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16 - Gioco di Picche

Anita spense il motore, sfilò il casco dal capo e scosse la testa, facendo muovere la treccia un po' consumata dal vento.

Ducan la osservava, intrappolando lo sguardo sulla sua figura; incantato avrebbe voluto solo andarle incontro, accarezzarle il viso, poi le labbra e portarla via da tutto il casino di cui fanno parte, tuttavia i suoi desideri erano nulli quando si scagliarono contro la realtà. Lui aveva ricevuto ordini precisi che però non aveva eseguito. Si era indubbiamente fatto coinvolgere troppo. Il Gioco era fallito tempo zero. Forse non ne sarebbe dovuto essere così divertito: presto sarebbe stato in guai seri, tuttavia anche questo lo divertiva.

Cercava una via d'uscita, e magari riuscì a trovarla.

"Forse la partita non era ancora finita", pensò. Lui era ancora in macchina e lei non era in sella: a passi sicuri stava arrivando accanto alla Lamborghini.

Ducan aveva deciso che glielo avrebbe lasciato fare. Dovevano pur divertirsi in qualche modo, no?

Anita gli era accanto e Ducan scrutò ogni suo movimento: dal viso che si rilassava, al corpo che si poggiava alla macchina; dal ginocchio piegato, al sorriso che si allargava quando, ammirando la coda della macchina, alzò lo sguardo sullo spoiler. La donna sentì gli occhi suoi addosso che la divoravano, la studiavano, l'ammiravano, così lei si voltò verso la figura dell'uomo. Aveva il viso accaldato e gli occhi, marroni, tendenti al giallo, cauti, distolsero lo sguardo da lei per puntarlo nello specchietto retrovisore, che dava agio alla visuale della sua R1.

«I Giochi che organizzo io non si svolgono in questo modo, Bass».

All'udire la voce elegante della donna, Ducan piegò di poco il capo e sorrise divertito. Aveva la stessa espressione di sempre, quella di pura emozione quando c'era di mezzo lei.

«È per questo che io non partecipo ai tuoi Giochi, Anita». "Per questo e altro", avrebbe voluto aggiungere Ducan, che invece posò lo sguardo sulle labbra della giovane. La sua attenzione venne poi catturata dalla treccia che cadde sul seno, coperto dal tessuto nero della tuta. D'impeto, tuttavia, come se fosse stato chiamato da essi, alzò lo sguardo sugli occhi color ghiaccio della donna. Ne era attratto, era innegabile.

Anita però, furba, non si lasciò incantare. Lei non si distraeva, non non si faceva condizionare dalle emozioni, anche perché quello che provava in quell'istante era solo dannato odio e una sensazione di tradimento nei confronti dell'uomo che aveva di fronte. Era per questo che, vigile, notò il piede sull'acceleratore muoversi nell'oscurità del vicolo.

Ducan accelerò e lei, che già aveva compreso le sue intenzioni, si tenne stretta con una mano al finestrino della macchina per poi fare una rovesciata all'indietro e finire in piedi sul tetto dell'auto in movimento. Perse leggermente l'equilibro, ma lo riacquistò subito, abituata a quelle folli acrobazie. L'adrenalina impazzì nel suo corpo.

«Eccomi qua, stronzo», disse in un ringhio dal finestrino dal lato in cui Ducan stava guidando: a testa in giù mostrò solo il viso e la lunga treccia. L'uomo ebbe un sussulto, si voltò, ma lei, veloce, non c'era più: aveva rubato quell'attimo di sorpresa per entrare nel veicolo dal finestrino del lato passeggero in una mossa lesta.

«Ti conviene accostare. Non vorrai terminare il Gioco con due morti, spero». Sorrise con il fiato corto. Il petto si abbassava e si alzava con prepotenza così lei si portò una mano sul cuore per sentirlo battere forte. Nonostante tutto era felice, si sentì libera. Era assurdo, ma era piena di gioia in quel momento che avrebbe dovuto essere solo drammatico.

Erano in macchina, correvano, facevano pazzie ed erano liberi. Non c'era cosa più bella e sbagliata di quella.

«Oh, ma non è questo l'obiettivo, Anita». Lui la osservò per un breve attimo e sorrise. "È così bella, cazzo", pensò.

«Ducan, sono di buon umore 'sta sera. Se ti fermi facciamo un compromesso. Lo sai che ai miei non puoi rifiutare», lei era divertita, lui un po' meno: era serio e pensieroso. Ducan guidava, valutava la situazione, nel frattempo lei, poggiata al finestrino dell'auto con i capelli al vento, sorrise, noncurante di qualsiasi scelta lui avrebbe potuto fare. Ma sperava proprio che avrebbe accettato. I suoi Giochi erano stati annullati per quella sera ma, senza sapere come, era finita a giocarne uno. Impreparata a uno dei Giochi di Venom, aveva esaurito le sue energie. Il giorno successivo sarebbe andata a fondo all'anomalia di quella notte. Il suo obiettivo era solo di godersi il silenzio notturno e finire il Gioco, di qualsiasi Seme fosse.

Ducan annuì, ma lei non potette vederlo.

«Va bene, ci sto». Era meglio così. Sarebbe stato meno cruento un Gioco di Cuori. Almeno così sperava.

Anita si voltò: era raggiante in viso.

«Sì?» Era così emozionata che lui la trovò adorabile.

Ducan annuì di nuovo e sorrise. Lei allora si mise composta sul sedile e acconsentì, con un live cenno del capo, a se stessa. In quel momento bisognava pensare a qualcosa però.

Per raggiungere il box, Ducan avrebbe potuto girare l'angolo tuttavia ormai non era importante farlo in una determinata tempistica.

Avrebbe voluto stare in sua compagnia, parlare di quanto accaduto nell'attico di Anita cinque giorni fa, chiarire, ma lei era così cocciuta che non permetteva nulla. Il silenzio vigeva sovrano tanto quanto lei; così, nei limiti della velocità, vagavano per la città senza parlare. Era solo il rombo della Lamborghini a squarciare quell'ordine muto imposto da Anita, quando lui spingeva di più la macchina.

Nessuno aveva rispettato i piani, quella sera, così, da quell'attimo in poi le cose sarebbero susseguite senza seguire uno schema, questo lo spaventava, perché con lei tutto era concesso, così com'era possibile che nulla sarebbe stato dato. Ducan non poteva permettersi di perdere, ma sapeva che sarebbe accaduto.

Se era lei a giocare, tutti perdevano. Lei era un rischio eccitante che solo pochi si permettevano di prendere. E lui, eccitato, contro Anita aveva giocato e poi perso una volta. E farlo gli era costato tanto. Non poteva permetterlo di nuovo. Non aveva la più pallida idea di ciò che sarebbe accaduto da lì in avanti.

Ducan entrò nel suo garage, spense l'auto e si voltò verso Anita, poggiando il braccio sul volante.

«Vogliamo parlare di sopra?» Le chiese, mentre la scrutava.

«Non chiudi il box?» Domandò invece lei.

«Dimmi dove ne vuoi parlare, perché se vuoi salire lo chiudo, se rimaniamo nel salottino lì di fronte,» con la testa indicò davanti a sé, «no, così poi ti porto a casa».

Lei avrebbe voluto solo spogliarsi, sdraiarsi a letto e dormire nuda. In pace.

Ducan notò il cipiglio sul viso di Anita, non potette fare tanto, così si limitò a scostarle una ciocca di capelli che, sfuggita dalla treccia, stava adombrando il suo viso delicato. Lei sembrava seguire quel movimento con il capo, in cerca un tocco che sapeva avrebbe potuto calmare per poco la sua anima. Tuttavia si scansò, bastò un attimo. Per rimanere lucida, senza essere contaminata dai sentimenti, il bisogno della sua anima non doveva essere soddisfatto.

«Così poi mi porti dove abbiamo lasciato la mia moto», lo corresse e lo fece in un sussurro quasi stremato, lui sorrise e si chiese perché doveva essere sempre in quel modo, tra loro.

«Va bene madame, ti porto dove vuoi», acconsentì.

«Saliamo e dammi dello scotch». Anita aprì lo sportello e uscì dall'auto, mettendo le distanze tra loro.

Ducan si portò le mani sul viso per poi alzare il capo frustrato, questo accadde quando lei non lo vide, quando aveva già chiuso lo sportello e gli aveva voltato le spalle.

Anita era uscita dal box e si era seduta sul marciapiede lì davanti nell'attesa che Ducan chiudesse tutto.

C'erano momenti in cui lei abbassava le difese, in cui permetteva ai sentimenti di andare, momenti in cui permetteva alla sofferenza di uscire. Ne aveva bisogno. Ciò che viveva era estremo e in pochi sapevano che dietro un po' di follia si nascondeva tanta sofferenza. Era folle, a tratti cedeva, ma non mollava mai, non arretrava mai, era sempre un passo avanti a tutti, anche a se stessa, eppure a volte avrebbe voluto urlare e piangere, cadere a terra disperata e pregare per un po' di pace e d'amore. Se questo non l'aveva però era solo colpa sua. Quindi abbattersi, incolparsi e disperarsi per qualcosa che non sarebbe arrivato, non serviva a nulla era solo un atteggiamento corrosivo, si ripeteva.

«Cosa fai lì? Andiamo?» Ducan era in piedi accanto ad Anita, la sua voce le fece mettere un freno ai pensieri, e segretamente gliene era grata.

Voltò di poco il capo e guardò, senza prestare attenzione, le scarpe di Ducan. Si prese un attimo, poi si alzò e abbandonò la sua sofferenza su quel marciapiede buio.

Era lei quasi a fare strada. Sapeva dove si trovava l'entrata, avrebbe riconosciuto tra mille quell'odore di cocco diffuso nell'androne, sapeva a che piano era l'appartamento di Ducan e conosceva a memoria il rumore della chiave che girava nella serratura. Conosceva a memoria anche la casa di Ducan e il suo viso, i suoi occhi e i suoi pensieri. Anita vedeva, studiava dopodiché tutto le apparteneva, giacché conservava tutto nella sua mente.

Ducan aprì il portone, e lei fu la prima ad entrare. L'oscurità era ciò che L'accolse.

«Non farlo». Gli occhi quasi strabuzzati erano ciò che accolsero Ducan a casa sua. La treccia di Anita, ormai consumata, ruotò, sbattendo sul petto, in seguito allo stesso movimento del suo corpo.

Ducan, allora, con il dito quasi sull'interruttore si fermò e fece cadere la mano sul fianco.

«Va bene, allora. Facciamolo al buio», era un tono malizioso quello che uscì dalle sue labbra, mentre si assicurava di chiudere il portone a chiave.

«Non intendevo quello, Bass. Stai al tuo posto», lo riprese Anita voltandosi di nuovo.

La donna, mentre camminava nell'appartamento, si tolse la giacca e la lanciò sul divano, per poi sedersi sulla poltrona posta di fronte. Lo fece in maniera scomposta. Usò come schienale il bracciolo destro, sull'altro, invece, c'erano le gambe snelle che lo oltrepassavano e cadevano a penzoloni. Quella posizione le favorì una migliore visuale dei palazzi che si estendevano sovrani verso il cielo, donando un pallido bagliore all'appartamento del giovane.

«Non so cosa tu abbia capito, io per "farlo" mi riferivo al parlare». Pronunciò quelle parole poco innocenti con un sorriso in volto, che però venne oscurato dalla maglietta sudata di cui si stava liberando.

«Allora vieni qua e parliamo». Anita si voltò severa, ma girandosi i suoi occhi trovano dinanzi un ritratto maligno. Si trattava di desiderio, lo provava e per un attimo vacillò; gli occhi lo scrutarono senza vergogna, la bocca si seccò e le mani sudarono. Lei però rimase composta in un espressione seria, non si fece trovare impreparata da lui, che tanto avrebbe voluto ricevere qualcosa. Non si fece trovare impreparata, non se lo poteva permettere, seppur avrebbe voluto. A volte lo desiderava, bramava di essere imprudente, di essere scoperta da Ducan a dire ai sentimenti. Desiderava quell'uomo ardentemente, ma con lo stesso ardore lo allontanava, perché non aveva affatto chiaro cosa lui stesse facendo, da che parte stava, a che gioco stesse giocando... e lei di essere tradita non ne voleva sapere affatto. Allora lo osservava, perché era l'unica cosa che poteva fare. Guardava il suo corpo che, implorante, chiedeva di essere toccato, anche i tatuaggi che aveva sulle braccia e sul petto urlavano disperati. Gridavano: «Smettila di guardare se non puoi accarezzarci!» Chiedevano pietà. E allora lei, siccome non ne aveva, voltò lo sguardo e lo mirò ai palazzi.

Ducan, che si era infilato una felpa pulita, si era avvicinato alla giovane, le era davanti. Lei alzò il capo e osservò l'uomo che aveva di fronte abbassarsi ai suoi piedi. Ducan poggiò un ginocchio a terra, mentre piegò l'altro; posò il braccio sinistro sulla coscia e adagiò, delicata, la mano destra sulla caviglia di Anita, che osservava per bene ogni movimento dell'uomo con sguardo intenso.

«Ai tuoi ordini, madame», la sua voce era bassa, mentre la sua mano accarezzava la lunghezza della gamba della donna, fermandosi sopra il ginocchio.

Anita osservò quel tocco azzardato, quel movimento lento e seducente con occhi pieni di smania che celavano, tuttavia, qualcosa di molto pericoloso.

Ducan si era messo ai suoi piedi e l'aveva toccata.

Ducan aveva toccato Veleno, per la seconda volta. Era qualcosa che non doveva essere mai fatta. Mai.

Ci sarebbero state conseguenze anche per quell'azione.

Lo spazio di Cenere

Non avete idea di quello che vi aspetta.

Mi trovi anche su ig: @cenere.astrale

A presto,

- Cenere

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