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𝚒 𝚠𝚊𝚗𝚗𝚊 𝚕𝚒𝚟𝚎 𝚗𝚘𝚝 𝚓𝚞𝚜𝚝 𝚜𝚞𝚛𝚟𝚒𝚟𝚎

➥✱ TW :: f* word

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Sbatto la porta dell'ufficio del procuratore tanto forte da far quasi tremare il muro.

Supero il mio ragazzo, mi piazzo di fronte alla scrivania, mi appoggio sul bordo di legno con entrambe le mani aperte.

Ho il cuore in gola, il cervello che produce un'informazione dietro l'altra, il respiro corto, la pelle che formicola.

Non sto bene.

Non sto affatto bene.

Sono...

Siamo corsi qui.

Giusto il tempo di recuperare il Capitano, salutare le signore, riprendermi dallo shock e ci siamo catapultati in questura.

Ho...

Tanto a cui pensare.

Ora come ora sto cercando di controllarmi, di focalizzare i miei pensieri su una linea ben definita e di pensare solo al mio lavoro, al caso, al bastardo che ammazza la gente.

Però mi sento come se fossi una di quelle vetrate dove le crepe si dipanano a vista d'occhio, mi sento come se potessi distruggermi e cadere in pezzi da un momento all'altro.

Credo di aver sottovalutato... ieri notte.

Ma non ho tempo di pensarci, non ho tempo di ragionarci su, ho solo il tempo di risolvere questa storia.

Ci penso dopo.

Ci penso dopo?

Sì, a me ci penso dopo.

Bokuto è in piedi alle mie spalle, anche lui con gli occhi spalancati, le braccia conserte di fronte al petto, il respiro meno affannoso del mio ma comunque più svelto del solito.

So a cosa stiamo andando incontro.

Ed eppure... ingenuamente continuo a sperare.

Spero che vada tutto bene.

Spero che le mie parole abbiano un peso.

Spero...

Mi viene da vomitare.

Vorrei nascondermi nell'angolo più stretto di casa mia, aggrovigliarmi come un gomitolo su me stesso e nascondere la faccia fra le mani, piangere, urlare, disperarmi in solitudine. Ho paura, così tanta paura, e quella voce mi ha riportato indietro all'esatto momento in cui credevo fosse tutto finito, all'esatto momento in cui mi sono sentito morto, smerciato, venduto, usato.

Ho paura.

Una tremenda, sconfinata paura.

Stiamo parlando di qualcosa di grosso, qualcosa di enorme, e io a confronto mi sento minuscolo e debole.

Posso farcela?

Io, posso farcela?

Non so, se posso.

So che devo.

Che lo devo a me stesso.

Lo devo a me stesso, no?

Lo devo a me stesso, a quelli come me, alle persone come me, a chiunque sia me anche in minima parte. Lo devo a tutti, lo devo perché è il mio lavoro, perché è quello che sono fiero di fare.

Io lo so, come andrà.

Lo so bene.

Guardo il procuratore negli occhi e lo so già.

Ma, maledetto Kōtarō Bokuto, mi hai davvero insidiato nel cervello quel tuo malsano germe di ottimismo che tenta di fiorire, nonostante la mia razionalità lo pesti fino a renderlo polvere, o quantomeno ci provi.

Devo dirlo.

Devo farlo.

È...

Giusto, no?

È quello che è giusto.

Proteggere le persone.

Mettere in prigione quelle che fanno del male agli altri.

E quell'uomo ne ha fatto, del male, ne ha fatto a frotte, a me, ai ragazzi che mi guardano con gli occhi spenti dalle foto, a tutte le persone che tenevano a loro.

È giusto così.

È giusto...

– Akaashi, tutto bene? Hai la faccia di chi ha visto un fantasma. –

– Non è lui. Non è l'uomo che avete fatto analizzare. Non è il tizio morto. –

Sbatte le palpebre.

– Questo me l'avevi già detto, ma come mai tutta questa fre... –

– So chi è. –

Chiude la bocca.

Serra le labbra in una linea, il suo sguardo si fa meno gioioso, lo spavento momentaneo di avermi visto tuonargli qui di fronte svanisce, s'instaura un misto di serietà e curiosità nei suoi occhi.

Annuisce.

Come a dire... "vai avanti".

Deglutisco la saliva nella bocca secca, cerco di calmarmi, di trovare un modo di organizzare le parole fra di loro.

Bokuto non dice niente, sa che sono io a dover dire questa cosa, ma per quanto può mi si avvicina di un passo, giusto per farmi... sentire che c'è.

Purtroppo, in questo momento, la cosa non riesce a farmi star meglio quanto vorrei.

– Allora? Se sai chi è che aspetti? Akaashi, sei sicuro di sapere chi è o... –

– Il Ministro. Il nostro. È il nostro Ministro. – sputo fuori, in un impeto di coraggio che non so da dove io riesca a tirare fuori.

Il procuratore spalanca gli occhi.

Sono aperti, sono vuoti e vitrei e vacui, fumosi, lontani. Non so se sia stupore o cos'altro, ma non sembrano... arrivare alle mie parole.

Forse è meglio che io mi...

– Gli omicidi sono iniziati circa un mese fa, ma la richiesta di ragazzi alle feste a cui partecipava il killer un mese prima. Due mesi fa c'è stata la nomina dei Ministri. Quello degli Affari Interni è dell'Hokkaidō, due mesi fa non era a Tokyo, è arrivato... esattamente entro i tempi. –

Mi sudano le mani.

Ma non posso fermarmi a pensare.

Non posso, io non posso, non...

– Sono feste d'alto bordo. Possono partecipare persone ricche e lui è ricco. Il killer ha una mandria di scagnozzi al seguito e lui può benissimo avere una mandria di scagnozzi al seguito. E poi... –

Mi tremano le mani.

– La sua voce. Non ho fatto in tempo a fare rapporto, ma te lo dico ora. Quando ho staccato le comunicazioni con Kenma, l'uomo a cui Bokuto ha sparato mi ha portato in un sotterraneo. Era pieno di persone, ma erano tutti scagnozzi tranne uno, che mi stava... esaminando, come se fossi merce. Ha parlato. È la sua voce. –

Mi tiro indietro una ciocca di capelli, sento la testa pulsare, il cuore battermi tanto forte da farmi male, male davvero.

– La riconoscerei ovunque. Io so cosa ho sentito. Io c'ero. Era lui, io so che era lui. E se magari non li ammazza almeno li stupra, e il bastardo deve andare dietro le sbarre perché se ha fatto rapire e ammazzare quattro ragazzi e li ha stuprati è comunque un criminale e così potremo chiudere questa storia e giustizia sarà fatta e io... –

E io cosa?

Io potrò dormire sereno?

Io potrò stare in pace?

Dio, non lo so.

Ma so che saprò di aver fatto il mio lavoro.

E di aver difeso la... mia gente, alla fine dei conti.

Riporto gli occhi sui suoi.

– È lui. È stato lui. Dobbiamo indagarlo. –

Il procuratore mi fissa.

E come carta, come polvere, come vetro finemente lavorato dello spessore di un capello, distrugge con una folata di vento me e la mia stupida, stupida speranza.

– No. –

– Come no? –

– No. – ripete.

Sapevo che sarebbe successo.

Io lo sapevo.

Ma so anche che...

Non mi ha insegnato solo a sperare, Kōtarō, mi ha insegnato anche un sacco di altre cose. E alcune forse ancora non le ho imparate tanto bene, però...

Quello che penso ha valore, no?

Io ho valore.

E allora...

– Perché no? –

– Perché è un Ministro, indagarlo sarebbe impossibile. –

– Non dico vita, morte e miracoli, ma solo un mandato di perquisizione di casa sua, uno per il suo DNA, qualcosa che ci permetta di... –

– È un Ministro, Akaashi. –

Pianto la mano aperta sulla scrivania, mi sporgo dalla sua parte.

– È uno stupratore, un rapitore e un assassino. Ha fatto ammazzare quattro persone. Le ha tenute Dio solo sa dove per giorni. Non me ne frega un cazzo che sia un Ministro. –

Annuisce.

– Sì, ma frega a me. –

Stringo lo sguardo verso di lui, ma quando capisco che sta per dire altro, non riprendo a parlare.

– Non ci sono prove sufficienti per un mandato ad una persona normale, credi di averne per un mandato ad un Ministro, Akaashi? Sei completamente impazzito? –

– La mia testimonianza non è una prova sufficiente? La mia fottuta testimonianza diretta? Ero lì, cazzo, ero lì, posso giurare su qualsiasi santo in cielo che la voce è la sua. –

– Tu non basti. –

Lo dice con tale semplicità e con un tono tanto disarmante che...

Mi arrivano addosso, le sue parole.

Schivano ogni muro, ogni difesa, schivano la scorza d'acciaio che ho imparato ad ammorbidire, schivano la freddezza, e colpiscono dove devono colpire.

Dritto al cuore senza superstiti.

"Tu non basti".

Io...

Io non basto?

Io non basto, cazzo?

Io, che sono quasi morto, io che mi sono fatto trascinare di sotto e che ho litigato con Bokuto per questo, io che mi sono messo in tiro per farmi guardare mentre mi facevo il mio ragazzo da una schiera di viscidi schifosi, io che ci stavo per rimanere secco, io che ho pianto e ho urlato e ho tremato, io che non riuscivo a scrollarmi di dosso la paura, io, io che...

Io basto.

Io basto e avanzo, cazzo.

Io sono bravo, nel mio lavoro.

Io so quello che dico.

Giuro che lo so.

Non sono qui a giocare, non sono qui a...

Panico.

Quello che provo è puro, deliberato, semplice panico.

È la solita sensazione di sempre.

Stringere le mani nell'acqua e tirarle su, riaprirle per guardare i palmi vuoti, che non hanno afferrato niente, che sono scivolati via, di cui nessuno nel mare si è accorto.

Un po'... Arianna quando Teseo l'abbandona sull'isola di Nasso.

Chi te l'ha dato, il filo, bastardo?

Chi è che ti ha salvato il culo?

Chi ha fatto il lavoro sporco ed è stato incolpato e chi ora si ritrova sveglio e solo in mezzo a chili di sabbia, palme e rimpianto?

'Fanculo.

Cazzo, vaffanculo.

– Io ho sentito quel figlio di puttana parlare mentre il suo braccio destro del cazzo mi puntava una pistola addosso. Ha chiesto di che colore fossero i miei fottutissimi occhi. Voleva scoparmi e ammazzarmi, è questo che voleva fare a me. È questo che ha fatto a loro. Non me ne frega un cazzo se è un Ministro, io voglio quel mandato perché la gente come lui deve stare in prigione, non sopra di noi a giocare con le nostre vite di merda. –

– Akaashi, devi capire che... –

– Li ha rinchiusi. Tu hai idea di cosa sia successo loro mentre erano rinchiusi? Io ne ho solo un'idea e mi vengono i brividi a pensare che qualcuno possa fare qualcosa del genere ad un altro essere umano. –

Appoggio anche l'altra mano sulla scrivania, mi sporgo di più.

– Non puoi davvero venirmi a dire che dobbiamo lasciare quel bastardo là dov'è. Non puoi. Non quando ti sto giurando su tutto quello che di importante c'è al mondo che è lui. Ti devi fidare di me. –

Mi sembra di essermi aperto il torace.

Mi sembra di avere la cassa toracica sfondata e di stargli chiedendo di infilarci una mano dentro e favorire.

Io non parlo di pancia.

Io non parlo senza pensare.

Io sono freddo, misurato, non di certo un impulsivo, ma...

– Akaashi, non è che non mi fidi di te, è che ci sono delle procedure. –

– Procedure che impediscono a me di mettere dietro le sbarre un tipo del genere? –

– Esatto. –

Mi viene... naturale.

Sbatto la mano sulla scrivania.

Il rumore rimbomba in tutto l'ufficio, il procuratore sussulta, Bokuto... non si muove.

– Li ha fatti scaricare come se fossero spazzatura. Quelle erano persone. Persone vive. Persone giovani, felici, con un sacco di cose da fare e un sacco di sogni, e... scaricate sul bordo della strada. Non ha neanche provato a seppellirli. Non ha avuto il minimo cenno di pietà. –

– Non metto in dubbio che sia andata così ma abbiamo già l'assassino e ti ripeto che mi servono prove più solide per... –

– Non avete il cazzo di assassino, avete una pistola che ha sparato! Non sai chi abbia sparato i colpi, non sai chi li abbia stuprati, non sai un cazzo! Stai qui a dire le tue stronzate sulle procedure mentre quello se la ride convinto di averla scampata di nuovo e tu non fai un cazzo! –

Sento la mia stessa voce perforarmi le orecchie, credo di aver urlato. La gola mi si stringe, gli occhi mi pizzicano, ogni muscolo nel corpo si contrae.

Mi scuote... un tremore di rabbia, credo.

Cerco di calmarmi.

Per un secondo, uno solo, cerco di contare i miei respiri per potermi calmare, per poter risistemare le mie idee, per potermi dare un tono o qualcosa di simile.

Chino lo sguardo, indietreggio, il mio petto si alza e si abbassa sempre più lentamente.

Sento il rumore di fogli.

– Manca il kit antistupro. C'è la richiesta e non il referto. Con cosa vorresti comparare il DNA prelevato al Ministro, Akaashi? Non hai neanche i risultati delle analisi. Non sai manco se c'è, il DNA, sui quei corpi. –

Stringo i denti.

– Non chiamarli corpi. –

– Sono corpi. –

Mi mordo forte l'interno della bocca per evitare di rispondere male.

– Tutto quello che hai è una fibra di tessuto, un pelo di cane, qualche foto, e una teoria. Queste non sono prove sufficienti. Se facessero ricorso per l'annullamento del mandato, anche con la tua testimonianza, perderemmo. –

– C'è stato più di un caso montato sul lavoro sotto copertura di un agente. –

– Sì, ma la situazione è diversa. –

Alzo il volto dalla sua parte.

Apro la bocca per chiedere "in che senso diversa, dove cazzo la vedi diversa", e poi inizio a pensare, a...

È vero, la voce non è stata registrata, non avevo l'auricolare, ma continua a valere la mia parola.

Il GPS mi ha seguito fin nel seminterrato, e ci saranno chiarissime prove della presenza di qualcun altro oltre a me e al morto, tante da poter affermare che qualcuno, là, ci fosse.

E...

Mi calano le sopracciglia sul viso, il mio corpo si rilassa, i muscoli si sciolgono.

I pezzi del puzzle s'incastrano.

– È perché sono gay. È per questo che credi che la mia testimonianza sia inutile. Perché sono gay. Non è vero? –

– Non è per questo che... –

– Perché sono prostitute gay contro un Ministro, perché sono vite da nulla contro quella di uno che conta. E l'unica prova che abbiamo è in bocca ad un gay. Un gay che cinque anni fa faceva la troia. – gli sputo addosso.

Sussulta, quando mi sente dire l'ultima parola.

Sussulta.

È...

– È perché se chiedessero la mia attendibilità in aula saresti costretto a dire cosa facevo prima, e quel che facevo prima era quello. Perché nessuno crederebbe ad un frocio che faceva la troia che cerca giustizia per altri froci che facevano le troie, no? Perché tanto a chi cazzo importa, tanto a chi cazzo mancano, il caso è chiuso, l'assassino ce l'abbiamo, comodamente morto per non rispondere a nessuna domanda. È una situazione perfetta, una risoluzione perfetta, così puoi andare con quella tua faccia da culo a stringere mani e a prenderti i meriti della risoluzione di un caso che non è risolto. –

Tutto.

Mi sale tutto.

Tutto quello che c'è.

Tutto quello che ho.

Qualsiasi... cosa.

– Perché è tanto meglio che uno stupratore assassino ti stringa la mano e ti dica "complimenti" che dire ad una banda di froci e di troie che hai salvato la vita ad un altro di loro, no? Perché tanto sono froci, sono troie, a chi cazzo importerà mai? Meglio la medaglietta. Meglio l'elogio. Meglio la fottuta foto sulla parete. –

Mi tremano le mani.

Ho il cuore in gola e mi sembra che tutto...

Bokuto è più vicino a me, di nuovo.

Questa volta ha...

Gli occhi lucidi. La mascella stretta. Non dice niente, continua a non dire niente, ma...

– Non sapevo nemmeno che fossero prostitute. – risponde il procuratore, con un filo di voce.

Annuisco.

– Ma che lo fossi io lo sapevi. È per questo che il fatto che ci sia quasi rimasto e che mi abbiano quasi rapito non conta un cazzo. Perché facevo la troia. Perché nessuno crederebbe mai alle parole di una troia. Perché il cazzo di valore che ho come persona è zero, se anche solo per un minuto della mia vita ho fatto la troia. –

Riprendo fiato e quell'aria che mi entra nella trachea sembra fuoco, brucia, esplode, irrita ogni angolo della mia gola.

– Io rischio la vita ogni giorno, io faccio questo lavoro per proteggere le persone, per proteggere quelli come te, come quel figlio di puttana del tuo Ministro di merda, e comunque qualsiasi cosa faccia non conta un cazzo. Perché sono solo un frocio che ha scelto di provare a campare come poteva quando nessuno gli stava dando una mano. –

Sono...

Infuriato.

Arrabbiato.

Deluso, disilluso, stanco, sfinito, incazzato, furente, senza controllo, senza speranze, senza freni.

Mi sembra...

Che nelle ultime due settimane qualcuno abbia pian piano tolto ogni grammo del peso che mi gravava sulle spalle per poi rilanciarmelo addosso tutto insieme in questo esatto istante.

Mi ero abituato a reggerlo, col tempo.

Ma ora, a rimettermelo addosso tutto insieme...

Non so se reggerò.

Non ne ho idea.

So solo che non so che cosa sto facendo, non so come sto reagendo, e che non mi sentivo tanto vulnerabile e ferito da quando avevo diciassette anni e guardavo la porta della casa in cui ero cresciuto chiudermisi di fronte.

Io non me lo dico mai, quello che ho fatto in quei quattro anni prima di entrare all'Accademia. Non me lo ripeto mai, perché mi dico che me ne vergogno e che...

Almeno quando facevo la troia le persone che lavoravano con me erano pronte a fare di tutto pur di aiutarmi. Almeno mi davano una mano. Almeno erano comprensive.

Sarà perché tanto eravamo tutti sulla stessa barca?

So soltanto che qui, ora, quella collaborazione, quell'intesa, non c'è.

C'è solo...

– Akaashi, stai facendo una scenata alla persona sbagliata. Non è colpa mia. Io non lo faccio per fare un torto a te, lo faccio perché voglio che il bastardo finisca dietro le sbarre, e ora come ora non sei un testimone che un giudice direbbe sufficiente. Non sei tu, sono gli altri, ma se vogliamo che le cose funzionino dobbiamo giocare il loro gioco e... –

– Io ho giocato il vostro gioco di merda per ventisei anni. Io non ho fatto altro che giocare il vostro gioco per ventisei fottutissimi anni. Lo sai che cosa ho ottenuto? –

Gli occhi smettono di pizzicare.

Ora le lacrime colano direttamente.

– Niente. Non ho ottenuto niente. E sai, non è che chiedessi comprensione o condivisione a quelli come te, solo... di essere trattato come una persona. Invece io non sono una persona. I ragazzi che sono morti non sono persone. Siamo solo... aria. A nessuno importa se la calpesti, tanto nemmeno la vedi. –

Respirando mi scappa un singhiozzo.

– E tutto questo per cosa? Perché mi sono innamoro delle persone del mio stesso sesso? O perché a diciassette anni mi servivano soldi per campare? –

Indietreggio di un passo.

Incazzato, disperato, senza... il minimo controllo su me stesso. È questo che sono, ora, al momento. È questo che sento.

– Lo sai cos'è che fa ridere di tutta questa storia? Lo sai? E che quelli come te sono i primi a fare la fila per metterci le mani addosso, per toccarci, per guardarci. Spendete i soldi che dovreste dare ai vostri figli per scopare noi. Sacrificate voi stessi solo per avere un minuto in più del nostro tempo. Siete voi quelli patetici, non noi. –

Evito il corpo di Bokuto, quando indietreggio di nuovo.

– Voi siete gli animali che non sanno controllarsi. Voi siete le aberrazioni della società che tradiscono le proprie mogli. Voi mentite e non fate altro che quello. E nonostante questo, noi siamo quelli che muoiono e di cui a nessuno importa, e voi invece siete quelli importanti. –

Arrivo vicino alla porta.

Scuoto la testa, sorrido, ma non è un sorriso felice, è un sorriso sfinito.

– Io mi sono stancato. Mi sono stancato di tutto questo. Non vuoi aiutarmi a fare giustizia? Allora me la faccio da solo. Per me e per quelli come me, perché ce lo meritiamo. Perché... perché qualcuno lo deve pur fare. –

Non so cosa sto facendo.

Non ne ho idea.

So che attraverso lo stipite, che la apro, me la chiudo alle spalle, e che la sento sbattere tanto forte che il rumore quasi mi fa male alle orecchie.

Mi muovo... di puro istinto.

È una cosa che non so fare, che non sono affatto abituato a fare.

È una cosa che faccio perché ormai sono così desolato delle mie stesse speranze che non riesco neppure a rimettere su i miei meccanismi soliti.

Io...

Non sento.

Non sento la porta che si riapre, non sento i passi dietro i miei, non sento il respiro dietro le mie spalle.

Sento le mie lacrime.

Una dopo l'altra, giù con un torrente sulle mie guance, sento i miei singhiozzi, la mia rabbia, sento mille, duemila pensieri, sento una voce nella testa che urla, sbraita di fare quello che è giusto, senza pensarci due volte, senza...

Mi butto a capofitto verso le scale.

Quando esco in strada, non mi fermo nemmeno quando sento enormi gocce di pioggia martellarmi le spalle.

Quando ha iniziato a piovere?

Non ricordo com'era il tempo stamattina.

Non m'importa che faccia freddo.

Non m'importa niente.

Non m'interessa che qualcuno mi stia seguendo, non voglio sentire le sue parole perché ora voglio sentire solo le mie, non m'interessa se mi fanno male le gambe e se l'aria che mi sferza sul viso pare mi schiaffeggi, non m'interessa se le persone mi guardano con gli occhi sgranati camminare e piangere, non m'interessa niente.

So dove sto andando.

So che due isolati più avanti c'è il fottuto Ministero.

So che...

Attraverso senza nemmeno guardarmi attorno.

Cammino senza nemmeno pensare di essere vivo.

Che tanto questa è la fine, la mia di sicuro, ma almeno sarà anche la sua e non farà più del male a nessuno e nessuno...

Lui se lo merita, vero?

Se lo merita.

Non ha ragione lui.

Nessuno di loro ha ragione.

Io ce l'ho, non è vero?

Perché il mondo dice di no? Perché è così difficile? Perché nessuno vuole darmi ascolto, perché la mia voce non ha un peso, perché niente di quello che faccio serve, perché io non sono nessuno, per quanto ci provi, per quanto mi sforzi, per quanto...

Arrivo di fronte al Ministero che guardo l'edificio ergersi dopo un mare di scalini.

Non mi fermo.

Anche se mi piove addosso e se in questo preciso istante, qui, sulla scalinata, il mondo è deserto e l'unico a compiere questa fatica sono io, non mi fermo.

Anzi.

Tiro il braccio indietro.

Guardo la facciata del Ministero.

Infilo le dita sul retro dei pantaloni, stringo la mano attorno al calcio della pistola di servizio, la prendo in mano e faccio scattare la sicura, incerto ma allo stesso tempo convinto di quello che faccio.

Io ti ammazzo.

Nessuno vuole farlo?

Lo faccio io.

Perché se non conto un cazzo, questa è l'unica cosa che posso fare.

L'unica.

L'unica che...

Non faccio in tempo a salire il primo scalino.

Non faccio in tempo a sentire nemmeno il polpaccio flettersi per il tentativo di spingermi verso l'alto, che il mio corpo non c'è più e tutto quello che sento sono braccia da dietro che mi stringono come se fossero di metallo e mi tengono... fermo.

Mi ribello.

No, no, non può andare così, io devo...

Provo a spostare le spalle e a dimenarmi ma non serve, niente serve, neppure mi pare di starmi muovendo, la presa sulla pistola si fa più debole e mi sento tirare indietro e...

No, no.

Io lo devo ammazzare.

Io devo proteggere le persone come me.

Io devo farlo.

È l'unico modo che ho, l'unico che ho per...

Per avere quello che merito.

Perché tutti quelli come me abbiano quello che si meritano.

Per proteggere e per aiutare e per...

– Lasciami andare! –

Bokuto stringe più forte, le mie lacrime si mescolano alla pioggia torrenziale, la pressione sul mio corpo è tale che non riesco a tenere contratti i muscoli delle mani e sono costretto a lasciar andare, la pistola cade a terra.

Sbatte contro il marmo degli scalini.

– Lasciami andare, devi lasciarmi andare, tu mi devi lasciar andare, mi devi... –

Non parla.

Lo sento tremare.

Con la schiena sul suo petto, lo sento tremare e so che non è per il freddo, ma perché...

Non ti guardo.

Se ti guardassi cambierei idea e io non voglio cambiare idea.

Lasciami andare.

Devo fare quello... quello che è giusto.

– Lasciami andare, Kōtarō, lasciami andare, lasciami... –

Non cede.

Lui sta...

Lui...

Perché diavolo lui...

Mi dimeno di nuovo, di nuovo non mi libero.

È tutto inutile, è tutto fottutamente inutile, è tutto, tutto...

– Che cazzo stai facendo, Kōtarō? Che cazzo ci fai qui? Perché cazzo non mi lasci andare? Lasciami andare, lasciami andare, ti prego, ti... –

Non risponde.

Dico la prima cosa che mi viene in mente.

– Non hai sentito quello che ho detto? Non l'hai sentito, prima? Io facevo la troia, questo non te l'avevo mai detto, no? Che cosa ci fai qui ad aiutare una troia, Kōtarō, che cosa cazzo ci fai tu a... –

Singhiozzo così forte che mi si stringe la gola e mi pare di non riuscire a respirare.

Non so in che condizioni sono.

Fa freddo.

L'acqua sui vestiti mi sta facendo congelare.

Sto...

– Perché a nessuno frega un cazzo delle persone come me, Kōtarō? Perché? Perché non ci difende nessuno? Perché qualsiasi cosa accada noi siamo sempre in fondo e nessuno ci aiuta? –

Non ho la minima idea del perché io dica quello che dico.

A questo punto è...

Un flusso inarrestabile di qualunque cosa.

– A noi chi ci difende? A noi chi cazzo ci aiuta? –

Urlo, credo di star urlando.

Il rumore della pioggia è così forte e torrenziale che nemmeno me ne rendo conto.

– Io sono come loro, io ero come loro, e se fossi morto come loro non sarebbe importato a nessuno. Nessuno avrebbe combattuto per me. Mia madre sarebbe stata felice, al mondo non sarebbe cambiato niente, e tutto questo perché... perché... –

Provo a divincolarmi ancora, ma è più un riflesso del mio corpo che una vera intenzione.

Non scappo.

Non posso.

Non...

– Io non lo so perché mi piacciono gli uomini, Kōtarō, io non ne ho idea. Io vorrei saperlo ma non lo so, cazzo, non... come può essere colpa mia? Io non so nemmeno perché sia così, non so... perché il mondo pensa che sia colpa mia? Perché il mondo pensa che sia una colpa? Io non... non ho mai fatto male a nessuno, io... –

Tiro su con il naso.

– Io non volevo fare un torto a nessuno, io non l'ho scelto, io... perché deve far schifo, perché deve fare paura, perché loro pensano che sia aberrante, perché... –

Mi arrendo.

Il mio corpo si arrende.

Diventa molle e diventa inerme e io mi lascio andare, rimango nulla più dell'insieme sfinito delle mie ossa, appeso alle braccia di Bokuto che mi tiene insieme, che mi tiene... in pezzi che ancora rimangono attaccati fra loro.

Piango forte.

Senza... freni.

Come ieri notte.

Ma con la consapevolezza, ora, che io non ho vinto niente e che qualsiasi cosa io abbia fatto è stata completamente, inevitabilmente...

– Avevo diciassette anni, non avevo un vestito, non avevo un soldo, che altro dovevo fare? Morire di fame? Morire per strada? Io volevo solo sopravvivere, volevo solo... –

Fa male.

Mi fa male qualcosa dentro al petto.

Non so cosa.

Non... so bene dove.

Ma fa male.

Male... male davvero.

– È lei che mi ha cacciato, è lei che mi ha costretto, è lei che... che... e ora... ora sono io che non valgo niente solo perché volevo vivere, non è giusto, non è... –

Lascio cadere la testa indietro, su una delle sue spalle.

– Perché quelli come me non meritano niente? –

Guardo il cielo per un secondo, poi chiudo gli occhi per proteggerli dalla pioggia, non so se a bagnarmi sia l'acqua che scende dalle nuvole o quella che cola dalle mie ciglia, stringo forte le labbra, piango ancora.

– Che cosa abbiamo fatto di male? –

Respira con le labbra vicine al mio orecchio, sento il suo corpo sotto il mio.

– Perché ogni volta che mi illudo di poter essere felice poi mi tutto il mondo s'impegna per ricordarmi che io non me lo merito? –

Crolla con la faccia contro la mia spalla.

Non apro gli occhi per guardarlo.

Li tengo chiusi, come se fossi morto, sotto la pioggia, nel silenzio tombale che mi circonda.

Chissà perché non dice una parola.

Chissà perché.

Non parla da...

Da quando mi sono reso conto chi fosse la persona di ieri sera.

Forse è perché...

Non è d'accordo con me? È d'accordo col procuratore? È disgustato dal fatto che io abbia fatto... quello che ho fatto in passato? Cosa pensa, io vorrei sapere cosa...

Non parla.

Sta.

Lui... sta fermo.

Sta...

Rimane.

È rimasto.

Non...

Non ho la minima idea di cosa sia successo nell'ultima... mezz'ora? Ora? Dieci minuti, dieci giorni, una vita intera, un secondo, un...

So che c'era.

Io so che dovunque fossi, c'era.

E so che...

Apro gli occhi.

Giro la testa.

I miei occhi incontrano i suoi e ricomincio a piangere più forte, quando lo fanno.

Bokuto piange, se io piango, piange per me. Bokuto soffre, se io soffro, corre se io corro, sta dove sto, segue se io corro, ascolta se parlo e tace se sa che l'unica cosa di cui ho bisogno è buttare fuori, lui mi salva se sa che ho bisogno di essere salvato e...

Vorrei così tanto avercela con te.

Vorrei dirti che è colpa tua che mi hai illuso che il mondo fosse un bel posto, quando invece campo sempre nella stessa merda, ma...

Come faccio?

Io...

Mi sorride.

È il sorriso più sofferente che abbia mai visto ma è spettacolare.

Sembra dirmi...

Singhiozzo io, singhiozza Bokuto, il mondo intero ci rovescia il suo pianto torrenziale addosso.

Non mi sembra ci sia nessuno.

Pare che...

Sia tutto fermo per un attimo.

Io sono spossato.

Ho detto così tanto, subito così tanto nel giro di così poco, ho provato così tanta rabbia e così tanto dolore che mi sento... sfinito.

Si è spenta?

La furia, intendo.

C'è ancora?

Provo a lanciare un'occhiata stanca per terra, vedo la pistola ancora là, fradicia di pioggia, che mi guarda.

No, non c'è.

Non c'è molto, in realtà.

C'è... sonno.

Tanto, tanto...

Richiudo gli occhi, mi lascio andare, ogni emozione mi evapora di dosso e sospiro, le lacrime che continuano a cadere imperterrite sui miei occhi.

Sono stanco.

Tanto, tanto...

– Ti senti meglio? –

Ha la voce spezzata.

Umida, sofferente. Però anche calda.

– Un po' sì. Sto sempre male, ma... sto meglio. –

– Vuoi sfogarti ancora un po'? –

– Non so se al momento ne ho le forze. –

– Torniamo a casa? –

Prendo un respiro profondo.

– Rimaniamo ancora un minuto? –

– Certo. –

Torna con la fronte sulla mia spalla, anche lui non riesce a smettere di piangere.

Richiude le labbra.

Ma questa volta la domanda gliela faccio sul serio e risponde.

– Chi te lo fa fare? Di starmi dietro e di... –

– Me stesso. Lo faccio perché lo voglio. Perché sei il mio ragazzo. Perché hai ragione, perché mi fido di te, perché sono qui per rimetterti in piedi quando cadi. Perché ti voglio bene, Keiji. Perché ne hai passate tante. Perché vorrei tanto renderti felice e per farlo è necessario che io sappia che cosa ti rende triste. Perché te lo meriti. –

– Io non me lo meri... –

– C'è una sola cosa che di te non mi piace, sai qual è? –

Lo dice all'improvviso, quasi a caso, e sentirglielo dire mi... stupisce, immagino. Spalanco gli occhi, non rispondo, non lo interrompo quando apre bocca per continuare.

– Tu credi nella giustizia, credi nella lotta per i diritti, credi nella libertà. Tu combatti ogni giorno per fare la cosa giusta e per proteggere le persone, ti fai in quattro per far bene il tuo lavoro, credi che ognuno meriti rispetto e dignità. Tutti. Tutti tranne te stesso, Keiji. –

Sento le sopracciglia sollevarsi sul mio viso.

Le lacrime si fanno più copiose sul suo volto.

– Tu ti svegli ogni giorno e cerchi di trasformare questo mondo in un posto migliore, ma non credi di meritarti niente di quello per cui combatti. Ogni problema che insorge è colpa tua, tu credi che sia colpa tua, e ti tratti come se alla fine non ci fosse nient'altro per te al mondo del fallimento, del rifiuto, del dolore. Non ti dai seconde chance, tu... –

Tira su con il naso.

Mi guarda.

Dorati, caldi, umidi, pieni di lacrime.

Mi sorride.

– Tu sei completamente cieco, quando ti guardi allo specchio. –

– Io non... –

– Tu credi che gli altri abbiano quasi ragione ad avercela con te e con le persone come te perché tu pensi quasi le stesse cose. –

Io penso che abbiano ragione?

No, non penso che abbiano ragione, ma...

Comprendo il perché lo pensino, forse...?

– Tu sei la creatura più meravigliosa che io abbia mai visto. Sei intelligente, sei bello, sei coraggioso e sei razionale, sei eccitante e sei divertente e io sono perso e cotto di te al punto che potresti chiedermi di tagliarmi un braccio e lo farei, ed eppure tu di te stesso pensi che sei solo... non riesco neanche a dirlo, scusami non riesco a... –

– Un frocio che faceva la troia? –

Gli si piega il viso.

Quasi una smorfia di dolore.

– Lo vedi? Lo dici come se fosse facile. Come se fosse scontato. Come se... –

– Tu non credi che io sia un frocio che faceva la troia? –

– Io credo che tu sia Keiji, che tu sia perfetto e che sono lo stronzo più fortunato del mondo anche solo a poterti vedere da così vicino. –

Separo le labbra per prendere aria, perché d'improvviso mi manca dal petto.

– Penso che l'unico motivo per cui m'interessa il genere da cui sei attratto è perché voglio stare con te, penso che qualsiasi cosa tu abbia fatto quando eri più piccolo anche se non fosse stato per sopravvivere sarebbe comunque stato un lavoro dignitoso, penso che non dovresti arrenderti al fatto che il mondo ti odia, penso che... dovresti combattere per te stesso, una volta tanto. –

Guarda in basso per un istante, cerca di respirare la gli trema il petto, deglutisce la saliva.

– Penso che tu possa fare tutto quello che vuoi, penso che tu sia l'unico che possa mettere quel figlio di puttana dietro le sbarre seguendo ogni cazzo di regola alla perfezione, penso che... tu abbia ragione ad essere incazzato, ma che se ti amassi di più non avresti dubitato di potercela fare in modo... legale. –

Stampa di nuovo gli occhi suoi miei.

– Penso che ti amo, Akaashi Keiji, anche se ti detesti, perché io non sono cieco, io ci vedo, e quando ti guardo non posso fare altro che innamorarmi di te ogni secondo di più. –

Lo spingo verso di me.

Stringo forte le braccia dietro al suo collo e lo spingo verso di me.

Sa di sale.

Sa di...

Lo bacio finché non finisco il fiato.

Lo bacio finché non mi sento più le labbra.

Lo bacio finché...

Il mondo fa schifo, no? È questo che pensavo un attimo fa. È questo che mi ripeto da prima, è questo che...

Come può far schifo se mi ha dato te?

Come?

Come posso odiarmi se tu mi ami?

Come posso...

Mi stacco ma non mi allontano.

Rimango con la fronte attaccata alla sua.

– Portami a casa, Kōtarō, ti prego. Voglio... andare a casa. –

Mi bacia le labbra.

– Certo, va bene. Tutto quello che vuoi. –

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

ok cuori miei belli ho pochissimo tempo per scrivere questa nota perchè devo andare al cinema e sono in ritardissimo MA 1) non ce l'ho fatta a rileggerlo, credo che l'essere me stessa e keiji insieme mi abbia uccisa sto capitolo l'ho scritto piangendo, 2) l'ho scritto completamente di getto perchè essendo molto emotivo credo che fosse il modo migliore e 3)

RAGA E' TIPO CREDO UNO DEI TRE CAPITOLI PIU' IMPORTANTI DI QUESTA STORIA VI PREGO VI IMPLORO DITEMI COSA NE PENSATE PERCHE' SE E' BRUTTO MI AMAZO

e niente

ora vado al cinema

(vi voglio bene piccoli cuoricini di panna e se vi ritrovate in qualcosa di quello che è scritto qua sopra vi mando un bacino)

see u soon

io cerco di smettere di piangere

mel :D

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