𝚒'𝚖 𝚊 𝚍𝚛𝚎𝚊𝚖𝚎𝚛
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───
Stiracchio le braccia sopra la testa.
Sento le giunzioni delle spalle scricchiolare pericolosamente, la mia schiena stirarsi e indolenzirsi in ogni angolo, la testa farsi pesante.
Mi sfilo gli occhiali prendendoli coi polsi e lasciandoli cadere sul divano, mi adagio indietro, lascio che il collo cada in basso verso lo schienale.
Rimango un attimo fermo in questa posizione, sento la stanchezza coprirmi e avvolgermi come una coperta, intorpidirmi, spremermi contro la superficie morbida del divano.
Sono sfinito.
Non so da quant'è che non mi alzo da qui.
Inizio a credere che i cuscini abbiano fatto la forma del mio sedere sotto di me.
Sospiro, mi massaggio distrattamente le tempie, poi faccio leva sulla parte bassa della schiena – con una fatica che a ventisei anni sono convinto non dovrei provare – e mi spingo su, verso il tavolino basso di fronte a me.
Pesco la sigaretta accesa dal bordo del posacenere, la porto alle labbra, prendo un tiro.
Mi brucia il retro della gola, credo di aver fumato troppo, anche oggi. Ma... sono nervoso, e quasi sempre in solitudine qui dentro, quindi molto di più, non posso fare.
Batto via la cenere.
Senza occhiali i contorni di tutto quello che c'è sparso di fronte a me sono confusi e sono poco definiti. Vedo giusto il bordo di fogli e cartelline, sicuramente non vedo le parole, men che meno distinguo le foto.
Le so a memoria.
Nonostante non riesca a leggere o a mettere a fuoco, so ogni riga, ogni parola, ogni risoluzione a memoria.
E saperle a memoria mi fa incazzare.
Slego le gambe incrociate, spingo di lato le ginocchia verso il divano per stirare i muscoli delle cosce.
Distrutto.
Non credevo che star fermo così tanto potesse rendermi così, ma è questo che sono, distrutto.
Mentalmente, psicologicamente, emotivamente.
Ma anche fisicamente.
Mi sta drenando.
Ma...
Va bene che lo faccia. Ho deciso che va bene.
Se non fosse così non sarei a posto con me stesso.
E ho deciso, un mese fa, che piuttosto sarei morto provandoci, ma non avrei lasciato perdere. Perché se nessuno vuole proteggerci, se nessuno vuole proteggere le persone come me, allora sono disposto a sobbarcarmi quel peso io stesso, pur di non permettere che il mondo continui a girare in questo senso.
Qualcuno direbbe che mi sta distruggendo.
Immagino che a molti sembri esattamente così, la situazione.
Ma non è la verità.
La verità è che mi sta salvando.
Perché mi permette di prendermi cura di una parte di me che prima d'ora mi vergognavo anche solo a ripescar fuori dalla mia mente.
Non so quanto ci vorrà.
Forse un giorno, forse un'ora, forse dieci minuti. Forse un mese, due, un anno, dieci, venti.
Non m'importa.
È una questione di priorità.
È...
Cercare di rimettermi in piedi.
Non mi era mai successo di rompermi a quel modo, prima.
Mi era capitato di scheggiarmi, di perdere un pezzo, di destabilizzarmi per un solo istante, di perdere la bussola e ritrovarla l'attimo dopo.
Ma di disfarmi a quel modo?
Mai.
Mai nella vita.
E non mi ero mai reso conto prima di quanto fosse... liberatorio.
Se di te si scolla un tassello, l'unica cosa che puoi fare è rincollarlo insieme come viene, cercando di rimettere in ordine l'immagine originaria anche se talvolta ti dimentichi di come fosse.
Ma se tutto cade a pezzi?
Allora i tasselli li riprendi a piene mani e puoi comporre un mosaico diverso.
Mi ha distrutto.
Ma mi ha anche dato l'occasione di rimettermi in piedi, aggiungendo allo schema di me stesso anche tutto quello che prima cercavo di tenere cucito al limite della mia mente.
Mi sto riaggregando pian piano.
Sto prendendo ogni filo e lo sto intessendo da capo.
Ed è spettacolare, davvero, notare con quanta lana io possa lavorare se decido che ogni gomitolo va bene, non solo quelli che mi permettono di essere stabile con me stesso.
Sono fermo da un mese.
È passato un mese.
È un mese che...
Inforco gli occhiali, prendo un altro tiro, spingo verso di me il tavolino e riguardo per l'ennesima volta le stesse identiche, solite righe.
Ho chiesto il congedo retribuito il giorno dopo quello che è successo di fronte al Ministero.
E quello dopo ancora ho preso tutto, tutto quello che avevo in Centrale, ogni fascicolo, ogni foto, ogni appunto, e l'ho sparso sul tavolo di casa mia iniziando sul serio, in libertà, a lavorare al caso come era necessario che facessi.
La prima settimana non mi sono quasi neppure alzato.
Sono rimasto fermo là, a leggere, rileggere, a pensare, a fumare e a maledire il cielo.
Il problema è che poi...
No, non è un problema. Non sarà mai un problema, anzi.
Kenma si è presentato.
E mi ha detto che gli sembravo... un senzatetto.
"Cazzo, Keiji, ti ho visto crepare di fame sulle strade per anni ma così mai, tirati su e vatti a fare una cazzo di doccia, schifoso".
È così che sono finito qui.
Col... "Comitato di salvataggio Keiji", ovvero Kuroo, Kenma, Iwaizumi, Oikawa e Bokuto.
Si sono messi d'accordo, a quanto pare di fronte al Kimchi di Kuroo, sull'idea che io, da solo, a casa, non potessi stare, o probabilmente m'avrebbero trovato col cancro al polmone e la cataratta a crepare sul mio divano.
Il primo tentativo è stato nell'appartamento-castello di Oikawa.
Sono stato trasferito là e mi è stata assegnata una pratica camera degli ospiti.
Però...
È fallito dopo due giorni.
Ero sul tavolo della cucina a cercare di mangiare qualcosa, credo verso le tre o le quattro di notte, e ho sentito cose che non dovevo sentire. Tipo la testiera del letto sbattere contro il muro come se volesse distruggerlo e Oikawa che urlava "Hajime" ad un volume di voce decisamente troppo alto e tutta una sequela di cose oscene.
Secondo tentativo, Kuroo e Kenma.
Fallito dopo venticinque minuti.
Mi sono acceso una sigaretta nel loro salotto, Kenma mi ha cacciato a calci nel culo.
E poi...
Qui.
Qui era il posto dove non contavano di mandarmi, perché credevano che fosse troppo presto, che avrebbe compromesso la stabilità e che fossimo insieme da un intervallo di tempo non sufficiente.
Però...
O qui o a casa mia.
Casa mia significava non vedermi per giorni.
Qui significava mettermi nelle mani di qualcuno che a prescindere da tutto si sarebbe preso cura di me.
Quindi... vivo da Bokuto. Da tre settimane, io vivo da Bokuto. Mi sveglio nel suo letto, dormo con lui, rimango a casa a lavorare e vado ad accoglierlo quando torna, porto il Capitano a fare una passeggiata dopo pranzo per schiarirmi le idee, faccio sesso, una montagna, una barca di sesso.
Non aveva senso il discorso di "è troppo presto", me ne sono reso conto un'ora dopo essere arrivato.
È tutto troppo presto.
Mi ha detto "ti amo" dopo due settimane.
Ed eppure...
Non esiste un presto, non esiste un tardi, non esiste un giusto o uno sbagliato, quando si tratta di questo. Non esistono tempi comandati, non esistono regole.
Esistiamo noi.
E noi così esistiamo bene.
E io non mi annullo e non mi distruggo, io non mi seppellisco nel lavoro, se ogni sera torna da me qualcuno che mi ricorda che esisto anch'io, solo io, oltre tutto quello che da solo devo affrontare.
Kōtarō non ha smesso di andare in Centrale.
Mi ha chiesto di poterlo fare.
Mi ha chiesto se avessi bisogno di aiuto, di potermi dare una mano per come poteva, di poter spartire il carico di lavoro con me.
Ma non ho voluto.
Questo è... qualcosa che devo fare io.
Ed è necessario che si sospetti, dai piani alti, il meno possibile.
Quindi Bokuto mette su il suo sorriso più smagliante, ogni mattina, e va a lavoro, lasciandomi qui a scervellarmi dietro alle mie pratiche, alle mie cartelle. Poi torna, otto ore dopo, mi tira su dal divano, mi prepara il bagno, mi bacia la fronte e mi permette di staccare.
Non vorrei che finisse, tutto questo.
Vorrei tornare a lavorare, vorrei tornare ad essere un detective vero e proprio e non un cacciatore di taglie chiuso fra quattro mura, ma...
Vorrei tornare a questo, ogni sera. Vorrei sapere che tornerò a questo. Vorrei continuare a fare le mie passeggiate col Capitano e vorrei continuare a svegliarmi fra gli incubi e i traumi con la consapevolezza che posso piangere e che qualcuno mi ascolterà farlo e piangerà con me, per me.
Kōtarō non mi ha guarito.
Non puoi guarire qualcuno.
Non ci ha manco mai provato.
Kōtarō mi ha supportato.
Mi supporta.
È questo che per me è importante, ora. Quasi indispensabile.
Il fatto che ci sia.
E che non se ne vada.
E che...
Che mi ami.
Non gli ho risposto.
Non perché non lo ami, io... io amo Bokuto, lo amo da morire, lo amo con ogni fibra del mio corpo, con ogni cellula.
Non gliel'ho detto perché non voglio che dipenda dal caso, l'amore che provo per lui. Non voglio che pensi nemmeno per un secondo che lo ami perché mi aiuta con questo, per questo, per la situazione in cui ci siamo trovati.
Lo amerei anche se fossimo due persone con vite completamente diverse. Lo amerei a prescindere, perché credo...
Che Bokuto e Akaashi siano Bokuto e Akaashi sempre, che siano fatti per aderire assieme nel modo più corretto in ogni sfaccettatura o gemmazione dell'universo, che siano... due metà di qualcosa di che è destinato a ricongiungersi.
È un sentimento così nobile, non lo è?
È la cosa più nobile che abbia mai provato.
Anche se siamo due idioti, anche se il mio quoziente intellettivo si dimezza ogni volta che sono con lui, anche se... sono quello che sono.
Troppo nobile per questo.
Troppo nobile per me.
Troppo...
Sento la mia faccia diventare viola.
Nonostante sia rivolta e diretta verso il fascicolo di persone che sono morte, non riesce a resistere.
Il sangue corre sotto la pelle e la rende più scura.
Io amo Bokuto, quanto amo pensare che amo Bokuto. Quanto amo che l'uomo che amo torni da me ad amarmi, quando amo... l'amore.
Quanto amo essere amato.
Quanto amo amare.
È un sogno.
Non potevo, no? Non era questo che mi ero sempre detto? Mi sono sempre detto che non me lo meritavo, d'innamorarmi, perché l'amore che avrei provato sarebbe stato aberrante come me, che non avrebbe avuto senso.
Ma cazzo se non ce l'ha, un senso.
Cazzo se non è il sentimento più forte che non abbia mai provato.
Cazzo se non è amore vero.
Mi mordo l'interno della bocca, lascio cadere il fascicolo e mi nascondo la faccia fra le mani, mi riservo di emettere un urletto sordo dalle labbra chiuse, sento il fumo uscirmi dalle orecchie.
Mi sento...
Mi sento... io, mi sento...
– Capitano? Dove sei? Vieni qui! – dico ad alta voce, un attimo dopo.
Sento le zampette muoversi sul parquet dietro di me.
Arriva subito.
È cresciuto, in un mese, ma è cresciuto poco e rimane un cucciolo con la testa morbida e le orecchie soffici.
Si lancia nello spazio fra il tavolino e il mio corpo, mette le zampe anteriori sulle mie ginocchia, aspetta che lo tiri su.
Lo faccio.
Me lo porto sul grembo.
Poi prendo il muso fra le mani e lo gratto dietro le orecchie.
– Oh, Capitano, come farei se non ci fossi tu. Tu sì che sei un grande confidente. – mormoro, guardandolo spostare gli occhi lucidi sui miei e arruffare il naso contro la mia pancia.
Rido, quando lo fa, mi fa il solletico.
– Lo sai cosa penso? Che amo Bokuto. Amo Bokuto da morire e voglio dirlo a qualcuno, quindi lo dico a te. Amo quel cretino, Capitano. –
Mi viene da ridere e rido, perché posso farlo, perché amo farlo.
– Io amo Bokuto Kōtarō. Da impazzire. È la persona migliore che io abbia mai conosciuto. È l'uomo più disastroso del mondo e non sa neanche cucinare un cazzo di uovo fritto ma miseriaccia se non amo quell'uomo. Anche quando mi tira le gomitate quando si stiracchia la mattina. Anche quando ride mentre facciamo colazione e gli esce il latte dal naso. –
Il Capitano non risponde, non può farlo, è un cane.
Però scodinzola.
– E lui mi ama, Capitano! Lo so che la mia vita è una merda perché sto dietro ad un serial killer, ma... mi ama! A me! Proprio a me! –
Sorrido e sorrido a trentadue denti, di quei sorrisi che faccio di rado, che credevo non sarei più stato in grado di fare dopo quel giorno, sotto la pioggia, disperato e distrutto di fronte al Ministero degli Affari Interni.
– Pensi che mi amerà per sempre, Capitano? –
Sbatte le palpebre, la sua coda rallenta di poco, come se avesse capito le intenzioni dietro le mie parole.
– Pensi davvero che Bokuto Kōtarō mi amerà per sempre? –
Spinge di nuovo il muso contro di me.
– Pensi che... pensi... che lui... –
La porta di casa si apre prima che possa anche solo pensare di elaborare al meglio la domanda.
Sento le chiavi girare nella toppa, la serratura sganciarsi e la porta sbattere contro il muro dalla foga con cui viene aperta, sento una ventata gelida come se l'aria di fuori, nonostante questo sia un condominio, fosse entrata con lui.
Mi chino e bacio il Capitano.
Poi lo sposto il più delicatamente possibile dalle mie ginocchia al divano, mi tiro su e nonostante mi senta tutto indolenzito supero il salotto, apro il mio viso in un sorriso e spalanco le braccia, prima di chiuderle attorno al collo di qualcuno che neppure si è tolto la giacca di dosso.
– Kōtarō! –
Rimane fermo, all'inizio.
Poi... si ammorbidisce.
Chiude le braccia attorno a me.
Sono sicuro sorrida quel suo sorriso così radioso, infila la testa sull'incavo del mio collo e stringe, stringe forte, col mio corpo che si spalma sul suo.
– Keiji, polpettina, ciao. –
Questo ha un senso, per me.
Questo è il senso.
Questo...
– Come stai, oggi? –
– Ora o prima? –
– Ora e prima. –
Serro le braccia contro di lui, lo sento reagire al contatto. Tento quasi di scomparirgli dentro, perché mi fa sentire protetto e al sicuro, meno esposto, averlo qui con me.
– Prima ero preoccupato. E stanco. Ho un po' di fame. –
– Mh-mh, hai mangiato? –
– Qualcosa, non molto. Ti volevo aspettare. –
Sorride contro il mio collo.
– Ora? –
– Ora sto benissimo, Kō, sto benissimo. –
Lo sento ridacchiare e lo faccio anch'io, lo stringo ancora, ancora, ancora.
Sa dell'aria di fuori e di se stesso, ha i vestiti ancora freddi per l'inverno, ma nonostante questo mi fa sentire un calore inestinguibile alla base della pancia.
Nessuno può farmi del male, qui.
Nessuno.
Nessuno ha voce in capitolo, nessuno può dirmi niente.
Sei il mio posto felice. Il mio posto sicuro, il cerotto per le mie ferite. Sei...
– Mi sei mancato da morire, Kō. –
– Non quanto tu sei mancato a me. –
Sposta indietro il viso, lo allinea col mio, i nostri nasi si sfiorano e sorrido, prima di baciarlo per dargli il bentornato a casa, o se questa non fosse casa, quantomeno a me.
Apre le labbra quando le apro io, bacia con esperienza e con calma, non cerca un contatto sensuale ma profondo, intimo.
Lo lascio fare.
Prendo quello che mi dà.
Mi fido al punto che qualsiasi cosa fosse io credo che... l'accetterei lo stesso.
Quando ci stacchiamo mi guarda negli occhi.
Eccoti, dov'eri?
Dov'eri, prima?
Dov'eri, ieri?
Dov'eri, un mese fa, due mesi fa, un anno fa?
Dove sei stato?
Certo che ce ne hai messo di tempo a ad arrivare, Kōtarō. Ti sei fatto aspettare, eh?
Ma alla fine...
– Sono così felice che tu stia bene, non immagini nemmeno quanto. –
– Sono felice, sono felice davvero. Ed è tutto merito tuo. –
Si specchia nei miei occhi chiari e sfiora il bordo di uno con un polpastrello, poi si china verso di me, mi bacia di nuovo e lo fa con intensità, con chiarezza, con amore.
È...
– Come stai, tu, piuttosto? –
Sbatte le ciglia dalla mia parte, gli occhi dolci s'intristiscono di un grammo.
– Sono sfinito e mi fanno lavorare tantissimo. Volevo tornare a casa prima ma ho fatto tardi e mi dispiace tanto, e... –
– Va tutto bene alla Circoscrizione? Ti stanno ancora riempiendo di roba a caso? –
Annuisce.
– È un continuo. Mi sembra di essere tornato all'inizio, mi danno solo... solo stronzate. –
– Dev'essere frustrante, cazzo. Mi dispiace, mi dispiace tanto, Kōtarō. –
Scuote la testa.
– Finirà. Finirà quando finirai di lavorarci su. Mi fido di te. Posso resistere per aspettarti. –
Piega la testa per incastrare meglio il naso col mio, io lascio pendere le mani oltre il suo collo, con i gomiti stesi sopra le sue spalle, mi spingo su sulle punte dei piedi per raggiungerlo.
– Ti fidi di me, Kōtarō? –
Sfiora la mia bocca con la sua.
– Ti affiderei la mia vita. –
Passo la lingua sulle labbra, siamo così vicini che quasi tocca anche lui.
– Ti va di affidarmi qualcos'altro che sta sotto alla tua vita? –
– Mmh, questa sì che sembra una proposta allettante. –
– Lo è, Kō, lo è. Una proposta molto allettante. –
Mi bacia di nuovo, quasi quasi tiro su una coscia e gliela pianto sul fianco per farmi tirare su, ma prima che il mio sangue stressato possa prendere fuoco per rilassarsi addosso a lui, si stacca e scuote la testa.
– Ma prima si mangia, Keiji, che ti fa male stare a digiuno. Poi con cosa lo nutriamo il tuo cervello? –
Strizzo il naso.
– Col sesso? –
– Quello non ti nutre, quello ti sfianca. –
– Mi appaga. – lo correggo.
– Beh, lo spero. –
Ridacchio e annuisco, poi scendo di nuovo sui talloni, mi allontano piano piano, gli lascio spazio di togliere la giacca e mettere via le scarpe, indietreggio.
Appagato?
Lo spera?
Dio, qualche volta non so se sia troppo ingenuo o se mi prenda per il culo.
Il sesso è da morirci ogni volta. Ed è inaspettatamente frequente, anche dopo le giornate intere ed infinite, quelle in cui non riesci manco ad andare a casa prima di svenire. Non so se sia perché Bokuto è costruito in un modo tutto suo o perché ha una riserva di resistenza nascosta in qualche muscolo sconosciuto che lui di sicuro ha, ma...
Instancabile.
Mai scontato.
Mai svogliato.
Mai... egoista.
– Mi hai reso un ninfomane, ti odio. Lo sai che sei un bastardo, vero? – mi lagno, mentre lo osservo sfilarsi gli stivali e metterli a fianco dei suoi.
– Un bastardo? Addirittura? –
Annuisco, sorrido.
– Certe volte penso che dovrei legarti al letto e tenerti là. Tipo toy boy. –
– Sarebbe fichissimo, ci sto. –
– La prossima volta ci proviamo. –
Sfila la giacca dalle braccia, la appende sul gancio all'ingresso e si sbottona il colletto della camicia, vede, nota e osserva come guardo quella striscia di pelle che è apparsa, alza gli angoli della bocca.
– Vedi un centimetro di pelle e sbavi, Keiji? –
– Dice quello che dorme con la mano sul mio culo perché è la prima cosa che vuole toccare al mattino. –
– Ammetto la mia sconfitta. –
Alza le mani.
– A mia discolpa, però, è un gran bel culo. –
Piego il capo.
– E tu sei un gran bel pezzo di figo. –
Ridiamo insieme, io indietreggio rivolto dalla sua parte verso il corridoio, verso la cucina.
Poi, però, prima di prendere quella strada, devio da tutt'altra parte.
– Keiji, quella non è la cucina. –
Prendo il bordo della maglietta che indosso, la sua, con le mani, lo tiro su verso un fianco. Non ho le mutande sotto, men che meno i pantaloni, in questa casa fa un caldo osceno e sarebbe solo un fastidio portarli.
Vedo il suo sguardo incollarsi alla mia coscia nuda, alla linea tonda delle anche, al culo.
Gli si dilatano le pupille.
– Non ti andrà davvero di scopare in cucina, Kō. –
Il suo sorriso si spegne e diventa qualcosa di molto più famelico, molto più affilato.
– Pensavamo fossimo d'accordo che prima si mangia e poi si scopa. –
– Ho cambiato l'ordine. Prima si scopa e poi si scopa, no, un attimo, prima si scopa e poi si... –
– Sei pessimo. –
– Lo sono? –
Tiro ancora più in su la maglia, si inizia ad intravedere anche il fianco, il segno della vita, buona porzione del petto.
Porta istintivamente le mani ai pantaloni e come se fosse un gesto di riflesso, sgancia la cintura col movimento netto del polso.
Fa un passo dalla mia parte.
– Lo sei. Sei un piccolo provocatore che non sa stare un secondo senza di me. Ti sono mancato così tanto? –
Annuisco.
– Mi sei mancato da morire. –
– E neanche mangiare è tanto importante quanto... –
Faccio "no" con la testa.
– Neanche mangiare. –
Si avvicina ancora, io indietreggio ancora, dentro la camera, verso il letto.
Faccio per sfilarmi la maglietta di dosso ma scuote la testa, come a dirmi di tenerla su, quindi me la lascio ricadere contro il corpo.
– Che c'è, non ti va? Sei troppo stanco? –
– Troppo stanco? –
Aspetto che sia di fronte a me, poi allungo un braccio e gli appoggio una mano sulla spalla, stringo piano il muscolo, sorrido.
– Il povero Kōtarō è troppo stanco, stasera, ha avuto una giornata lunga e non ce la fa. Non c'è mica niente di ma... ah! –
Cado indietro con un tonfo sordo sul materasso che balla a contatto col mio peso, mi ritrovo in un secondo le mani di Kō aperte ai lati della mia testa, gli occhi che mi fissano.
– Chiudi la cazzo di bocca. –
– Quindi non sei stanco? –
Serra la mascella un attimo, poi quel nervosismo diventa gioia, diventa pace. Porta le mani al bottone dei jeans, lo slaccia, poi sento il rumore della zip abbassarsi, vedo le iridi dorate iniziare a ribollirgli nello sguardo.
– Dio, quanto cazzo ti amo, Keiji. –
Mi si scuriscono le guance.
Non rispondo.
Solo lo guardo come a dirgli...
– Ti amo. –
Il mio cuore perde un battito.
Lo vedo raggiungere l'elastico delle mutande e spostarlo.
– E forse credo sia il caso di darti quello che vuoi. –
Un paio d'ore dopo, con la pancia piena, il cervello vuoto e il corpo ridotto ad uno straccio, ho avuto quello che volevo, ho avuto una pizza, ho avuto un sacco di amore e ho avuto anche cose che non mi sarei sognato di chiedere ma di cui avevo bisogno.
Sono inerme, sfinito, steso col petto contro quello di Kō, con ancora la sua maglietta addosso e i capelli umidi della doccia, che lo guardo e mi faccio guardare nel silenzio di un momento molto più intimo e molto più pacato.
Anche lui ha i capelli umidi, e a differenza mia nient'altro indosso che non siano le mutande, le coperte ci raggiungono a metà del corpo, la luce è spenta, c'è solo quella dei lampioni che filtra da fuori a permetterci di distinguere le figure.
Mi bacia la punta del naso, poi uno zigomo, poi ancora la tempia, incastra le mani contro la mia vita, mi stringe, affonda la faccia fra i miei capelli.
Io mi lascio toccare e coccolare senza dire nulla.
Rimango fermo, morbido, disponibile a qualunque suo gesto d'affetto.
Un'ora fa era fuoco, quest'uomo. Un'ora fa era foga, era insulti e parolacce, era mascella stretta, muscoli tesi e corpo nel mio. Ora è panna, fragola, cotone, è dolcezza e calma, che s'infrangono su di me come una di quelle maree tranquille, pacifiche, che non t'affogano ma ti lambiscono appena.
Mi accarezza la pelle, passa con le punte delle dita su ogni neo, strizza con delicatezza e percorre i segni che lui stesso ha lasciato, saggia la consistenza fra le mani.
È una persona fisica, me n'ero accorto subito.
Ma è sorprendente quanto questa cosa nel tempo si acuisca.
E anche quanto mi faccia star bene.
Ricordo che ne avevamo parlato via messaggio prima che venisse a casa mia, del suo essere "appiccicoso". Mi aveva detto di una ex che lo riteneva un fastidio, credo, qualcosa del genere.
Mi viene da pensare che, poverina, fosse pazza.
Fastidiose?
Le mani di Bokuto Kōtarō che ti tastano e ti coccolano?
Nemmeno in un universo parallelo in cui siamo due liceali idioti che vanno a scuola assieme.
È una delle cose migliori.
Nessuna parola, nessun pensiero, nessuna preoccupazione, solo dita contro la pelle e il rumore pacifico del suo respiro.
È casa.
È abitudine.
La gente ha davvero dei gusti di merda, se crede anche solo lontanamente che questo possa essere un fastidio.
Infila la mano sotto la maglia, appoggia il palmo fra le mie scapole, mi preme contro di sé e mi bacia forte una guancia nel farlo.
Io sorrido.
Sorrido e mi sciolgo, mi godo l'amore che quest'uomo prova per me e quello, seppur timido e non detto, che io provo per lui.
Che meraviglia.
Che...
– Non vorrei dovertelo chiedere ma vorrei anche poterlo fare. Ti va di parlarmi di... quello che hai fatto oggi, Keiji? –
Il mio respiro si ferma, ma non si spezza, prima di riprendere, solo si adagia in un ritmo diverso.
Il cuore batte appena più veloce, la mia mente si riaccende.
Il mio corpo non risponde, ma non ne ho bisogno per parlare, no, non ne ho.
– Sto così bene che potremmo parlare di tutto, Kō. –
– È un sì? –
– Lo è. –
Mi stringe forte le braccia attorno al corpo, annuisce e respira contro il mio collo, sento un brivido di piacere scorrermi sulla schiena e inerpicarsi fra le mie vertebre.
Non parla.
Ascolta.
È fermo per ascoltare.
Mi avvolge in un silenzio confortevole dove ho tutta la libertà e il diritto di dire qualsiasi cosa io voglia.
Prendo fiato.
– Ci sono quasi. Io so che ci sono quasi. Mi manca qualcosa di... di schiacciante, Kō. Ed è così frustrante sapere che ci sono quasi ma ancora non ce l'ho fatta. –
Muove le dita contro la mia pelle, quasi mi fa il solletico.
– Ho un sacco di cose, un sacco, un sacco di cose. Ma sono circostanziali e non basteranno per un mandato, non per uno che riguarda una persona come lui. Mi serve del DNA o qualcosa del genere, ma... –
– Ottenerlo legalmente è un casino, e se non fosse legale non potremmo presentare la prova. –
– Esatto. –
Il fastidio si risveglia e mi serpeggia sottopelle, ma quando cerca di attecchire contro le mie ossa la presenza di Bokuto lo ricaccia indietro.
Frustrazione, fastidio, sentirsi inutili.
Sono sensazioni che piano piano sto riuscendo a marginalizzare.
Rimane quello che mi serve, di tutte loro.
Rimane la voglia di risolvere il caso, l'idea di potercela fare e la convinzione di star facendo qualcosa di giusto.
Non credevo che rompermi m'avrebbe rimesso insieme.
Ma...
Non credevo che qualcuno m'avrebbe aiutato a riprendermi me stesso. Non credevo che non sarei stato solo nel momento più basso, in quello peggiore, dove tutto sembrava perso e andato.
Invece sì.
Invece...
– Sono giorni che medito su cosa potremmo usare per poter schiacciare questo figlio di puttana e sono giorni che m'intristisco pensando che se fosse una persona normale e se le vittime fossero persone normali tutto questo non sarebbe necessario. –
– Le vittime sono persone normali, Keiji. –
– Sì, hai capito cosa intendevo. –
Non distinguo perfettamente i contorni del suo viso ma so che sta aggrottando le sopracciglia.
– No, non l'ho capito. –
Mi chino verso di lui, le punte dei nostri nasi si sfiorano, i respiri si mescolano.
– Tu non me ne lasci passare una, eh? –
– Assolutamente no. –
Strofino le labbra sulle sue.
– Sei un uomo rigido, Bokuto Kōtarō. –
– Sono solo convinto. E innamorato di qualcuno che cerca ogni stratagemma possibile per trattarsi male. –
Sorrido contro la sua pelle.
– Dev'essere sfiancante, amarmi, se la metti così. –
Scuote la testa.
– È la cosa più facile che abbia mai fatto. –
– Tu dici? –
– Mi viene... naturale. –
Mi si scalda il viso, il mio cuore batte più forte e lo bacio per davvero, questa volta, con le labbra che s'impastano fra loro e il silenzio che ci circonda.
Capisco cosa intende.
Lo capisco bene.
Amare Kōtarō, per me, non è affatto complicato. Non è quelle storie d'amore che leggi nei libri dove bisogna passare sopra traumi e comportamenti tossici pur di rimanere con qualcuno, non è attraversare una tempesta sperando di arrivare poi ad uno sprazzo di quiete.
È facile.
Facilissimo.
È guardarlo, ascoltarlo, sentirlo, toccarlo. È averlo qui.
È così facile, per me, amare Kōtarō.
E rendermi conto di quanto sia facile mi fa...
Io non ho mai provato rabbia nei confronti di mia madre. In tanti anni che siamo stati separati, in tanti anni che ho dovuto fare qualsiasi cosa solo per sopravvivere perché lei mi aveva cacciato, non ho mai pensato di essere... arrabbiato con lei.
Era perché credevo di meritarlo.
Perché credevo che tutto quell'odio fosse mio perché io l'avevo voluto.
Poi, però, ho capito cosa significa amare. E l'ho capito grazie a Bokuto ma l'ho provato per persone diverse, non solo per lui.
Io amo Kenma. Io amo Kōtarō. Io amo il vino, amo mangiare coi miei amici, amo Oikawa quando mi vede dopo giorni e la prima cosa che mi dice è quanto io sia bello come se fosse la prima cosa che pensa. Amo Kuroo che cucina talmente bene che mi faccio sempre dare gli avanzi da portare a casa alla fine di ogni cena, Iwaizumi che non è gentile, ma quantomeno ci prova. Amo le signore del parco, amo il Capitano, amo la domenica pomeriggio infagottato dentro una coperta di pile a bere la cioccolata calda troppo liquida che fa Bokuto, amo...
Amo un sacco di cose.
Amarle mi viene facile, mi viene istintivo.
E ora io sono arrabbiato con mia madre, arrabbiato davvero.
Se amare è così facile, e so quant'è facile, come mai lei non ci ha manco mai provato?
È colpa sua.
È tutta colpa sua.
Io non ho fatto niente.
E non ha senso che creda di avere delle responsabilità, se so e mi rendo conto di quanto sia facile innamorarsi e amare qualcuno anche se non è come credevi che fosse.
Sono arrabbiato con lei.
Dannatamente arrabbiato.
E provare rabbia oltre l'ignavia, oltre l'annientamento, mi rende... felice.
Davvero felice.
Davvero, davvero...
– Devo liberare completamente la mente e cercare di vedere le cose da un'altra prospettiva, immagino. Sono talmente infognato con tutti i dettagli del caso che mi sembra di rigirare sempre attorno allo stesso punto. –
– Vuoi uscire e fare qualcosa di diverso? –
– Non lo so, vorrei solo staccare un po' con la testa. So che devo tornare a lavorare fra un po' e che quello mi aiuterebbe, ma speravo di... –
– No, no, non farti venire l'ansia. Via, sciò. –
Ridacchio quando lo sento dire questa cosa e ridacchio quando agita la mano in aria come se stesse scacciando un insetto, ride anche lui, appoggio la fronte contro la sua.
– Sciò? –
Annuisce.
– Assolutamente. –
Strofino il viso sul suo, poi mi sposto di lato, mi lascio cadere col fianco sul materasso, aspetto che si giri per continuare a stringermi la vita.
Lascio passare una coscia oltre il suo bacino e mugugno qualcosa di soddisfatto e contento quando ci appoggia sopra una mano e accarezza la pelle sopra il tatuaggio.
– Domani mattina niente area cani, mi sa che il Capitano dovrà saltarla per un po'. – borbotta dopo un attimo, i polpastrelli che scorrono sopra la gamba e gli occhi rivolti verso i miei.
– Come mai? –
– Devo portarlo dall'addestratore. Credo abbia davvero un problema serio con gli altri cani. –
– Il Capitano? –
Il Capitano non ha problemi con gli altri cani. Lo porto a spasso tutti i giorni ed è un batuffolo di amore e dolcezza, non è un cane aggressivo. Per la miseria, manco ringhia se si spaventa.
– Sì, non te l'ho detto? C'è una razza con cui non va d'accordo e c'è sempre un cane all'area cani con cui non si trova bene. Solo che diventerà grosso e se ora le prende e basta non voglio trovarmi nella situazione in cui le darà e dovrò prendere provvedimenti. –
Aggrotto le sopracciglia.
Ricordo qualcosa del genere ma...
Non bene.
La memoria è un po' fumosa.
Forse era il giorno in cui abbiamo scoperto chi fosse l'assassino.
Di quel giorno ricordo poco e niente, solo... una grande voragine.
– Le prende dagli altri cani? –
– Lo rincorrono, lo mordono. Non so perché, sarà... boh, qualcosa di istintivo, vai tu a capire. È vittima di grande razzismo. –
Scoppio a ridere, Bokuto mi segue, il rumore riempie la stanza.
– Discriminano il Capitano? –
– E lui discrimina loro, è impressionante. Mi sembra di aver messo nella stessa stanza un cane e un gatto, tranne che sono entrambi cani. –
– Non c'era bisogno di specificare la metafora, Kō. –
– No? –
– No. –
Sorride con quel sorriso che fa dopo aver fatto qualcosa di stupido e gli accarezzo una guancia, perché è una delle mie espressioni preferite da vedergli in volto ed è così tremendamente tipica che mi ricorda quanto ami la persona che la fa.
– Con che razza ce l'ha? Con gli Alani? Coi Chihuahua? –
– No. Ce l'ha coi cani carini, quelli pelosetti che hanno le orecchie morbidose. Miseria, non mi ricordo la razza, si chiamano... –
– Beagle? –
Scuote la testa.
– No, no, più piccoli e più sofficiosi. –
– Mmh... –
Ho visto il Capitano interagire con molte razze di cani ma non l'ho mai visto maltrattarne nessuna, quindi cerco di escludere quelle di cui ho memoria.
Non è il Corgi della signora che definisce il suo cane "una botte con le zampe", non il Volpino di quella che fa le parole crociate, non i Dalmata, non i Pastori, non i San Bernardo.
Non ho idea di che razza possa...
– Ah, ecco, sì! Ecco come si chiamava! –
Rivolgo la mia attenzione a Bokuto.
– I Cavalier King! –
Il mio cervello si spegne.
Per un attimo, il segnale si disperde, l'elettricità si attutisce, il mondo si ovatta.
Poi...
Poi però torna.
E quanto torna...
I Cavalier King.
Il pelo di Cavalier King è quello che abbiamo trovato sul corpo della vittima. Ed era fra le pelle e i vestiti, non sopra, quindi il corpo nudo della vittima è stato esposto ad un pelo di Cavalier King.
Il Ministro non ha un cane ma ha una compagna, una compagna che ha un Cavalier King.
Io so che il pelo è di quel Cavalier King e so che quel pelo è nel database, ma so che non posso fare un test, ma...
– Cos'hai detto che fanno i Cavalier al Capitano? –
– Lo rincorrono e lo mordono, perché? –
Oh, merda.
Merda, merdissima, merda.
Io posso...
Noi possiamo...
Le rotelle nel mio cervello iniziano a girare, a sbattere, a cercare d'infiltrarsi in ogni competenza, ogni ricordo, ogni memoria che ho.
Potremmo...
Sarebbe legale?
Sarebbe legale.
Sarebbe rischioso ma sarebbe legale, e sarebbe inaspettato e nessuno potrebbe prevederlo e sarebbe...
Oh, merda, davvero.
Forse...
Il pelo di cane va bene come prova schiacciante?
È una prova inconfutabile, è DNA.
E come ci sarebbe finito quel DNA sotto ai vestiti di una vittima se non perché ce l'aveva addosso la persona che l'ha stuprata?
Non potrebbe essere stato per caso, non se era dove l'abbiamo trovato.
Basterebbe per un mandato?
Diamine, basterebbe sì.
Assieme a tutte le altre prove, creerebbe un caso solido e potrei avere il mio mandato. E avuto il mandato potrei prelevare il DNA del Ministro e confrontarlo con quello prelevato dal kit antistupro che ora, ai corpi, è stato fatto.
Lo inchioderei con le mani nel sacco.
Io lo...
Inizio a tremare.
Tutto il mio corpo inizia a tremare.
Ce l'ho.
Ce l'ho, cazzo, io ce l'ho.
Io posso...
Non è detto che funzioni. Non è assolutamente detto che funzioni, però potrebbe e se così fosse potrei anche...
– Kō... Kōtarō... io... –
Si tira su in un attimo.
Non è che si metta in piedi, ma si sporge verso di me col corpo teso e non rilassato com'era un attimo fa, mi prende il viso fra le mani.
– Keiji? Tutto bene? Keiji, che cos'è successo? –
Lo guardo negli occhi.
Scruta le mie iridi come se cercasse qualcosa, qualsiasi cosa in grado di comunicargli tormento.
Ma non è tormento.
È...
Sollievo.
È...
– Ho un'idea, Kōtarō. Ho un'idea. Un'idea che potrebbe... –
I tratti del suo viso si sciolgono.
L'ansia si trasforma in stupore, gli occhi gli brillano.
– Per il caso? –
Annuisco.
– Per il caso. –
Gli si alzano piano i bordi delle labbra, gli occhi gli si glassano di lacrime, ma non le versa, non fa altro che...
Mi trema la voce, quando provo a dirlo la prima volta.
Ma poi ci riprovo, e...
– Io posso risolvere questo caso, Kōtarō. Ho un piano per risolvere questo caso. Io posso... –
Tremo forte.
Bokuto trema forte.
Si tuffa contro di me, immerge il viso contro la mia spalla, io serro le braccia contro di lui, lo stringo forte, scoppio a ridere.
Forse... forse...
E se...
Forse posso farcela.
E se non fossi mai venuto qui a vivere con te non l'avrei mai saputo.
Forse possiamo fare giustizia.
E se non ti amassi e se non trovassi te la cosa più importante al mondo non sarei mai stato in grado di pensarci.
Forse è una casualità, ma forse no, che questa cosa si sia svolta spontaneamente in uno di quei momenti in cui tutto quello che stavamo facendo era amarci.
E se non avessi capito quanto importante questo sia per me, se non mi fossi concesso di passare il mio tempo in questo modo senza odiarmi e senza credere di non meritarmelo, non ci sarei mai arrivato.
È il mondo?
È il caso?
Sei tu?
Sono io?
Non so chi sia.
So solo che...
Rido.
Bokuto singhiozza.
Forse non tutto fa schifo come credevo un mese fa.
Forse distruggermi è stata l'occasione per poter ottenere questo.
E questo non è solo risolvere il caso.
Questo è credere in me.
Questo è sapere di meritarmi te.
Questo è la gioia di sentirti parlare e di pensare che le parole che mi dici non siano buttate al vento, ma vere, e oneste.
Ti amo, Bokuto Kōtarō.
E ti amo perché mi dici...
– Ero sicuro che ce l'avresti fatta. Lo sapevo. Non ne ho mai dubitato per un secondo. Ti amo, Keiji, e sono così fiero di te. –
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───
ok ciao cuoris scusate non ho moooooooltissimo da dire perché sono sempre più in ritardo nella vita quindi niente
volevo solo dirvi che spero vi sia piaciuto sisi
e niente
ciao cuory
mel :)
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro