento in cui sta per arrivare suo nipote?

Mi si secca la gola.

Rosso. Pizzo rosso. Stretto, elegante, dolce, che corre sulla sua pelle bianco latte in quella che immagino sia lingerie. Scompare sotto i pantaloncini che porta ancora addosso.

Che tra l'altro all'immagine si aggiunge la costellazione di morsi che gli ho lasciato ieri sera sulle spalle, sul petto magro, attorno ai capezzoli.

− Allora? Non ti piaccio senza maglietta? - chiede ancora.

Provo a parlare. Ci provo davvero. Ma non riesco proprio.

− Ehm... tu... mmh... cosa, scusa? -

Ride.

Ride quando alzo il mio sguardo imbambolato, pesante come ferro, al suo. Si sporge appena verso di me, le ginocchia premute sul divano, e tira in avanti un braccio, come se volesse che gli dessi la mano.

Siccome ormai il mio cervello non è più in mio possesso ma la mia risvegliata erezione ha deciso di prenderne il comando, allungo la mano.

Allaccia il polso con le dita, si sporge ancora, lascia che i miei polpastrelli sfiorino il tessuto sottile.

− È il tuo regalo di Natale, Hajime. - sussurra poi, e gioisco.

Dentro di me gioisco.

Il regalo di Natale migliore del fottutissimo globo.

Deglutisco.

− I pantaloni. Togliti i pantaloni. - sbotto di colpo.

Tooru spalanca gli occhi, e scuote la testa.

− No, no, no. Deve arrivare Takeru, e dobbiamo dargli i regali... e il tacchino... non essere impaziente, Hajime. -

Si alza e mi raggiunge.

Stringo le mani alla sua vita il secondo stesso in cui è a tiro delle mie braccia e appoggio le labbra sulla pelle distesa e delicata del suo addome.

− Sei bellissimo. - mugugno, sperando quasi che non mi senta, ma il risolino che esce dalla sua gola è piuttosto eloquente a riguardo.

Profuma persino di quella crema costosa che mette una volta ogni sei mesi, per non sprecarla.

È meraviglioso.

E il mio cervello non riesce a processarlo.

Attacco le dita ai lati dei pantaloni. Faccio per tirare giù ma vengo fermato.

− Togliteli, cazzo. -

− Ti ho detto di no, Iwa-chan! Aspetta almeno che arrivi Takeru! -

− No. Toglieteli subito. Voglio vederti per bene. -

Si allontana arrossendo appena, il naso delicatamente rosa e lo sguardo malizioso e sfuggente. Raccoglie la maglietta dal divano, se la rimette, e infila anche il pacco che ho in grembo sulla grande busta per i suoi.

Io rimango solo a fissarlo.

− Vieni qui immediatamente e spogliati di nuo... −

Il campanello mi interrompe. Sudo freddo.

Oikawa alza le sopracciglia.

− Dieci minuti, Hajime, dieci minuti. -

Sbuffo.

− Come cazzo ti pare, ma più tempo passa più ti farò male, stronzo. -

Ridacchia soddisfatto mentre risponde al citofono e fa salire suo nipote.

Prima che arrivi, prima che entri in casa mi lancia un cuscino dal divano.

− Copriti. Si vede tutto. E non voglio scioccare quel bambino con le meraviglie del mondo degli adulti. -

Lo lascio cadere sul mio grembo, ci appoggio i gomiti sopra, alzo gli occhi al cielo e guardo un'altra volta il corpo coperto ma segretamente avvolto da pizzo rosso del mio ragazzo.

Che fastidioso che è, a Natale.

✧*̥˚ Hinata e Kageyama *̥˚✧

Casa di Hinata è come lui.

No, davvero, è identica al mio piccolo ragazzo arancione.

È letteralmente un casino.

Sono arrivato qui non più di una mezz'ora fa, e sono stato accerchiato in venti secondi da tutti i membri della sua famiglia.

Piccoli, minuti e arancioni. Tutti uguali. Sembrano fatti con lo stampino.

Dopo un estenuante interrogatorio sulla mia vita - vogliono sapere tutto di me, neanche fossi il loro, di figlio - finalmente riesco a sfuggire ai loro occhi castani e inizio a guardarmi attorno alla ricerca del motivo principale per cui sono qui.

Il mio ragazzo.

− Shōyō è di sopra, mi sta che sta ancora dormendo. Gli ho detto di svegliarsi, che eri arrivato, ma sai com'è fatto. - mi comunica sua madre, un sorriso sconsolato sul viso.

In effetti, non ha torto. So perfettamente com'è fatto. Dormiglione, pigro, sempre in astinenza da sonno come se non chiudesse occhio dal milleseicento nonostante si spenga tutti i giorni alle dieci precise come un bambino piccolo.

Sorrido appena al pensiero di Hinata addormentato. È una bella immagine.

Ringrazio sua madre e mi dirigo verso camera sua, quando una manina piccola e paffuta mi si aggrappa ai calzoni.

Mi sciocca, ogni tanto, vedere quanto Natsu sia identica a Hinata.

La prima volta che l'ho vista, tre o quattro anni fa, era piccina, tutta faccia rotonda e dita tozze dell'infanzia, la vocina acuta e sottile, gli occhi enormi e vitrei.

Ora che ha undici anni, è pericolosamente identica a com'era suo fratello quando l'ho incontrato alle medie.

− Quest'anno ti ho fatto il regalo di Natale, Tobio, lo sai? - mi dice, un sorriso enorme sul viso pacifico.

Spalanco un po' gli occhi.

− Ehm... grazie? Anche io te l'ho fatto. - ribatto, non ben sicuro di cosa debba dire.

Non sono proprio un talento dell'interazione sociale.

− Wow! Sono così felice! - grida al mio orecchio, prima di lasciarmi e scomparire in un secondo.

Rimango un secondo immobile.

Cos'è stato?

Cos'è appena successo?

Penso la conversazione più strana della mia vita.

Alla fine, però, decido di non farci più di tanto caso. Queste persone sono meravigliose, solari, espansive ma anche terribilmente incomprensibili.

Alzo le spalle ignorando la sensazione di non aver capito niente, e imbocco finalmente le scale. Gli scalini sono pochi, e così familiari. Penso di aver percorso questa strada una quantità di volte ridicola.

Ci sono persino caduto, da queste scale, quando i genitori di Hinata erano tornati prima del previsto a casa e io ero nudo addosso al loro figlio.

Sono inciampato sulle mie stesse mutande nel tentativo di fuggire.

Camera di Shō è la prima, e apro la porta con cautela, mentre mi infilo fra le parteti blu scuro e i milioni di poster sportivi.

Se penso che andremo a vivere insieme, il prossimo anno, che ce ne andremo da questa stanza, da questo paesino, dal liceo dove ci siamo conosciuti, mi viene quasi un magone.

È tutto così tremendamente consono, ormai, che non so bene come potrei farne a meno.

Shō è prevedibilmente addormentato, il corpicino magro e flessuoso completamente avvolto sotto un nugolo di coperte disordinate, i capelli brillanti aperti a ventaglio sul cuscino, i pantaloni della tuta sollevati su una gamba per mostrare il polpaccio minuto nel suo piacevole colore bianco latte.

Oh, che bello che è.

Lascio andare la giacca sullo schienale della sua sedia da scrivania e mi siedo sul bordo del letto, una mano che cerca inevitabilmente il suo capo.

− Svegliati, idiota. Come facciamo a festeggiare il Natale senza di te? - mormoro al suo viso pacifico, che si stropiccia un po' quando sente la mia voce.

− Tobio? Quando sei arrivato? Vattene, lasciami dormire. - risponde, le parole spezzate da uno sbadiglio e roche per il sonno.

− Che fai, mi cacci di già? - lo prendo in giro, allungando il busto per raggiungere la sua guancia e dargli un bacio appena accennato sulla pelle morbida.

Stiracchia un braccio e lo avvolge al mio collo per stringermi contro di sé.

− Naah. -

Preme le labbra contro le mie sorridendo, e il suo viso pieno di sonno e allo stesso modo così contento mi scalda il cuore. È così bello.

− Comunque penso che il pranzo sia quasi pronto. Ti devi alzare. - gli faccio notare.

Hinata infila il naso nell'incavo del mio collo e lo sfrega forte.

− Lo so, lo so. È che non ho voglia. Dai su, mettiti il pigiama e vieni a letto con me. Ci riposiamo un pochino. -

Alzo le sopracciglia.

− Il pigiama? E dove dovrei trovarlo, un pigiama? -

Shō, sempre aggrappato a me, si ancora al mio collo per tirarsi su, e finalmente riesce ad elevarsi fino ad essere in ginocchio sul letto, al mio fianco.

− Te ne presto uno. -

− Sei un nano, idiota. Come dovrebbe entrarmi? -

Alza gli occhi al cielo.

− Puoi sempre venire a dormire nudo. -

Mi si mozza il fiato di colpo. Spalanco la bocca ma quello che dico è poco più di un sussurro.

− Non possiamo, Shōyō. L'ultima volta stava per entrare tua madre, e quella prima tuo padre, e quella prima ancora Natsu. E poi il pranzo è pronto. - gli spiego, convintissimo.

Hinata mi prende le guance con le mani piccole e stampa un bacio sul mio naso.

− Stavo scherzando, Tobio. Stavo scherzando. Certo che pensi sempre male, tu, eh? Depravato. -

Se mi avesse colpito sarebbe stato meno offensivo.

− Depravato, io? Come ti permetti, tu piccolo idiota! - lo sgrido, mentre pizzico forte fra le dita la pelle morbida della sua vita.

− Tobio! Smettila! Sai che mi fai il solletico! - urla, la faccia impunita.

− Alzati, vai a cambiarti e chiedimi scusa. - lo minaccio, lo sguardo torvo su di lui.

Scuote la testa.

Si avvicina giusto per premere un secondo le labbra sulle mie. Un contatto breve, veloce, delicato.

− Non ti chiederò scusa. Non ho mai detto che non mi piaccia che tu sia un depravato, Tobio. - commenta, prima di zompettare verso il bagno lasciandomi lì come un idiota.

Cosa?

Perché oggi i membri della famiglia di Hinata sono così strani?

Stanno organizzando uno scherzo? Una candid camera? O è lo spirito del Natale?

Nel dubbio, mi alzo frastornato dal letto di Shō e decido di aspettarlo di sotto. Gli scalini sembrano meno, in discesa, e quando raggiungo il grande divano rosso al centro del loro salotto ci trovo l'altra Hinata stravagante, Natsu, seduta sopra. Il cellulare fra le dita corte, il labbro arricciato nella sua classica espressione concentrata che trovo sempre più simile a quella di Shō.

Sospira quando mi vede avvicinarmi.

− Sei riuscito a svegliarlo, quel sacco di pulci? - mi chiede, l'indice che vola fra le labbra e che viene mordicchiato appena dai suoi denti.

Sbuffo.

− Più o meno. Tuo fratello è davvero pigro. -

Si volta, ragiona un attimo, e annuisce.

Natsu Hinata diventa una iena, quando si parla di Shō. Sembra che lo trovi fastidioso, alle volte, ma lo adora. È il suo eroe.

Nessuno può dire niente su di lui tranne lei.

Penso che l'unico discorso alla "spezzagli il cuore e io ti spezzo le gambe" riguardo il mio ragazzo mi sia stato fatto da lei. Quando aveva una cosa come otto anni.

E ogni volta che pronuncio il nome di Shō rimane sempre un istante bloccata a pensare se quello che ho detto è tollerabile. Questa volta mi è andata bene, direi.

− Hai ragione, Tobio. Comunque, devo chiederti una cosa. - ribatte.

Mi scende un piccolo brivido lungo la schiena.

Natsu mi terrorizza, sarò onesto. Passa dall'essere la creatura più adorabile del mondo a quella più spaventosa in un secondo, e di certo aver avuto l'occasione di avere la versione "carina e coccolosa" prima, quando abbiamo parlato del regalo, mi fa pensare che ora voglia mutare in quella assassina.

Deglutisco e la invito a continuare con un cenno del capo.

− Sai, ormai sei parte della famiglia. Ti ho fatto il regalo di Natale, quindi sei parte della famiglia. Quindi posso parlarti liberamente, no? -

Ok, sono spaventato, ora.

Shō, ti prego, scendi le scale ora e vieni a salvarmi.

Annuisco di nuovo.

− Ok, perfetto. Allora, ho un problema. Un grande grandissimo problema. D'amore. - mormora.

Una minuscola parte di me, quella paterna e che la vede come una sorellina, si risveglia.

Non riesco a fare a meno di rispondere.

− Non sei troppo piccola per l'amore? - commento.

Si volta verso di me, alza un sopracciglio.

− Sì, se fossi un maschio. Voi siete lenti, e scemi. Io invece sono una ragazza, quindi sono più avanti. - ribatte.

Oddio, scusami. Non mangiarmi.

− O... ok. Sì, hai ragione. - mi ritrovo ad assentire.

− Bene, detto questo. Mi piace un ragazzo. Ma non so come dirglielo. E tu puoi aiutarmi, secondo me. -

Indico me stesso con le sopracciglia che volano a metà del cranio. Io? Io che ci ho messo una cosa come sei mesi a dichiararmi a Shō, che non so dimostrare l'affetto, che sono l'essere più incapace del mondo quando si tratta di interazione sociale?

− Sei sicura? -

Schiocca la lingua.

− Certo che sono sicura. Sono Natsu, io, mica Shō. Non dico stronzate. -

− Non dire le parolacce! -

Ridacchia piano, quando la sgrido.

− E tu non fare sesso con mio fratello quando camera mia è accanto alla vostra. Abbiamo tutti i nostri difetti, no? -

Divento di una sfumatura impossibile di viola.

Da quando è così adulta?

Io a undici anni sapevo a malapena cosa fosse il sesso, e pensavo che fosse una cosa come "il papà e la mamma si vogliono tanto bene, si fanno le carezze e nascono i bambini".

Non so nemmeno cosa rispondere, la voce che mi muore in gola.

− Comunque, tornando a noi. Tu puoi aiutarmi. Conosci suo zio. Se potessi chiedergli qualcosa, che ne so, cosa pensa di me, se gli piaccio, mi faresti un enorme favore. -

La guardo confuso.

− Suo zio? -

− Sì, Oikawa. Sto parlando di Takeru, il nipote di quel vostro amico che si autodefinisce la diva e mette le storie in palestra con il suo fidanzato, quello enorme. - risponde.

Metto una mano fra noi.

− No! Tutto ma non un Oikawa! Lo dico per te, Natsu, fidati! Quelli sono tutti matti! -

Affina lo sguardo castano.

− Coraggioso, detto da uno che beve il latte alla fragola a diciotto anni. -

Non posso batterla. Non posso.

È impossibile, da sconfiggere. È come il boss finale di un videogioco. E io non ho equipaggiamenti, non ho skill, non ho manco il cazzo di joystick se dobbiamo proprio darci alle metafore.

− Ma... ma... −

Il suo sguardo cade severo su di me, e cedo.

Capitolo annuendo.

− Va bene, Natsu. Hai ragione. Domani chiamo Oikawa e gli chiedo di indagare. - rispondo poi, il tono obbediente e remissivo che non ho con nessuno se non con questo minuscolo concentrato di pura violenza.

In modo rapido, immediato, come se si togliesse una maschera e la rimettesse nello stesso minuscolo lasso di tempo, torna la bambina sorridente di una decina di minuti fa.

− Grazie! Sei il migliore, Tobio! -

Già.

Il migliore.

Un cretino, vorrai dire.

Un cretino che trema di fronte ad un'undicenne che somiglia al suo fidanzato.

Dio.

A proposito, dov'è finito, il suddetto fidanzato? È caduto nel water?

Mi giro attorno per cercarlo con lo sguardo e, quando finalmente lo vedo, mi do una manata mentale.

È in piedi, appoggiato al corrimano delle scale, che mi guarda. E ride. Ride come un ossesso.

− Stai tremando, Tobio! Stai tremando tantissimo! - grida, indicandomi.

Ha visto tutto? Non che volessi fare bella figura con lui, per carità, sa perfettamente quanto sono un impedito nell'interpersonale, ma cazzo.

− No! Non è vero! Te lo sei sognato! - urlo di rimando, negando l'innegabile.

Si avvicina continuando a ridere.

− Non mentire, tontolone! Ti ho visto, che tremavi come una foglia. Davanti a mia sorella, tra l'altro! -

Provo a rispondere ma non esce niente se non un mugugno incomprensibile dalle mie labbra.

− E allora? Mi fa paura, e allora? - riesco ad elaborare.

− La mia sorellina ti fa paura? - chiede, il tono sarcastico e le lacrime che quasi gli scendono dai lati degli occhi da quanto si sta uccidendo dal ridere.

− Mi fa una paura fottuta! -

Natsu mi colpisce il fianco con la mano.

− Non dire le parolacce. - commenta, pigiando distrattamente sullo schermo del telefono.

Rimango imbambolato a fissare lei, poi suo fratello.

Non solo la casa, ma anche la famiglia di Hinata è come lui.

Un casino inspiegabile.

Shō mi raggiunge e prende la mia faccia fra le mani schiacciando le mie guance fra di loro.

Preme le labbra contro le mie e le lascia andare con uno schiocco sonoro.

− Ti amo, Tobio. Sei ridicolo, ma ti amo. - dice, e un'ennesima risatina lascia la sua bocca.

Non so nemmeno cosa dire, talmente sono confuso. Questo Natale, mi sa che mi confonde.

− Ti amo anch'io...? - rispondo.

Natsu mi lancia un'occhiata.

Alza il pollice della manina, mi fa l'occhiolino.

− Anche io vi amo, idioti. - si aggrega.

Cosa?

✧*̥˚ Bokuto e Akaashi *̥˚✧

Stressante.

Lo so che il Natale dovrebbe essere tutto abbracci, caminetti, sciarpe, palline colorate e cibo. Ma per me, cazzo, è tremendamente stressante.

Chiudo lo sportello del forno sospirando ad alta voce, mi asciugo la fronte sudata, mi tiro su in piedi e mi lascio andare contro il bancone della cucina.

Perché a me?

Perché?

È il primo anno, che devo cucinare. È anche stata un'idea mia, tra l'altro. Invitare tutta la mia famiglia e quella di Kōtarō a pranzo per il giorno di Natale.

Ma non pensavo fosse così... ecco... sfiancante.

Non avevo mai cucinato un tacchino, ed è un'impresa, fidatevi. Come le patate arrosto. E la torta fatta in casa, e l'insalata di finocchi e arance, e il purè di patate, bastardo, quello è infido. Ho dovuto rifarlo due volte perché non si addensasse e venisse fuori un grumo solido di burro e patate schiacciate.

E l'orologio è implacabile. Batte ogni secondo, lo scandisce con il ticchettio che mi entra nel cervello.

Non ce la farò mai, a finire. Mai.

Sporgo il braccio per afferrare la bottiglia d'acqua al lato del fornello e potrei essere troppo stanco e distratto, perché avvicino troppo il polso al gas e percepisco la mia pelle chiara bruciarsi in un attimo.

− Cazzo! - sento gridare dalla mia stessa voce, quando vedo la scottatura formarsi scura sul mio braccio e un paio di minuscole lacrime annidarsi ai lati dei miei occhi azzurri.

Fa un male fottuto.

Penso immediatamente di scendere dal bancone e volare in bagno per metterci qualcosa, ma prima anche solo che possa appoggiare i piedi sul pavimento, una sagoma grande e grossa si infila sulla porta, affrettata e allarmata.

− Keiji! Cosa è successo? Stai bene, polpettina? - dice la voce spaventata a morte di Bokuto, che si butta addosso a me in un secondo.

Mi fissa per un attimo e vede immediatamente la mia mano che tiene delicatamente il braccio scottato.

− Sto... sto bene. Mi sono solo bruciato con il gas. - provo a rispondere, ma non mi ascolta.

Studia il mio polso con attenzione.

− Hai un'ustione di terzo grado. - sentenzia.

Nonostante il dolore, scoppio a ridere.

− Ma che dici? Non siamo in CSI, Kōtarō! - ribatto, guardando il suo viso sciogliersi in un attimo.

− Scusami, è che ho sempre voluto dirlo. Comunque, ti sei fatto male. -

Riprendo fiato osservando i suoi occhi dorati ancora pieni di preoccupazione.

− Non è nulla, davvero. Ci metto su un po' di pomata e vedi che passerà tutto. -

Scuote la testa, squadra meglio la scottatura.

− Lo so che sei figo e non vuoi ammettere che faccia male, ma è una ferita piuttosto brutta. E non puoi continuare a cucinare con il braccio così. -

Spalanco gli occhi.

− No! Devo ancora finire il tacchino, e mettere l'erba cipollina nel fottuto purè, e le decorazioni sul pan di zenzero e... −

Mi interrompe con tono autoritario.

− Faccio io. Non so che cazzo sia l'erba cipollina, ma faccio io. -

Ridacchio.

− Ma tu fai schifo a cucinare. -

− E questo cosa vorrebbe dire? Come se ti lasciassi finire con il braccio ustionato. -

Alzo gli occhi al cielo. È un testardo.

Cerco di imboccare la via più tranquilla.

− Intanto vado a medicarmi, poi vediamo, ok? -

− Non vediamo proprio niente. E ti medico io. Se no a cosa servirei? -

− Supporto emotivo? -

Avvicina le sopracciglia fra loro e mi guarda, torvo.

− Così mi fai sembrare inutile. -

Alzo le spalle.

− Ma che dici? Se non ho buttato via questa montagna di cibo e mi sono rinchiuso in camera a piangere è solo perché ci sei tu che mi mandi il tuo amore dal salotto, Kō. -

Sorride di colpo.

− Davvero? Lo sapevo che le stavi percependo, le mie onde cerebrali. -

Idiota. Stupido idiota. Adorabile, stupido idiota.

− Vedi? Sei utilissimo, amore. -

Con ritrovato entusiasmo, mi aiuta a scendere dal bancone e mi trascina in bagno, dove mi fa sedere sul bordo della vasca e tira fuori tutto quello che abbiamo nel mobiletto sotto il lavandino.

Guarda tutti i prodotti uno per uno.

− Crema all'acido ialuronico, non ci serve. Lubrificante all'acqua, non ci serve. Crema profumata con glitter, non ci serve. Dentifricio al carbone vegetale, non ci serve. Cerotti di Iron man, non ci servono. Siero rimpolpante all'acqua di rose? Ma che cazzo è? Comunque, non ci serve. - inizia.

Sembra un bambino, mentre scorre i miliardi di boccette di vetro che possiedo. Sono un patito della skincare, lo ammetto, ma Kō ama la mia pelle morbida, no? Quindi.

Indico il barattolo di pomata con il capo.

− È quella, Kō. -

Molla qualsiasi cosa avesse in mano, immagino il mio tonico spray bio, cruelty free e con estratti di menta, dallo sguardo confuso che gli lancia, e la prende in mano.

Svita il tappo con attenzione, ne prende un po', lo spalma delicatamente sulla pelle ferita.

Per quanto le sue mani siano grandi, ruvide e callose per il suo lavoro, è estremamente leggero, quando mi tocca.

− Mettiamo una garza? -

− No, ti prego. Sembrerei una mummia, e devo fare bella figura con i tuoi. - rispondo.

Alza le sopracciglia, e poi, come non mi avesse sentito, prende la garza bianca al fondo del cassetto.

− I miei hanno cresciuto me, Keiji. E io ho fatto il Natale per i primi dieci anni della mia vita con il pigiama integrale di Winnie the Pooh. - risponde, ed effettivamente mi pare di aver visto qualche foto a riguardo, dove un Bokuto piccolo, senza incisivi e con i capelli spettinati, campeggiava in mezzo alla sua famiglia nel suo ridicolo completino giallo ocra.

− E poi ti adorano. Mi hanno detto che se mi faccio lasciare da te mi buttano fuori casa finché non mi riprendi. Quindi non farti troppi problemi. - continua, e scoppio a ridere.

− Va bene, va bene. Metti la garza, allora. -

Non ci mette molto, di fatto. È bravo, più di quanto mi aspettassi, e riesce e sistemare la fasciatura stretta abbastanza perché non sia molle e ridicola e comunque non mi faccia male.

Osserva il suo lavoro con fierezza.

− Ora ci vuole il tocco finale! -

− Cioè? - chiedo, aggrottando le sopracciglia.

Afferra il mio braccio con l'espressione più ridicolmente convinta che gli abbia mai visto fare, lo porta alla bocca e lascia un bacio sulla ferita.

− Ora sei guarito! -

Non so se ridere o commuovermi.

Nel dubbio, mi concedo di arrossire e sobbollire nella dolcezza del momento.

− Grazie, Kō. -

Sogghigna con il volto della soddisfazione stampato in faccia, e orgoglioso di se stesso come se avesse appena concluso un'operazione a cielo aperto di quindici ore, mi aiuta ad uscire dal bagno.

Poi tira su le maniche della felpa, espira, e mi guarda di nuovo.

− Ok, capo. Cosa devo fare? -

Perfetto. E io che speravo avesse dimenticato di voler cucinare. Non è tonto quanto mi auguravo, oggi.

− Dai, su, fai fare a... −

Stringe le braccia davanti al petto - e questo movimento non finirò mai di dire quanto metta in evidenza i muscoli del suo torso che trovo tanto attraenti - e sbuffa.

− No. Ho detto di no. Tu mi dici cosa c'è da fare, e io lo faccio. Fine. -

Alzo gli occhi al cielo.

− Kōtarō, ascoltami. Apprezzo tantissimo, ma davvero tantissimo che tu voglia aiutarmi. Ma sappiamo entrambi che farai un casino epocale, il pranzo verrà uno schifo, e io farò la figura della pessima casalinga che non sa fare niente. - dico, e forse urlo un po' sul finale.

Spalanca gli occhi.

− Pensi... pensi che penseranno questo... di te? -

Distolgo lo sguardo.

− No... un po' sì, non lo so. Voglio che venga tutto bene, e basta. - ripeto, e sono convinto, nonostante lo stress continui a serpeggiare nel mio corpo.

− E infatti verrà tutto bene. Verrà tutto benissimo. Perché l'hai fatto tu, e non sei una pessima casalinga. No, sei una bella casalinga sexy che cucina da Dio! - ribatte, e come potrebbe non consolarmi quando è cosi tonto e infantile?

Come?

Ridacchio.

− "Bella casalinga sexy"? -

Annuisce.

− Esatto. E lasciamelo dire, vorrei strapparti di dosso quel grembiule da quando l'hai messo stamattina. Sei adorabile, polpettina. -

Osservo un attimo me stesso, i pantaloni del pigiama sformati attorno alle mie gambe, una maglietta di Kō che pende sulla spalla, il grembiule rosa legato addosso al corpo e la fasciatura sul braccio.

− Ma faccio schifo. -

Mi urla come se avessi bestemmiato.

− Cosa? Prova a dirlo un'altra volta, vai, prova! Non ti permettere mai più! -

Scoppio a ridere.

− Non ti arrabbiare, Kō! Non sono decisamente nella migliore delle forme, oggi, non puoi negarlo. -

Mi trascina verso la cucina pestando i piedi sul pavimento come un bambino.

− Che stronzata. - sbotta.

Lo raggiungo con un'espressione confusa.

− Scusami? -

− Che stronzata. Hai detto una stronzata. Ora, è Natale, siamo a casa nostra, tu hai una mia maglietta e un grembiule, stai cucinando per le nostre famiglie e per me da stamattina, stai facendo tutto questo solo per noi, profumi di pan di zenzero e hai quell'espressione incazzata e seria di quando sei concentrato. Come potrei non trovarti bellissimo? - mi chiede.

Alzo le sopracciglia.

− Stai lavorando ininterrottamente, senti che parolone, Keiji, ininterrottamente da stamattina alle otto, e perché vuoi fare qualcosa di bello per tutta la famiglia. Sono così fiero di te, polpettina. -

Mi sento bruciare la faccia.

Lui è fiero... fiero di me? Sono anni che qualcuno non mi dice una cosa del genere, e diamine, mi ero dimenticato di quanto sia bello sentirselo dire. Di quanto sia bello sapere che il proprio lavoro è apprezzato. Che la fatica è stata ben impiegata.

− Io... ecco... grazie, Kō. Grazie davvero. - riesco a borbottare come risposta, mentre si avvicina a me e lascia un bacio sulla mia fronte.

− Non ringraziarmi. È la verità. -

Ok, basta. Mi sto quasi eccitando.

Allungo le braccia in un secondo, prendo la sua faccia, la spiaccico alla mia e lo bacio immediatamente. Non se l'aspetta e rimane fermo un attimo, prima di rispondere, le labbra che si aprono appena, il suo corpo che spinge il mio sulla superficie del frigo.

Lo vedo appoggiare una mano al fianco della mia testa per tenersi in equilibrio quando si china verso di me, e sa che mi piacciono i muscoli delle sue braccia flessi e rigidi, perfettamente visibili in questa posizione.

Ricomincia a baciarmi, le mie mani che vagano dal suo petto alla schiena, le lingue che si cercano spasmodicamente, il fiato corto.

− E questo, per cos'era? - chiede, quando si stacca.

− Perché non ti dimostro abbastanza affetto, Kōtarō. Sei davvero fantastico come fidanzato, lo sai? - ribatto, lasciandogli un altro bacio, questa volta appena appoggiato all'angolo della bocca.

− Certo che lo so! Sono il migliore, io! - mi risponde, e rido quando lo sento parlare.

È così eccentrico e strano e adorabile, quest'uomo.

− Lo sei per davvero. -

Mi scosto da lui per andare ai fornelli, quando sento il suo corpo grande e marmoreo aderire completamente alla mia schiena.

− Cosa non hai ancora capito del "non voglio che tu cucini"? - intima al mio orecchio, rimproverandomi.

− Infatti. Userò le tue mani. Tu fai quello che ti dico di fare. - lo assecondo, e per un secondo rimane in silenzio, non capendo a cosa io mi riferisca.

Quando però mi vede muovere le sue braccia penzolanti attorno a me sotto il tocco delle mie mani, ci arriva.

− Vuoi che ti presti le mie braccia? Ma non è scomodo, così? - mi chiede.

E non ha torto.

− Forse. Ma secondo me è divertente. E poi non mi fido a lasciarti fare le cose da solo. - ribatto.

Prima di iniziare a dargli un qualsiasi ordine, però, mi lascio andare sul suo petto grande e solido. Sollevo il mento per incontrare i suoi occhi, sorrido pacificamente, e mi lascio abbracciare.

− Dici che possiamo farcela, così? - chiedo.

Ride.

− Certo che possiamo farcela. Cioè, è un'idea un po' complicata e comunque io faccio schifo a cucinare, ma tu sei talmente bravo che ce la caveremo di sicuro. -

Sorrido, arruffo il naso.

− Già, Kō. Per questa volta, forse, hai ragione. −

✧*̥˚ Lev e Yaku *̥˚✧

La prima cosa che mi ha detto Lev al mattino, la prima, la primissima è stata "guarda, Yaku, nevica!".

Apro gli occhi e mi pento immediatamente di averlo fatto, la luce è chiara e fredda, tipica del clima invernale che ci circonda.

Serro le palpebre, mi giro per spiaccicare la faccia sul cuscino, e raggiungo con un braccio Lev semi alzato al mio fianco.

− Torna a dormire, cretino. - mugugno, cercando di avvolgermi sempre di più attorno al suo corpo.

Sento una mano grande appoggiarsi alla mia testa e arruffarmi i capelli delicatamente.

− Ma è Natale! E nevica! Ti prego, piccoletto, vieni a vedere! - ritenta, ma il verso che proviene dalla mia bocca continua ad essere di puro e palese rifiuto.

Lev sospira, poi decide di assecondarmi.

Si stende al mio fianco, e ci metto un attimo ad acciambellarmi sul suo corpo troppo, troppo alto e troppo, troppo idiota. Passa un braccio oltre le mie spalle, mi preme contro di sé.

− Sei un dormiglione, Morisuke. Sei davvero un dormiglione. - commenta, sfregando delicatamente la mia schiena.

− Sei tu che sei un bambinone. - rispondo, sbadigliando.

Infilo la testa nell'incavo del suo collo, inspiro profondamente.

Sa di buono.

Mi è sempre piaciuto, il suo profumo.

− Sei cattivissimo, piccoletto. Voglio solo passare tutto il giorno di Natale con te! È il primo anno che riusciamo a farlo assieme! - ribatte.

Non che abbia completamente torto.

Da quando stiamo assieme non siamo mai riusciti a sfuggire alla madre severissima di Lev che lo voleva a casa dei suoi nonni, in Russia, per tutte le festività. E nemmeno alla mia, rigida allo stesso modo, che imponeva a me di rimanere qui.

Ma ora viviamo assieme.

E siamo abbastanza grandi per poter decidere come passare il Natale.

− Ma lo stiamo passando assieme, non vedi? Io sono assieme a te, tu sei assieme a me. No? - provo a convincerlo, ma so che il tentativo è penoso.

Eppure, dall'occhio mezzo aperto che tengo, riesco a vederlo sorridere.

Prima di stringere le sue gambe e le sue braccia chilometriche attorno al mio corpo di taglia media - ok, la taglia è piccola, sono piccolino, lo so, ma rimaniamo sul medio - e strizzarmi sul suo petto.

Mi bacia sul capo, il rumore delle labbra che schiocca rumoroso attorno a noi.

− Sì! Lo so! E sono così felice, piccoletto! Non ti lascerò andare mai, mai, mai, mai, mai! Mai nella vita! - esclama, e la sua enfasi, il suo tono dolce ed emozionato, mi fanno sorridere.

− L'hai promesso! -

Annuisce con un movimento ampio.

− L'ho promesso. E lo penso davvero. Questo sarà sicuramente il miglior Natale della mia vita. - conferma.

Oh, piccolo - ma enorme - Lev. È adorabile.

Così ingenuo e affettuoso.

Gli lascio un morso appena sfiorato sulla pelle morbida del collo.

− Ahia! E quello per cos'era? - urla, e mi chiedo se davvero non sia in grado di utilizzare un tono di voce normale. Sono appena sveglio, e le sue parole mi trapanano il cervello.

Sorrido caldamente, apro entrambi gli occhi - e so che sono gonfi, arruffati, ancora pieni di sonno, ma a Lev piaccio sempre - e lo guardo un attimo in quelle brillanti iridi verde smeraldo.

− Dammi un bacio, Lev. -

Alza le sopracciglia. Le alza come se non avesse capito, ma poi obbedisce con tutta la gioia che ha in corpo.

È intimo, e delicato, e bello.

Le sue labbra sulle mie, il nostro letto, la nostra casa, il nostro Natale.

Non ha nulla di sessuale, questo bacio. Non è carico di tensione o altro, è solo così, morbido e familiare.

− Ti amo, Morisuke. Ti amo un sacco. - mi sussurra, quando si stacca.

Arrossisco un po', ma non mi lascio spaventare dal mio stesso imbarazzo.

− Anche io ti amo, cretino. - rispondo.

Ci baciamo un'altra volta. E un'altra ancora.

Ah, potrei rimanerci per sempre, in questo lettone enorme, fra le coperte bollenti e le mani gentili dell'uomo che amo.

Ma il suddetto uomo, ha altre idee. Perché scopro con stizza che non aveva davvero lasciato perdere il suo obiettivo originale.

Dopo avermi accontentato, dopo qualche minuto di grattini e adorabili coccole, infatti, decide che è ora di alzarmi. Letteralmente.

Stringe le mie cosce attorno alla sua vita, mi tiene saldo ai fianchi e di botto, si tira su. Con me addosso.

Che, ovviamente, mi incazzo.

− Mettimi giù! Mettimi giù, idiota! Fa freddissimo, voglio tornare a letto! - urlo, ma mi ignora bellamente e continua a trascinarmi verso il bagno. Pianto i talloni sulla sua schiena e lo sento mugugnare di dolore, ma non demorde.

− Non se ne parla. Io e te ora usciamo e andiamo a giocare con la neve. - risponde, il tono più fermo di quanto mi sarei aspettato.

Scalcio ancora.

− A giocare con la neve? A vent'anni? Siamo vecchi, vecchissimi per queste stronzate, Lev! -

Tira su il labbro inferiore nell'espressione più offesa che riesce a fare.

− Sai quanto me ne frega che siamo vecchi? Niente! Quindi ora vieni a giocare con la neve con me. - ribatte, e mi fa un po' ridere il modo adorabile in cui tenta di sembrare indignato.

Ma chi vuoi convincere?

Arruffo fra loro le mie sopracciglia castane, ma non faccio in tempo a lamentarmi ancora che Lev mi molla seduto sopra la lavatrice e mi stringe la faccia con una mano per tenermi fermo.

Afferra il mio spazzolino, come se fosse un pugnale, tra l'altro, e fa un po' di difficoltà a spremerci il dentifricio sopra, ma non demorde.

Mi guarda con tutta la severità che possiede.

− Apri la bocca. - ordina.

Vorrei ridere.

Vorrei ridere e urlargli che ho vent'anni e posso cazzo lavarmi i denti da solo, ma come faccio? Come posso dirgli di no?

Obbedisco, e passiamo due minuti esatti - che il mio uomo è un bravo bambino che ascolta il dentista - a lavarmi i denti. Mi passa persino l'acqua per risciacquare la bocca.

Poi, si dedica a tastarmi la faccia.

− Sei un po' secco, qui. - commenta, strofinando il ponte del mio naso.

− Ho avuto il raffreddore, è normale. -

− Ma poi se non metti la crema ti fa male. -

Sbuffa, come se fosse davanti ad un ragazzino che non ascolta mai i consigli della madre, e allunga il suo - lunghissimo - braccio verso lo sportello sul lavabo.

− Così non ti brucia la pelle. - dice, mentre spiaccica un chilo di crema all'acido chenesoionico sul mio naso con estrema soddisfazione.

Mi sporgo per guardarmi allo specchio e sono ridicolo. Ho il naso bianco, da quanta ne ha messa.

− Togline un po' cretino, sembro un idiota. - mi lamento, ma scuote la testa.

− Non sembri un idiota, sembri super carino, Mori. E poi ti fa bene. - mi sgrida.

− Carino? -

− Sì, sei carino. Sei bellissimo, in realtà. -

Sorride, ed è così tranquillo e dolce che, per una volta, lascio perdere. Anzi, sporgo le labbra per baciarlo, e ridacchio soddisfatto quando fa scontrare la mia bocca con la sua.

Procede a lavare i suoi, di denti, e lo osservo spazzolarli con un'attenzione quasi ridicola.

Non dovrò mai lamentarmi che il suo sorriso diventi meno scintillante, almeno.

Quando ha finito, sorprendentemente, le mie braccia sono tese verso di lui.

Si avvicina ridacchiando.

− Oggi sei parecchio appiccicoso, eh? - mi fa notare, quando raggiunge le mie manine che si chiudono attorno al suo collo e lo spiaccicano contro di me.

E che vuole, questo gatto troppo cresciuto con la lingua lunga?

− Stai zitto prima che ti prenda a calci. - lo minaccio, e sporgo il collo per baciarlo.

Ma, lo stronzo, solleva il mento. E, putroppo e prevedibilmente, non ci arrivo.

− Sei un mostro, piccoletto. Minacciare così il tuo ragazzo. Non me lo aspettavo, da te. - ribatte, e sento l'odio crescermi nel petto assieme al fastidio.

− Cosa stai facendo? Vuoi che ti ammazzi? -

− No. Voglio che tu dica che verrai a fare un pupazzo di neve con me. E che sono bellissimo. E magari anche che mi ami, tanto ci sei. - risponde e sento un risolino divertito pervenire alle mie orecchie quando finisce di parlare.

− Sei un bastardo, Lev. -

− Guarda che mi metto a piangere. -

Non so nemmeno se dovrei ridere o arrabbiarmi. Nel dubbio, sbuffo e decido di assecondarlo.

− E va bene. Ma solo per questa volta, ok? -

Annuisce soddisfattissimo.

− Verrò a fare il pupazzo di neve con te, anche se mi sembra una gran stronzata. E sei bellissimo. E ti amo. -

Sorride a trentadue denti e, finalmente, si china per unire le labbra alle mie.

Ah, sì, ne valeva la pena.

Tenta di staccarsi troppo presto, ma lo stringo forte con le braccia e gli impedisco di andare da qualsiasi parte.

− Dove credi di scappare? - gli chiedo.

Mi sento immerso nei suoi occhi verdi, quando li rivolge a me.

− Oh, da nessuna parte. -

Lo bacio ancora, e mi tremano un po' le ginocchia quando lo faccio. Mi sembra sempre un po' la prima volta, quando siamo insieme

È quando sento le sue mani farsi strada sulle mie cosce, stringere la pelle un po' più forte di prima, che decido di fermarmi. Se iniziamo ora, andremo avanti per ore, lo so. E se non facciamo il fottuto pupazzo di neve, per quanto io non ne abbia nessuna voglia, Lev me lo rinfaccerà per settimane.

Dirà che l'ho "sedotto con il mio corpo malvaglio" per fargli dimenticare la neve.

− Il pupazzo... il pupazzo di neve. - sbotto, staccandomi, con il fiatone.

Sembra confuso per un secondo, e so che per un attimo lo sta chiaramente mandando a fanculo, quel cazzo di pupazzo di neve, ma poi l'idea di noi due imbacuccati in settemila strati di pile a giocare come due idioti deve avere la meglio.

Perché sorride, mi lascia, e stampa un bacio rumoroso sulla mia fronte.

− Hai ragione! Menomale che me le ricordi tu, le cose. Me n'ero quasi dimenticato. - ammette, e nonostante io possieda due gambe perfettamente funzionanti, mi prende di nuovo in braccio e mi sposta ancora verso camera nostra.

Mi lascia sul letto senza alcuna delicatezza, ma il materasso è morbido e non mi faccio male.

− Devi vestirti per il freddo, però. O ti ammalerai di nuovo! -

No, davvero? Geniale, oggi, Lev.

− Lo so, lo so. Levati che cerco qualcosa da mettermi. - rispondo, trattenendo una risata, mentre mi avvicino all'enorme armadio che condividiamo per cercare qualcosa che vada bene per la temperatura gelida che c'è fuori.

Ovviamente, non trovo nulla.

Nulla di mio, quantomeno.

Non sono tipo da giacconi invernali, in effetti. Diciamo che di default metto solo cappotti e camicie, e se fa freddo mi do malato e rimango a casa a poltrire sotto il piumone spiaccicanodmi possibilmente addosso a Lev che ha la temperatura corporea di una stufa a pellet e riscalderebbe anche un ibernato.

− Niente, non ho nulla da mettermi. - dichiarmo, sbattendo con troppa foga l'anta dell'armadio.

Scalo il fondo del letto, mi siedo a gambe incrociate sul piumone disordinato, e aspetto che si accorga delle mie parole.

E lo fa alzando entrambe le sopracciglia chiare.

− E che problema c'è? Ti do uno dei miei. -

Scuoto il capo forsennatamente.

− No, Lev, no! Sai quanto sembrerei un cretino con le tue cose addosso? Non se ne parla! -

Ma indoviniamo tutti assieme quanto le mie parole siano state ascoltate. Per niente? Eh? Come pensavo.

Non faccio in tempo a scostarmi che Lev mi infila una felpa di pile direttamente attraverso la testa, litiga un po' con le mie braccia sottili per infilarle nelle maniche e torna a ravanare fra gli indumenti.

− Questa è la più piccola che ho. La usavo quando avevo quindici anni. - commenta, tirando fuori una giacca da neve rosso fuoco. Somiglia stranamente a quello della nostra squadra di pallavolo, questo schema colori.

− Mi starà enorme. -

− Naah, non preoccuparti. Apri le braccia. - chiede gentilmente, posizionandosi di fronte a me con un sorriso incredibilmente ampio.

Non so con quale forza, obbedisco, e osservo la sua delicatezza quando mi sistema il tessuto spesso sul corpicino sottile. Quando finisce aggancia il fermo della zip e la tira su fino in fondo.

Il collo della giacca mi copre quasi gli occhi.

− Abbassala un po'... abbassala un po' ti prego. Nemmeno ci vedo, Lev. - mi lamento, mentre lo sento ridere.

Lo vedo e metto il broncio.

− Vedi? Te l'avevo detto che avresti riso di me. Su, togliemela. - mi inviperisco, sentenomi arrossire il naso.

Scuote la testa.

− Perché? Sei un cretino, Lev, un cretino... − inizio a sgridarlo, prima che afferri le mie mani, ci infili un paio di guanti di lana, e si allontani per osservare l'opera finita.

− Perfetto. Sei perfetto! Sei bellissimo! Oh, piccoletto, sei dolcissimo, vestito così. - dice di botto.

E non riesco a parlare.

Perché sembra così onesto.

E io sono completamente avvolto in seimila strati di vestiti e mi sento ridicolo.

− Lo pensi... lo pensi davvero? -

Vengo trascinato dall'orlo della giacca verso di lui.

Mi bacia rumorosamente sulle labbra.

− Sei bellissimo per davvero, Mori. Sembri ancora più piccino con i miei vestiti addosso. -

Arrossisco ancora e vorrei rispondergli male, ma mi limito a sbuffare.

− Se lo dici tu. Ma ora mettimi dei cazzo di pantaloni. E vestiti. Che voglio finire questa stronzata il prima possibile. - grugnisco, e Lev annuisce convinto.

− Hai ragione, piccoletto! Ah, non vedo l'ora di fare un pupazzo di neve con te! Ancora non ci credo! -

Lo osservo, grande, grosso, ingenuo, dolce, idiota.

Lo osservo e mi dico che lo amo, anche se è stupido.

E lo amo anche se è un sempliciotto.

Alzo gli occhi al cielo.

− Neanche io ci credo. Neanche io. −

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➠♡༊ beta-read by MonicaKatfish __meeryblack

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