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Capitolo Diciotto (passato)

Lui

Non so quanto tempo passò da quando rimasi incollato al terreno. Qua era tutto uguale, il cielo e la terra non erano ben definiti entrambi assumevano una colorazione ramata.

Il vento sollevava la sabbia infilzandosi negli occhi come fastidiosi spilli. Il polveroso terreno si insidiava brutalmente nelle vie aeree e in bocca, rendendo più difficile la capacità di respirare.

L'odore di zolfo e di marcio invadevano le mie narici. Queste sofferenze non m'importavano, perché questo posto rispecchiava cosa stavo provando dentro.
Ogni giorno era sempre peggio da quando Lei non era più presente nella mia esistenza.
Svegliarsi, respirare, ragionare era diventato tutto così monotono, rinchiuso nella oramai mia nuova routine ridondante.

Tentai di distrarmi creando con la telepatia dei gironi infernali, erano posti al di sotto dell'infuocato terreno sospesi nel vuoto. In uno di essi era attraversato da un fiume, l'unica sorgente d'acqua presente in questo luogo.

Diverse settimane dopo la formazione di questo posto inospitale venne preso d'assalto da anime umane, alcune decedute diverso tempo prima dalla formazione di questo luogo.

Giravano delle voci di quanto fossi un mostro, un angelo del male, perché non confermare quella che oramai era diventata la la mia fama?

A ogni girone avevo inflitto una pena esemplare, poche erano le anime interessate a cui dedicavo i miei sforzi per creargli un posto privato di tortura dove sarebbero state seviziate per sempre.

La maggior parte dei demoni sopravvissuti si erano completamente stabiliti all'inferno, altri tornarono in superficie in quello che oramai era diventato il mondo umano.

I miei sudditi si divertivano ad andare nei gironi a torturare le anime imprigionate, altri predilivano il corrompere e ingannare gli esseri umani e farne ciò che volevano.

Non sapevo che fine avessero fatto gli immortali che avevo ucciso, le loro anime erano scomparse nel nulla, non trovandosi nè in paradiso nè all'inferno.

I demoni rimasti che avevano un/una compagna/o che era asceso in Paradiso si erano messi a cercarli con grande foga, ma era tutto inutile perché una barriera molto potente faceva sì che non si incontrassero. Piagnistei di questi immortali dalle ali tinte di nero rieccheggiavano in tutto il suolo polveroso.

In mezzo a tutto questo scombussolamento, dovetti occuparmi delle anime dei miei tre figli morti. Prima che potessero svanire le raccolsi e le imprigionai qua all'inferno.

Poco più avanti Teli il primo demone che creai, lo rinchiusi in un girone infernale, aveva cercato di assassinarmi dopo aver saputo che avevo ucciso la sua compagna.
Aveva fegato nel sfidarmi rispetto gli altri demoni che mi evitavano come la peste, di questo gliene dovevo dare merito.

Quando il mio cuore era troppo attanagliato dal dolore per la  scomparsa di Angelica, mi tagliavo le dita della mano destra. Sentire le ossa spaccarsi attraverso la lama della spada, leniva le mie ferite interiori. Quando le lacerazioni diventavano molto gravi mi ricucivo le dita con ago e filo.

Ogni maledettissimo giorno era presente un corvo appollaiato su un albero rinsecchito, continuava a guardarmi da quando ero caduto in questo schifo. Di solito oltre ai demoni pure gli animali disgustosi che vivevano qua dentro cercavano di evitarmi, invece quel pennuto stava lì a fissarmi tutto il dì, forse non aspettava altro che cibarsi delle mie carni.

Secoli dopo negli ultimi decenni del ventesimo secolo, si venne a conoscenza che certi demoni si erano reincarnati in esseri umani, questo successe anche agli angeli. La speranza dentro di me si riaccese.

Ma la sfortuna si abbatté come onde contro gli scogli, era molto difficile trovare il proprio compagno, la barriera cercava di mimetizzare le loro anime in mezzo alla coltre di umani che infestavano la terra.

Alcuni non riuscirono a reggere questa cosa e impazzirono, altri i più  pazienti, attesero solamente che la situazione mutò.

Finalmente il diciotto giugno del novantadue la luce si riaccese dentro di me, sentivo che Angelica era rinata. Andai nel mondo umano, volai fino a un villaggio sperduto in montagna dove sentivo con chiarezza la sua presenza.

Atterrai in mezzo a un boschetto, la felicità pervase il mio corpo percepivo piccoli vagiti in lontananza.
Iniziai a correre in mezzo alla pineta, gli aghi del sempreverde si inflitravano nei sandali conficcandosi nei mie talloni.

Ignorai il dolore completamente catturato dal mio obiettivo, sentivo la sua presenza, sicurissimo che fosse Angelica.
Ad un certo punto sbattei la faccia sulla barriera trasparente.
No!No! Urlai per la frustrazione, gli animali del bosco corsero via per la paura.

Non era possibile, la maledizione aveva danneggiato pure il sottoscritto.
Colpii  dal nervoso l'impedimento trasparente finché le mie mani non furono completamente scorticate.

In preda alla rabbia più ceca appicai il fuoco nel bosco.
Degli uomini accorsero con dei secchielli pieni d'acqua per spegnere l'incedio.

Mi nascosi dietro a un robusto tronco di un pino che riusciva a celare la mia slanciata figura. La mia attenzione venne catturata da un albero davanti a me, su di esso ero appollaiato il solito corvo che mi seguiva sempre.

Notai fissando il gruppo di umani che stavano spegnendo il fuoco, uno di loro aveva un odore vagamente familiare a quello della mia compagna.

Sul mio volto slavato si formò uno sguardo luciferino, sapevo che cosa dovevo fare.
Guardai di nuovo il corvo, mi avvicinai e lo trasformai in un demone.

L'immortale dal corpo completamente coperto di piume, atterrò in modo scoordinato e con gli occhi scarlatti pieni di stupore, non avevo tempo di vedere quella scena patetica.

Lo immobilizzai contro la corteccia dell'albero.
Lo fissai negli occhi e dissi con tono autoritario «Ti ordino di parlare con quell'uomo e di prendere accordi con me.»

Lei

Stavo giocando con il pallone a schiaccia sette con i miei amici Matteo, Mauro e Elisa, avevano la mia età erano molto simpatici ed erano gli unici che non mi trovavano strana.

Matteo era uno spaccone ma se avevi bisogno d'aiuto non esitava a darti una mano, era più alto di me, aveva i capelli castani lisci e gli occhi dello stesso colore.

I suoi genitori avevano una panetteria nella quale mi fermavo tutte le mattine, rischiando di arrivare in ritardo e prendermi una nota pur comprare la focaccia per il pranzo.

Mauro invece era un ragazzo timido e schivo, aveva i capelli lunghi e lisci che gli arrivavano alle spalle, in classe lo prendevano in giro dicendogli che sembrava una femmina.

Il nostro gruppo si schierava sempre in sua difesa quando succedevano questi atti di bullismo. Elisa era sempre la più portata dei tre nel confortare Mauro dopo gli attacchi verbali da parte dei nostri compagni.

Invece per ultima ma non per importanza, c'era Elisa una bellissima bimba dai capelli neri, era più bassa di me ed era cagionevole di salute infatti non tutti i giorni poteva venire a giocare.

I suoi genitori come quelli di Mauro erano agricoltori.
La maggior parte di questo villaggio viveva prettamente grazie a quel settore.

«Allora raccontaci di più del tuo amico. Uno» Matteo alzò la palla.
«Lui è simpatico, bello e gentile...» risposi alla battuta.
«Ma quanti anni ha? » chiese Mauro intanto che direzionò la palla dalla parte di Elisa.
«Beh non mi ricordo» mi concentrai, l'unica cosa che visualizzai nella mia mente era il suo viso sfocato.
«Come non ti ricordi? Fisicamente com'è?» domandò Matteo.
«Beh è alto e... ha i capelli neri» risposi.
«Scusa è il tuo amico immaginario e non ti ricordi com'è fatto?» chiese ancora Matteo con aria confusa.

«Ma no! Non è nella mia testa! Esiste davvero» dissi convinta.
«Allora possiamo incontrarlo?» Elisa sembrava incuriosita.
«Non è così semplice, lui non è ancora arrivato... mi manca così tanto» affermai in maniera confusionaria.

Tentare di ricordare il mio amico mi faceva sempre bruciare il petto, ignara di questo strano comportamento da parte del mio fisico.
«Allora come fai a dire se esiste se non l'hai mai visto? Sette!» Matteo schiacciò la palla nella mia direzione ma la scansai.

Mi sentivo nervosa, continuavano a fare delle domande alle quali non riuscivo a rispondere.
«Scusate, vado un attimo a prendere mio fratello e torno» mi allontanai e mi diressi verso l'asilo.
In alcuni giorni della settimana avevamo i pomeriggi e di solito uscivo con mio fratello insieme da scuola, oggi essendo martedì andai all'asilo a prenderlo.

Mio padre era il sindaco di questo villaggio sperduto in montagna, mia madre invece doveva occuparsi di mia sorella appena nata, inoltre essendo la moglie del sindaco era sempre impegnata.

Zacinto il mio fratellino era appena uscito da scuola. La piccola struttura aveva le tegole rosse e dalle gialle ruvide pareti.

Il piccolo mi veniva incontro correndo, il cappellino che aveva in testa non riusciva a coprire tutti i suoi bellissimi capelli biondi, i suoi occhi castani sprizzavano felicità e il suo grembiulino svolazzava da tutte le parti.

«Angelica!» mi arrivò incontro abbracciandomi.
Intanto che lo tenevo per mano lui mi raccontava la sua giornata «Oggi ho fatto tanti disegni, te ne regalerò uno quando lo porterò a casa domani. Poi ho fatto una tigre con la pasta di sale, poi...»
L'ascoltai parlare senza sosta finché arrivammo a casa, Zacinto abbracciò subito la mamma.

Una donna bellissima con i capelli biondi a caschetto e due occhi castani uguali a quelli di mio fratello. La chiamavo madre ma di quel ruolo non se ne mai occupata nei miei confronti, faceva le differenze e mi trattava come se fossi invisibile.

«Mamma io vado a giocare ancora con i miei amici al parchetto» le dissi, come se gliene fregasse.
«Okay» mi affermò senza guardarmi.

Baciai la mia sorellina Marica che stava dormendo pacificamente. Era bella con occhi castani e i capelli dello stesso colore, aveva le mani piccole e paffutelle.

Tornai a giocare dagli altri finché il sole iniziò a tramontare, mi mancava sempre l'aria quando si avvicinava questo momento, salutai gli altri e mi diressi verso casa in modo molto lento.

Quel luogo mi metteva paura quando c'era lui io sparivo come il vento, mio padre mi odiava ne ero sicura ma non ne conoscevo il motivo.
Senza accorgemene andai a sbattere contro qualcuno «Mi scusi» affermai in maniera impacciata.
«Ma quale scuse? Su tirati su.»
Spalancai i miei occhi celesti, riconoscendo immediatamente  la sua voce.

Zio Olmo era la mia luce, la mia ancora di salvezza in mezzo a questo mare di squali.
«Cosa ci fai qua, non eri via?» domandai.
«Sono tornato prima, ma tu come mai sei ancora in giro? una bambina di sette anni non dovrebbe essere a casa a mangiare?» mi chiese.

Zio Olmo era un commerciante di tessuti e ogni tanto si assentava dal villaggio.
Era un uomo affascinante con i suoi capelli rossi e lunghi che gli ricadevano fino a metà schiena, per non parlare dei suoi occhi azzurri così penetranti.

Era il fratello da parte di mio padre e l'uno era caratterialmente l'opposto dell'altro.
«Ho giocato troppo con i miei amici e non me ne sono accorta dell'orario» accampai una scusa.
«Ah capisco» disse con tono sereno ma con sguardo vacuo.
«Zio potrei venire da te a dormire?»
Non volevo assolutamente tornare a casa, lui era l'unico che mi faceva sentire bene.

«Angelica perché me lo continui a chiedere? una casa già ce l'hai.»
«Dai ti prometto che è l'ultima volta. Poi tu non vieni mai a casa nostra» cercai di convincerlo, diceva sempre così ma poi cedeva in continuazione.

«Va bene, ti ho preso un accessorio che usano molto in città.»
In questo villaggio era severamente proibito qualsiasi cosa portata dall'esterno soprattutto oggetti tecnologici, chissà cos'era? Doveva stare più attento se l'avessero scoperto avrebbe pagato una multa salata.

Andammo a casa di mio zio, mi lavai e mangiai della buonissima pasta al forno.
«Ecco guarda, visto che ti si sono ancora cresciuti i capelli ti calzerà a pennello e nessuno noterà che viene da fuori.»
Mio zio estrasse dalla tasca un nastro per i capelli color rosso con un piccolo ricamo dorato a forma di piuma, lo indossai immediatamente.

«Visto ti sta benissimo.»
Olmo mi accarezzò i capelli e questo gesto mi riportò alla mente qualcosa di nostalgico.
Indietreggiai imbarazzata e anche parecchio sulla difensiva.
«Che ti prende?» Olmo mi guardò confuso.
«Niente zio, meglio lavare i piatti e andare a letto» cercai di cambiare discorso.

Passò un anno da quel giorno e il tempo sembrava essere immutato. Io andavo sempre a dormire da mio zio e quando non c'era mi intrufolavo nella sua piccola casetta di mattoni.

Ma un dì tutto cambiò, si scoprì che Elisa aveva un tumore ai polmoni, i suoi decisero di non farla curare con le tecnologie che venivano da fuori chiamando a casa il santone del villaggio, poco dopo la sua salute peggiorò finché non morì.

Al funerale non ci fu molta gente e i dei bambini della mia età eravamo solo noi del gruppo. Il tumore non portò via solo Elisa ma anche le gioie passate, lasciando solo vuoto e dolore ma soprattutto l'ignoranza di questo popolo e dei suoi genitori che avevano negato l'unica sua via di salvezza. I bambini della nostra età erano rimasti impassibili perché Elisa non usciva spesso e non aveva molti amici, alcuni non sapevano com'era il suo viso e fu dimenticata in un soffio.

Dopo questo amaro capitolo, io e i miei amici cercammo di andare avanti. In una notte agitata mi svegliai, ero a casa di mio zio che era appena tornato da un lungo viaggio, mi alzai dal divano e andai al bagno.

Quando uscii mi accorsi che la porta di casa era aperta, andai a guardare in camera di Olmo ma non lo trovai. Indossai i larghi zoccoli di mio zio e mi assentai da casa per cercarlo.
Come mai era sparito senza dirmi niente?
Perlustrai il vicinato per circa mezz'ora ma senza successo.
Allora decisi di addentrarmi nel boschetto al confine del villaggio.

Faceva freddo rispetto al giorno e più mi avvicinavo al fiume e peggio era. Dopo una camminata di una decina di minuti, trovai un corpo riverso a terra vicino alla riva del fiume.

Il mio cuore smise di battere, la luce della luna fece brillare i suoi capelli in un rosso ancora più vivo.

No! No! La mia vista mi faceva brutti scherzi. Mi avvicinai cautamente, il corpo era girato con una spada infilzata nella schiena.

Lo rigirai e incominciai a scuoterlo «Zio!Zio!Zio!» il suo corpo era già freddo e rigido.

Le mie mani si erano macchiate di sangue scuro, le lacrime mi stavano rigando in viso.
Mi alzai barcollando, le gambe mi cedettero dopo pochi passi.
Il pigiama chiaro era sgualcito e due vistose macchie d'erba e sangue erano comparse nel punto in cui il tessuto sfiorava le mie ginocchia.

Riuscii a rialzarmi e correre in direzione del villaggio.
Incominciai a battere le mani in continuazione contro la prima porta che trovai.
«Aiuto!» gridai urlando in preda al panico.
Intanto macchiavo con le manine sporche di sangue le venature della dimora di uno sconosciuto.

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