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𝚐𝚎𝚝 𝚘𝚞𝚝 𝚢𝚘𝚞𝚛 𝚐𝚞𝚗𝚜

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Vestirmi bene, di norma, mi fa sentire bene di conseguenza.

Non so secondo quale regola mentale o psicologica questo sia vero, ma credo valga per tutti. Sentirsi belli ci rende belli, guardarci allo specchio e pensare di essere attraenti ci rende effettivamente attraenti.

Forse è la sicurezza.

Forse è la disinibizione.

Forse solo un effetto collaterale del gonfiare il nostro ego anche solo per un istante.

Mi rende antipatico, dirlo, lo so, ma nella mia vita non mi sono mai sentito... brutto.

Mi sono sentito sbagliato e mi sono sentito inutile, uno scarto e un peccatore, un'aberrazione e una punizione divina ai miei genitori.

Brutto, no.

Certo, di fronte ad Oikawa Tooru ho avuto qualche dubbio, ma non tanto su di me, più su di lui, più sul fatto che non fosse onestamente umano nella cesellatura perfetta del suo corpo.

Ma di guardarmi allo specchio e pensare "Akaashi, tu sei brutto", non mi è mai capitato.

Oggi è la prima volta.

Mi sento... sporco.

Sporco, davvero sporco.

Sporco nei pantaloni stretti e scuri che mi avvolgono le gambe, sporco nella camicia abbottonata per metà che rivela buona parte del mio petto e sporco nei capelli perfettamente in ordine.

Il mio corpo dice "non guardatemi".

Il linguaggio delle mie mani, del mio sguardo, urla che nessuno deve posare gli occhi su di me, nessuno deve pensare che sono attraente, nessuno deve riposare per più di un istante casuale il suo sguardo sul mio corpo.

Mi sento brutto.

Mi sento brutto perché è brutto quel che sto facendo.

Fa schifo.

Non ricordavo quanto schifo mi provocasse nel cuore mettermi in mostra come fossi merce in una bancarella.

Mi tremano le ginocchia, la mano che tiene la sigaretta non è ferma né sicura, il freddo non c'entra niente.

Io non ci voglio andare.

Non voglio entrarci.

Non voglio...

Non fa più parte di me.

Non sono più questo.

Bokuto dice che non c'era niente di male ad esserlo, ma non lo so, se ne sono convinto. Si applica agli altri, il discorso "è un lavoro normale", lo applico agli altri.

Con me stesso, non riesco ad essere così clemente.

Io non sono più questo.

Non voglio farlo più.

Sistemo i polsini e il colletto, la punta dei miei stivali batte sul marciapiede col ritmo del mio nervosismo, la pelle sotto i vestiti brucia.

Vorrei un fucile.

Entrare in quella villa troppo pettinata per essere vera e sparare a vista a chiunque sia lì dentro.

Così sarei a mio agio.

L'auricolare fischia nel mio orecchio ma lo ignoro, è probabile che stiano settando il canale giusto per le comunicazioni, nessuno mi parla e nessuno mi chiede niente, non stanno cercando di mettersi in contatto con me, al momento.

Kōtarō è in ritardo.

So di non essere solo, ma vorrei che fosse qui.

Ho la sensazione che la mia mente sia molto più calma, quando c'è lui. Forse la sua abitudine ad essere rumoroso e a dire quel che gli passa per la mente mi distrae, mi dà un attimo di tregua, forse solo lui come persona.

Vorrei tanto che questo momento non fosse arrivato.

Vorrei che fossimo ancora nell'ufficio della quarta circoscrizione a guardarlo come un pubblico di bavosi mentre squarcia le camicie flettendo i bicipiti.

Ma il mio non è un lavoro semplice e sapevo, sotto sotto, che i nodi sarebbero dovuti arrivare al pettine.

Mi chiedo che cosa fosse successo se avessi seguito un'altra strada. Se non avessi mai fatto coming out, se mia madre non mi avesse mai beccato, se avessi continuato a nascondermi e a vivere una doppia vita per potermi infilare nelle cose non dette e nelle mezze verità.

Cicco per terra e prendo un altro tiro.

"Ti fa bene", ha detto Bokuto della paura.

Forse è vero.

Non toglie però, che quando la provo, è davvero uno schifo.

Ci sono svariate macchine parcheggiate nel cortile della villa, siamo appena fuori città. Il giardino è spazioso, ben curato, c'è uno di quegli chauffeur vestiti da maggiordomo che prende le chiavi e sistema le vetture perfettamente in ordine.

Ricchi.

Questi sono ricchi sul serio.

Ricchi figli di puttana che campano sulle spalle di gente che muore di fame, che assumono persone per il loro intrattenimento e non rispettano nemmeno il lavoro che fanno, che li usano come fossero oggetti, come fossero giochi.

Io conosco il tipo di persona.

Lo conosco e l'ho visto, ci ho interagito.

Non tutti i ricchi sono così, ma troppi lo sono per impedirmi di pensare che sia la ricchezza stessa, il problema alla radice.

Hai così tanto che ti dimentichi che non puoi avere tutto.

Pensi di possedere il mondo e ti scordi che certe cose, possederle, è profondamente sbagliato.

Mi bruciano le dita, sto praticamente fumando il filtro.

La lancio per terra in avanti, nel principio dell'erba perfettamente tagliata del giardino.

Spero che attecchisca.

Spero che tutto vada a fuoco.

Spero che si accenda questa villa così sbagliata, così ricca e così piena di stronzi, che faccia un bel falò di fronte alla mia faccia.

Che pensate di poterci usare come merce che avete comprato.

Ma non dimenticatevi, che alla fine crepate esattamente come crepiamo noi.

Mi passano accanto un paio di persone ben vestite, abiti che costano quanto costa probabilmente l'affitto di casa mia, a braccetto.

Iwaizumi l'ha detto, vero?

Ad Oikawa, in merito al cappotto.

"C'è gente che muore di fame".

C'è gente che muore di fame e questi hanno addosso il quantitativo di soldi che basterebbe per salvarla, lo sfoggiano e lo tengono addosso, lo gettano via a fine serata, che non è più di moda, non è più una novità.

Non è direttamente colpa loro.

È il sistema.

Ma non posso fare a meno di pensare al posto dove ho vissuto, dove sono stato per tanti anni, con la gente che non arriva a fine mese e le famiglie disperate che non sanno più che fare, quando guardo poche persone avere addosso una ricchezza che non meritano.

Dico di esserci cresciuto, nei bassifondi.

Non è tecnicamente vero, fino ai diciassette anni ero a casa con mia madre.

Ma niente mi ha mai fatto crescere come quello che ho vissuto là.

− Keiji! –

Non sobbalzo, al contrario, mi sembra di sciogliermi.

Lo avevo sentito arrivare, non ha esattamente il passo leggero.

Mi giro con calma, un sorriso mi si disegna in volto, i pensieri si radunano in un nodo e si sciolgono, si perdono al fondo della mia mente.

Mi rendi sereno.

Non credevo che qualcuno l'avrebbe mai fatto.

Non credevo nemmeno che questo mi servisse.

− Sei in ritardo, Kōtarō. –

− Scusa, è che credevo di aver lasciato acceso il gas. Non era acceso, ma avevo paura fosse acceso. Sai che se lo lasci acceso e c'è una scintilla salta in aria la casa? Mi serve la mia casa, c'è il mio cane dentro, e il mio letto è comodissimo. –

Credo che abbia preso un qualche mezzo pubblico per venire, far la strada a piedi è complesso e impensabile, ma l'ultima fermata è a mezzo chilometro da qui, deve aver corso.

Ha la camicia stropicciata, ma non sembra aver versato una goccia di sudore.

Mi avvicino e prendo il colletto fra le mani, lo sistemo con delicatezza.

− Sei un casino. –

− Faccio schifo? –

Rido piano, fra me e me.

− Non faresti schifo nemmeno se ci provassi. –

Sorride, so che lo fa anche se non lo guardo, perché i bordi della mia visuale si rischiarano e l'unica cosa in grado di farlo è questo.

− La apriamo o la preferisci chiusa? –

Ci pensa su.

− Credo di dover sembrare sexy. –

− Allora la apriamo. –

Ride con me, mi appoggia una mano sul fianco e stringe appena come per farmi sentire che c'è lui, qui con me, che non sono da solo, che non mi lascerà da solo.

Scorro le dita sui bottoni uno alla volta.

L'ho già fatto in discoteca, ma sembra meno sensuale, questa volta, più dolce, come se mi stessi prendendo cura di lui.

Se mai questa cosa andasse, Kōtarō, vorrei farlo più spesso.

Aspettarti a casa e slacciarti i bottoni della camicia quando sei stanco, felice del fatto che tu sia qui con me, che ti stia lasciando toccare da me, che possa darti una mano in qualcosa di così semplice e quotidiano.

− Non dobbiamo farlo se non vuoi. –

− Dobbiamo farlo. –

Deglutisco la saliva e slaccio gli ultimi, passo le mani di piatto sul tessuto chiaro, stiro un paio di grinze che non dovrebbero esserci.

− Non dobbiamo fare niente. Non ci pagano per questo, ci pagano per trovare i cattivi, non per sottoporti ad uno stress psicologico che non riesci ad affrontare. –

Annuisco piano.

− Riesco ad affrontarlo. –

− Sei sicuro? –

Se sono sicuro?

No, Kōtarō, io non sono sicuro di niente. Solo di te, paradossalmente, sono piuttosto sicuro. Sicuro che tu ci sia e sicuro che tu mi piaccia, sicuro che mi fido, sicuro che alla fine se qualcosa dovesse andare storto tu saprai cosa fare.

− Sì. –

− Ok, allora. –

Stacco le mani da lui e lo guardo un'altra volta.

Sexy, sì, così sei sexy. Stesso outfit della discoteca ma non per questo meno attraente, coi muscoli che ti si vedono dalla camicia aperta e il viso che sembra stato fatto dalle mani di una divinità.

− C'è una camionetta per la ricezione dietro la villa. Non dovrebbero arrivare comunicazioni ma ci avvertono se notano qualcosa di strano. –

− Sono i tuoi? –

− I tuoi. –

Non volevo i miei per questa occasione.

Non volevo che sentissero quel che dico a Kōtarō e non volevo che sapessero in che relazione siamo. Ho già perso questo beneficio coi colleghi di Bokuto, ho solo fatto in modo di farmi mandare persone che sapessero già quel che stava succedendo.

− C'è Kenma collegato, anche. È in ufficio, ma ci sente. –

− Ci sente? –

Il canale nel mio orecchio si apre con un fischio sottile, immagino allo stesso modo quello di Bokuto, la voce è pacata, stanca e piatta, come al solito.

− Certo che vi sento, stronzi. Siete vomitevoli, per la cronaca. Dovete lavorare, non farvi le smancerie a vicenda. –

Rido e Bokuto lo fa allo stesso modo.

− Ciao Kenma! Come stai? Hai mangiato? A che ora torni a casa? È tardi, poi ricordati di andare a dormire presto quando abbiamo finito! –

Sentiamo sbuffare direttamente nell'orecchio.

− Non sei ancora morto, Bokuto? –

− No, ancora no! –

− Provvederò io stesso, allora. –

Alzo gli occhi al cielo ma Bokuto non smette di sorridere, anzi, ridacchia. Credo che non sia particolarmente sensibile alle sue prese in giro, credo che sappia che scherza, anche se dal tono non sembra per niente.

− Pulce, smettila. –

− Come vuoi, mamma. –

Intreccio le dita con quelle di Bokuto.

− Andiamo? –

− Andiamo. –

Iniziamo a camminare con calma, mano nella mano, nella luce della villa che tinge il cielo notturno di un colore giallognolo e sporco, sporco come mi sento io, anche se con Kōtarō qui vicino, mi sembra di dimenticarmene.

La voce di Kenma parla ma nessuno dei due risponde.

− Non posso fare molto, non ho un mandato e non posso infilarmi nel sistema informatico della gente che è con voi, ma posso confrontare i profili che mi date. Ho la lista degli acquirenti del vostro cappotto qui, ho provato a confrontarla con le persone che hanno un Cavalier King di razza pura ma non ho avuto risultati. Se mi date altre informazioni potrei riuscire a tirare fuori un nome. –

Bokuto annuisce, ma non dice nulla.

− Ho la camionetta sull'altra linea, dite il mio nome e li faccio entrare. –

Si sente distinto il rumore di un sospiro, credo dal tono di voce che cambia che stia sorridendo.

− Io e Kuro viviamo ufficialmente insieme. Questo weekend siete a cena da noi, volevo lasciare Bokuto fuori ma Kuro ha detto che lo vuole per forza. Portate un regalo, ha detto che fa il kimchi con la ricetta di sua madre. –

Sorrido fra me e me e il canale si chiude.

Piccola peste.

Non capisco il tempismo ma sono felice, molto felice, della notizia, del suo tono, del "siete a cena da noi" come se io e Kōtarō fossimo una coppia, un po' di tutto.

Forse è per questo che me l'ha detto.

Perché mi sento un po' meglio.

Dovrei davvero iniziare a ringraziare il cielo, per le persone che mi ha dato nella vita.

− Credo che la nostra entrata non sia la principale, Keiji. Non ci sono persone come noi, qui. Ha detto niente riguardo all'ingresso? –

− Nel messaggio c'è scritto che c'è una porta laterale dopo il parcheggio. –

− Credo di averla vista. –

Le suole dei miei stivali fanno un rumore secco sulla ghiaia del vialetto, mi lascio trasportare e cerco di catalogare più informazioni possibili.

Poche donne, pochissime donne. Saranno tre o quattro, quelle che vedo, e non sembrano mogli, più accompagnatrici. Sono giovani, sono belle, sono la versione più costosa di quel che stiamo facendo.

Saranno le amanti stabili?

Forse escort di lusso.

− Di chi è la casa? –

− Kenma dice che non è di nessuno. È un posto che si può noleggiare per le serate, è prenotato per mesi, la transazione di questa sera è stata fatta in contanti e non ci sono nomi a cui risalire. –

− Ha indagato sulle persone che abbiamo trovato su Facebook? –

Sposto lo sguardo su tutto l'ingresso.

− Imprenditori, industriali, notai, avvocati. Gente coi soldi, niente precedenti penali d'interesse, niente di interessante. –

− È peggio del previsto. –

C'è diverso personale.

Sono tutti vestiti di nero, come l'uomo della telecamera del supermercato e come lo stronzo della discoteca, ma non credo che sia un collegamento ragionevole.

È personale di una villa di lusso.

Come altro dovrebbe essere vestito?

Una delle tre donne si gira verso di noi.

Guarda me e guarda Bokuto, lo fa con un sorriso così tirato che sì, capisco che la mia congettura era corretta, è una escort. Nessuno sorride in maniera così falsa se non è costretto ad essere qui. Credo che il cliente che accompagna stasera non le piaccia particolarmente.

− Ci sono altre persone. –

Sposto il viso verso l'entrata laterale che ora noto anche io.

Ci sono...

Diverse ragazze, meno eleganti di quelle nell'ingresso principale, ma belle, tutte belle, vestite in maniera sobria come in maniera sobria sono vestito io. Ce ne sono un paio più scollate o con la camicia completamente trasparente, aggruppate in un piccolo nugolo di fronte all'entrata laterale chiusa.

Sono le altre.

Le donne che abbiamo visto online.

Quelle che assumono di norma, quelle che sopravvivono.

Bokuto mi stringe la mano.

− Se ti lascio con loro cinque minuti va bene? Faccio un giretto qua intorno per buttare un occhio al parcheggio. –

− Credo di potercela fare, vai. –

Si ferma e non lascia subito le mie dita, mi guarda negli occhi, anzi, sorride piano.

Si china.

Mi sporgo per baciarlo e dura un istante, ma mi fa sentire bene, così bene, che sono felice davvero di averlo fatto.

− Fa' attenzione. –

− Anche tu. –

Scompare indietro mentre percorro qualche altro passo.

Non è vero che ha il passo pesante, mi rendo conto.

Nemmeno lo sento.

Dimentico sempre quanto ingenuo sembri a contrasto con quanto di talento possa essere. È comunque uno stronzo delle forze speciali, no? È meno sprovveduto di quanto dia a vedere, Bokuto, sa quel che fa anche se sorride e non se la tira.

Mi avvicino alle ragazze.

Sono ventitré.

Le conto in fretta.

Sorridono quando arrivo, si aprono per farmi posto, mi capita di sorridere di rimando.

Nessuno dei ricchi di prima mi ha riservato questa basica gentilezza. Credo che avere i piedi per terra, a ragion veduta, sia una qualità ben più utile nella vita.

Incastro le mani fra di loro e rimango in silenzio, in attesa di trovare il guizzo di coraggio che mi permetta di parlare.

Non mi serve, comunque.

Non mi serve perché una di loro lo fa prima di me.

− Anche per te è la prima volta? –

Le ballano le gambe.

Sono magre e lunghe, coperte da un paio di pantaloni scuri come i miei, e ballano d'ansia sul selciato fino del vialetto.

È spaventata.

È...

− Già. –

Giovane.

Giovanissima.

Non credo abbia nemmeno diciott'anni.

Ha la pelle chiara perfettamente distesa, perfettamente liscia, il volto un po' paffuto e morbido, gli occhi grandi, scuri.

È troppo giovane.

Reprimo l'impulso di urlarle di andar via da qui.

− Non sapevo che assumessero anche i maschi. –

− Credo che ci sia qualche cliente a cui piace anche questo genere di oscenità. –

Alza le mani di fronte a sé e le muove come a scusarsi.

− Non intendevo quello, intendevo che... −

− Stavo scherzando, non preoccuparti. –

Qualche altra ragazza si sposta verso di noi, altre si radunano fra loro, due si tengono per mano. Sembra che stiano per gettarci in un'arena. Forse hanno trattato male loro quanto me, è per questo che sembrano tanto spaventate.

− Quanti anni hai? –

− Ventuno. –

Mi giro, la guardo da sotto le ciglia.

− Quanti? –

Deglutisce la saliva.

− Diciassette. –

Sospiro.

So che si prova.

Non per questo posso sentirmi meno a disagio per te.

− Quello di prima è il tuo ragazzo? –

La domanda non proviene da lei ma da un'altra, più bassa e più formosa, che le sta dietro. È incuriosita, o forse vuole solo togliersi il pensiero di quel che sta per succedere dalla testa.

Sorrido.

− Sì. –

− È bellissimo. –

La diciassettenne si gira verso di lei.

− Anche lui lo è. –

La ringrazio piegando appena la testa.

Meno sporco, già.

Se mi guardate voi mi sento meno sporco, come con Bokuto.

Forse non è che sono sporco io.

Forse è questo posto, la gente che dovrò incontrare.

Forse io non c'entro niente.

− È andato via? –

− A fare un giro, poi torna. –

− Come mai? –

Faccio spallucce.

− Ha avuto una giornata un po' lunga, credo che debba solo schiarirsi le idee. –

− Avete litigato? –

Scuoto il capo.

− No. Litighiamo molto di rado. –

Sembra che stiano facendo l'interrogatorio loro a me, miseria. Bokuto è così totalizzante, come argomento? Certo, mi piace parlarne, ma non sono qui per sfoggiarlo, sono qui per salvare delle vite.

− Voi siete tutte insieme? –

Una annuisce.

− Della stessa... residenza. Ci hanno assunte tutte, non sappiamo perché ma pare che ci daranno un sacco di soldi. –

Residenza?

Le chiamano così, le case chiuse, ora?

− Hanno detto dei soldi anche a me. –

Il canale nel mio orecchio si apre.

− Se mi dici il posto controllo se ci sono transazioni recenti. – mormora Kenma.

− Siete di Kabukicho? – chiedo io.

Una ragazza alta e bionda si gira verso di me. È più grande delle altre, ha la mia età o qualche anno di più, il viso più composto e l'espressione meno incuriosita.

− Che c'è, cerchi lavoro? –

− Anche, sì. –

− Non prendiamo uomini a lavorare con noi. –

Mi lecco le labbra.

− Potrei sempre portare Kōtarō con me. –

Una delle ragazzine cede.

Sì, sono qui per salvare vite e sì, sono giunto alla conclusione che quegli addominali ne salveranno alcune.

− Siamo quella con l'insegna verde. Vicino al ristorante con le ragazze vestite da androidi sexy o quel che ne so io. –

− Ricevuto. – sento solo io.

Annuisco, la ragazza bionda guarda male quella che ha parlato, ma finisce lì.

Per loro.

Nel mio orecchio continuo a sentire la voce di Kenma, che parla dopo aver sbattuto una miriade di tasti ad una velocità disumana.

− Centro massaggi, ci lavorano ventidue ragazze. Transazione in contanti. È pieno di recensioni positive, pare che siano tutte belle e tutte brave. La proprietaria lavora con loro, non ti dico il nome così non rischi di fartelo scappare. È bionda, più grande delle altre, ha precedenti per resistenza a pubblico ufficiale. Cazzo, pare che un poliziotto la stesse aggredendo e lei l'abbia pugnalato con una lima per unghie. –

Sorrido fra me e me.

− Non farti beccare o ti ammazza lei prima del serial killer. –

Credo che preferirei quella morte.

Le guardo un'altra volta.

Ventidue, eh?

La diciassettenne non risulta, è ovvio. Potrei... mandare una pattuglia per farla riportare alla sua famiglia, domani mattina, aiutarla in qualche modo.

Scaccio il pensiero in un attimo.

Se l'avessero fatto a me, mi sarei ammazzato.

Meglio che per una volta io mi faccia i cazzi miei.

La proprietaria continua a guardarmi.

− Vi pagano per il servizio completo? –

Stringe lo sguardo.

− Noi non facciamo servizi completi. Ci pagano per l'intrattenimento. A te? –

Cerco di sembrarle il più rilassato possibile.

− Mi hanno detto di tenermi pronto a tutto. –

Fa un passo dalla mia parte, le ragazze che mi stavano attorno indietreggiano come se si fosse mossa la regina degli scacchi e loro fossero solo timidi pedoni terrorizzati.

Autoritaria.

Lei è autoritaria.

− Quanti anni hai? –

− Ventisei. –

− Come ti chiami? –

− Keiji. –

Non rispondo per terrore, rispondo perché...

Se mi guadagno lei mi guadagno tutte. Se a lei non piaccio non mi diranno una parola.

Non mi conviene fare lo spocchioso.

Mi conviene familiarizzare con le persone che hanno il mio stesso destino.

Si avvicina ancora, le altre si allontanano, abbassa drasticamente la voce e sembra che voglia parlare solo con me, esclusivamente con me.

− Faccio questo lavoro da tanti anni e sono stata a tante di queste feste. C'è qualcosa che non va, qui, Keiji, e io proteggo le mie ragazze, ma voglio dirlo anche a te. Tieni alta la guardia, non ti allontanare da quell'armadio del tuo ragazzo. Non me la sento buona. –

Mi si alzano da sole le sopracciglia.

− Cosa? –

− Puoi non fidarti ma ti consiglio di farlo. Sta attento. Qui c'è qualcosa di molto strano. –

Perché me lo sta dicendo?

Le faccio... concorrenza? Non mi vuole qui?

Si guarda attorno, abbassa ancora di più la voce.

− Niente di questo posto mi piace. –

Indietreggia e si allontana, arruffa i capelli a quella giovane e sistema il colletto di quella più bassa, mi lancia uno sguardo e mi sembra una madre, più che una datrice di lavoro, quando passa fra il gruppo di ragazze guardandole una ad una per rimetterle a posto.

Non credo fosse questione di concorrenza.

Credo semplicemente che si senta in qualche modo responsabile, per loro e di conseguenza, perché mi ritrovo qui, un po' anche per me.

− Fra quanto ci fanno entrare? Inizia a far freddo. – sento una lamentarsi e il discorso cade, cade mentre Kenma mi sussurra un "che donna" all'orecchio e io sorrido da solo.

− Tre minuti. –

− Spero che Kōtarō torni in tempo. –

Guardo la ragazza che l'ha detto, la guardo un po' male.

− È perché mi fa sentire protetta, non per altro, giuro. –

Ridacchio.

− Sì, come no. –

Che è vero, poi, per carità, ma sono comunque un gelosone.

Sentiamo un rumore provenire dall'ingresso principale e ci giriamo in coro.

Non era niente di preoccupante, solo... uomini che gridano fra di loro. Eterosessuali ricchi che si urlano addosso probabilmente l'ultimo modello di macchina che hanno comprato o l'ultima donna che hanno portato a letto.

Una coi capelli scuri, corti, schiocca la lingua.

− Quello è un mio cliente. Mi dice sempre che non mi può dare la mancia che deve comprare da mangiare per i suoi figli. Pezzo di merda. –

− È quello del giovedì? –

− Lui. Tre minuti e ha fatto, forse per quello mi paga il minimo. –

Mi ritrovo a ridere con le altre ragazze.

− È per questo che sono lesbica. – dice un'altra.

Mi giro verso di lei.

− Ti prego, è il mio sogno da tutta la vita. Svegliarmi e rendermi conto che gli uomini non mi piacciono più. E invece no, cazzo, sempre la stessa merda. – le risponde quella vicina, gli occhi che rotolano in alto in un palese segno di fastidio.

Mi beo della mia personale felicità con un sorrisetto meschino.

− Ti devi trovare un Kōtarō. –

− Sì, sì, grazie, ti odio, sbattimi pure in faccia il tuo fidanzato palestrato. –

− Io me lo farei sbattere in faccia tutte le volte che vuoi. – aggiunge quella bassa e prima che arrivi il mio sguardo d'acciaio la proprietaria alza una mano e la colpisce piano dietro la testa.

− Sta' zitta. –

− Oh, come vuoi, era solo una battuta. –

Mi guarda come a chiedermi scusa e scuoto le spalle.

Non importa.

No, non importa.

Sposto il peso da un piede all'altro, ruoto la testa sul collo e le vertebre scattano anche se solo per un istante.

Mi sento meno a disagio, ora.

Non perché il posto sia meno sporco né perché la situazione sia meno problematica, più perché mi sento meno solo. Certo, sarei meno solo ancora se...

Mi giro.

È al fondo del vialetto, sorride mentre torna.

Le persone, quelle ben vestite, quelle ricche e pettinate che dovrebbero schifarci, si girano a guardarlo con me, con le ragazze che mi stanno attorno e con tutti quelli che sono qui.

Non è una scena dei film d'azione, quelli dove l'eroe esce da un edificio che esplode e cammina a rallentatore mentre il fuoco gli appare alle spalle.

Non è un protagonista bello e dannato, non è misterioso, non ha sacrificato la sua esistenza per combattere il male, non è un solitario senza famiglia al quale i servizi segreti hanno detto di salvare l'umanità, non è il personaggio di un film di supereroi, non è niente di tutto questo.

È un detective che parla tanto e che non sa guidare, che mangia come se avesse lo stomaco di tre persone dentro la pancia e che ama il suo cane.

Ma quando il vento gli arriva addosso e gli apre la camicia, quando tira su una mano e sorride a me, verso di me, un po' mi sembra quell'eroe dei film.

Oh, se non pensavo che avrei mai guardato un uomo e mi sarebbero venute le ginocchia molli.

Se non pensavo che avrei mai sentito un sospiro generale dietro le mie spalle a dipingermi come la fanciulla in difficoltà che sta per essere salvata.

Credo di essere un po' pazzo di te, Bokuto-san, lo sai?

Un po' tanto.

Sorride ancora di più, percorre gli ultimi passi più in fretta dei precedenti, si avvicina.

Tiro fuori il telefono dalla tasca.

Glielo punto addosso.

Scatto una foto.

Non so che mi sia preso e non so perché, ma c'è qualcosa di questo istante che vorrei rimanesse. Forse la sensazione che tu mi sia venuto a salvare quando so perfettamente salvarmi da solo, forse solo la bellezza fuori contesto in questo posto che sembra una discarica emotiva di ricchezza e spreco, forse...

Forse solo tu.

− È l'uomo più fico del mondo. –

− Se aprisse un OnlyFans ci spenderei lo stipendio. –

− Mi sento incinta. –

Sorrido a Kōtarō e mi rigiro verso l'adorante pubblico.

Mi indico.

− Mio. –

Tecnicamente no ma per stasera sì.

Per stasera è mio.

Mio e basta.

Il mio Kōtarō.

Mi arriva dietro e si ferma col petto a contatto con la mia schiena, vedo diverse ragazze trattenere il respiro ma coerentemente con la mia maturissima dichiarazione, Kōtarō non le saluta, non si ferma a parlare con loro, la prima cosa che fa è...

Tirarmi indietro i capelli dalla fronte, aspettare che pieghi la testa verso l'alto e sorridere.

− Ti sono mancato? –

Non rispondo il "forse" di questo finesettimana.

No, siamo qui per fingere e in quella stessa finzione forse anche sperare in qualcosa che ancora non potrei dire che ma vorrei poter tirare fuori.

Dico la verità sussurrando alla parte timorosa di me che è per la copertura.

Annuisco.

− Sì. –

Mi stringe e non dice altro, lascia andare i miei capelli e appoggia la fronte contro la mia spalla da dietro, respira contro il mio collo e ride piano, nel silenzio tombale della platea che ci guarda.

Forse dovremmo smettere di essere così pubblici nelle dichiarazioni d'affetto.

Ma per quanto ci provi, non riesco a provare il più piccolo grammo d'imbarazzo.

Prendo fiato per parlare ma prima che possa farlo la porticina si apre.

C'è un uomo vestito di nero, l'ennesimo uomo vestito di nero che spunta dal cornicione, la postura annoiata, una spalla appoggiata contro lo stipite.

Bokuto mi stringe più forte, la proprietaria percorre qualche passo per mettersi di fronte a tutto il gruppo di ragazze.

− Siete venticinque? Non ho voglia di contarvi. –

Mi mordo la lingua invece di dire "ciao anche a te, figlio di puttana".

− Venticinque. –

− Lasciate i cellulari nel cassettino all'interno, vi verranno ridati a fine serata. Se non sapete riconoscerli, scriveteci qualcosa sopra. Niente armi, niente spray al peperoncino, niente borsette, niente anelli particolarmente grossi. –

Ho un cellulare di riserva cucito in una tasca interna ai pantaloni sul piatto della coscia, praticamente invisibile.

Tiro fuori il mio normalmente, mi metto in fila con le altre ragazze per entrare.

Kōtarō rimane dietro di me e mi imita, il respiro calmo e composto e il corpo rilassato come se tutto questo fosse normale.

− Ragazze, sbottonate un po' quelle camicie. Come il ragazzo là dietro, da brave. –

Ha il tono lascivo, schifoso, ma se la cosa può essermi di qualche aiuto, sono egoisticamente felice che stia facendo il bavoso con loro e non con me.

Non ho trovato nessuna vittima donna.

È un viscido, ma non è qui per ammazzarci.

La fila scorre velocemente, ognuna lascia il telefono nel cassettino di legno aperto, si sfila gli anelli se ne ha, mette via la borsetta in un angolo.

Sorridono, tutte tranne la proprietaria, si sistemano una di fianco all'altra senza problemi.

Quando arriva il mio turno le imito, ma non sorrido, lo guardo in faccia senza dire niente, mantengo la mia espressione completamente pacata.

− Wow, con quello sguardo potresti uccidere. –

− Potrebbe davvero. – completa Bokuto, che s'infila dietro di me e usa un tono amichevole, a differenza mia, amichevole e spensierato.

Non fa il furbo con lui, il tizio in nero.

Non fa commenti.

Lo guarda dal basso e manda giù, si allontana e sembra onestamente spaventato.

Io e Kōtarō abbiamo ragionato a fondo sul perché avesse invitato, questa volta, due ragazzi invece di uno. Certo, tutta la faccenda del voyerismo si fonda sulla presenza di una coppia e certo, io e Bokuto siamo molto più attraenti insieme che da soli, ma...

Perché questo rischio?

Perché far entrare in un posto dove orientativamente rapisci qualcuno per ucciderlo un ragazzo alto e imponente come lui, che è minaccioso al solo sguardo?

La conclusione è che avrebbero adescato me.

Ci aspettiamo che a metà serata qualcuno si rivolga a me.

A me solo.

È impossibile che cerchino di avere la meglio su qualcuno grosso come lui.

Il tizio ci raduna nella stanza che somiglia ad un ingresso del personale, spoglia e senza quadri alle pareti, con i muri bianchi e il pavimento di mattonelle rossicce.

− Allora, una cosa per volta. – dice, con lo stesso tono placidamente allusivo.

Mi stringo verso Kōtarō.

− Le ragazze saranno divise in gruppi di due. Dovete mischiarvi con la festa, sapranno che siete voi ma è importante che non disturbiate l'andamento della serata, si rivolgeranno a voi quando sarà necessario, saprete cosa fare. –

Le fissa.

− Ci sono le stanze private al primo piano. Se entrate con qualcuno non chiudete a chiave ma girate il cartellino sulla maniglia della porta. Evita problemi ma garantisce la privacy. –

Guarda la ragazza bionda dall'alto in basso.

− Vedete di non combinare casini. –

Lei annuisce, nessuna fiata.

− Per quanto riguarda voi due, è diverso. –

Sento il suo sguardo scavarmi dentro.

− Per la prima parte della serata quel che dovete fare è mettervi in mostra. Fate sesso, baciatevi, quel che cazzo vi pare, c'è una stanza con un divanetto al centro, divertitevi. Di norma non facciamo queste cose ma ultimamente pare che piaccia. –

Sento Kenma sibilare un "scommetto che questi hanno moglie e figli".

− Tu, occhi azzurri. Non accettare nessun cliente, il tuo arriva più tardi durante la serata. Rimani fermo. –

Mi si gela il sangue.

− Invece tu stai con lui finché non se ne va e poi fai quello che ti pare. Donne, uomini, quel che vuoi. –

Bokuto sembra tranquillo, ma s'irrigidisce con me.

− A che ora arriva? –

− Non lo so. –

Stringo le dita fra di loro nel tentativo di tenere saldo il tono della mia voce.

− A che ora avrò finito? –

− Non so nemmeno questo, tesoro. –

Ridacchia e alza le spalle, poi sospira e indica la porta.

− Paga bene. Molto bene. Basta che tu faccia il bravo bambino e ascolti quel che ti dice, senza lagnarti troppo. –

Mi scende un brivido lungo la schiena ma annuisco lo stesso, intreccio le dita contro quelle di Bokuto e non pongo altre domande.

Sapevamo che sarebbe successo.

Questo non lo rende meno terrorizzante.

La porta si apre, il rumore esplode nella stanza e sospiro, prima di vedere le ragazze infilarsi una ad una nel corridoio, alcune ridono e altre si tengono per mano, sembra tutto perfettamente normale, tutto tranquillo.

Io mi schiaccio contro Bokuto e le seguo, passo dopo passo, nella moquette rossa di fronte a noi.

Sento l'orecchio fischiare.

− Hanno spento il cellulare di Bokuto. Quello di Keiji no, non ancora, quantomeno. Sembrano esserci duecentosessanta persone alla festa, stanno già iniziando a spuntare foto online. Nessuno d'importante. La storia del cliente speciale non mi convince per un cazzo, è così che li adescano secondo me. –

Mi giro verso Kōtarō fingendo di parlargli.

− Sono perfettamente d'accordo con te. – gli dico.

Kenma sospira.

− Vediamo come si evolve la situazione. –

− Certo. –

Bokuto sorride, il canale si chiude e i battenti di un portone ben più ampio si spalancano.

Lusso sfrenato.

Gente in vestiti di mille colori, camerieri in schiere infinite con calici di champagne ovunque, divanetti di velluto e lampadari da film, il rumore della festa che ci circonda.

Troppi uomini.

Puntano le ragazze come se fossero delle prede.

Qualcuno punta anche noi.

Un cameriere a lato ci passa di fianco e ci sussurra un "seguitemi", obbediamo perché non potremmo fare altro, spazio ovunque con lo sguardo per tutto il tempo, alla ricerca di dettagli, dettagli, ancora dettagli.

Il profilo è molto simile.

Sono tutti uomini asiatici di mezza età, ben vestiti, ben pettinati, soli, che parlano fra di loro.

Sembra un ritrovo di ricchi, come un golf club di quelli americani, una festa di ricchi per ricchi dove parlano dei loro soldi.

Non vedo cosa ci sia di proibito in tutto questo.

Mi sembra solo estremamente decadente.

− Ci sono un paio che vengono con noi, guarda. –

Mi giro di lato e seguo l'indicazione di Bokuto.

È vero, qualcuno ci segue.

Guardano principalmente me, credo di essere più il loro tipo.

− A quanto pare a qualcuno piace guardare qui. – scherza.

Annuisco.

− Finché non toccano va tutto bene. –

− E quando chiederanno di toccarti? –

Mi mordo l'interno della bocca.

− Non lo so ancora. –

− Se riusciamo a parlarne un attimo magari troviamo un'idea. –

Annuisco, mi sporgo per baciarlo e lo faccio, gli sguardi dietro di noi si fanno più predatori, lo so, lo sento.

Kōtarō mi stringe un fianco.

− Non capisco perché il fascino del porno in diretta, comunque. –

− È un modo per repressi di fare le cose gay. Non tocchi un uomo, lo guardi e basta, che male c'è. Viaggiano con l'immaginazione. –

− Sperano di essere me, vero? –

Non lo so.

Forse sì.

Potrebbe darsi.

Piego la testa verso di lui.

− Dubito fortemente che possano anche solo avvicinarsi a te, Kōtarō. –

− Lo dici solo perché ho gli addominali. –

− Soprattutto per quello, sì. –

Ridiamo assieme, il cameriere si gira e ci guarda male, smettiamo dopo esserci scusati.

Ricominciamo a camminare.

Ci addentriamo in una stanza diversa dal salone centrale, meno ampia e meno spaziosa, coi soffitti più bassi e le luci soffuse, senza finestre, con un divano al centro.

Sembra il cubicolo di un bordello, solo più grande e meglio arredato.

Il cameriere indica il divano con la testa.

− Di solito lo fanno fare a due donne, è la prima volta che ci sono due uomini. Vi servono... dei preservativi? –

Lo guardo con gli occhi spalancati.

− Dei che? –

− Beh, ecco... −

Bokuto sorride al posto mio.

Sembra avere la situazione decisamente più sotto controllo.

− Magari dopo, per ora vediamo come va. –

− Oh, ok, come volete. –

Il cameriere si allontana, rimane alla porta, la tiene aperta.

Entrano delle persone.

Cinque, sei, sette, otto, nove in totale.

Uomini.

Tutti uomini.

Mai visti prima, mai sentiti.

La porta si chiude.

Nessuno parla.

Io...

Sporco.

Mi sento sporco.

Non guardatemi, non guardatemi così, non fissatemi come se vi dovessi offrire una performance, non cercate in me qualcosa che possa eccitarvi, non scavatemi dentro come se fossi solo un oggetto.

Inizia a battermi forte il cuore.

Io non...

− Mi siedo, Keiji, va bene? –

Mi aggrappo completamente alla sua presenza.

Tranquillo, Akaashi, calmati, calmati.

Non sei da solo.

Non sei affatto da solo.

C'è anche Kōtarō, non sei da solo.

− Ok. –

Gli spettatori non fiatano, guardano e basta, sembrano dire con lo sguardo "fate come se non ci fossimo". Ed è complicato farlo, lo è davvero, ma con Kōtarō qui vicino lo sembra appena un po' di meno.

Si siede, mi sorride, mi guarda.

Si batte le cosce.

− Vieni qui, polpettina, su. –

Alzo le sopracciglia verso di lui.

− Polpettina? –

Arrossisce e fa "sì" con la testa.

Scemo.

Accetto le sue mani e mi arrampico sulle sue gambe, mi siedo a cavalcioni e lo guardo negli occhi per un bell'istante, prima di avvicinarmi con naso verso il suo.

− Andiamo via. Dimmi che vuoi andartene e andiamo via. – sussurra piano, così piano che il rumore di fuori lo copre, lo inghiotte e lo sento solo io.

− Se rimaniamo qua insieme ce la faccio. –

− Se vuoi andare basta solo che tu me lo dica. –

Strofina le mani contro i miei fianchi, gli uomini nella stanza si avvicinano.

Mi sento schiacciare contro il suo petto, la fronte batte sul suo sterno e le braccia mi coprono, non lo vedo in volto ma immagino l'espressione che ha.

Minaccioso.

Rare volte è minaccioso.

Se lo è, fa davvero paura.

− Due metri di distanza da me e Keiji o non facciamo niente. Allungate un dito a meno di due metri e finite la serata in ospedale. –

Uno ride.

− Vi pagano per farlo, chi cazzo ti cre... −

− Due metri. –

Si spostano indietro.

Qualcuno prende una sedia, qualcuno rimane in piedi, continuano a guardarci come se fossimo fenomeni da baraccone in un circo.

Non lo so se riesco a farlo davvero.

Mi avvicino a Kōtarō.

− Niente sesso. –

− Ovviamente. –

Mi specchio nei suoi occhi.

− I pantaloni rimangono dove sono, puoi togliermi la camicia, tirarmi i capelli, fai quello che ti pare. –

Annuisce.

− Non chiamarmi "troia". –

− Ricevuto. –

Appoggio le mani contro il suo viso.

− Iniziamo? –

Sorride.

− Quando vuoi. –

Sorrido anch'io, piego il capo di lato per incastrarlo col suo.

Gli bacio la punta del naso per prima, poi la fronte.

Oh, Kōtarō.

Se non ci fossi tu come farei.

Mi chino.

E premo forte le mie labbra contro le sue.

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

OK CE L'HO FATTA

niente volevo solo dirvi che so che magari a qualcuno sarebbe piaciuto un bello smut super esibizionista in mezzo alla gente ma che la cosa non fa proprio tanto per me e la situazione è molto viscidona quindi mi dispiace di aver deluso qualcun* di voi ma proprio non riuscirei a scriverla e non sarebbe nel mio stile quindi perdonaaaaaatemi

so che avrete l'ansia per i prossimi capitoli

lo so

FIDATEVI DI ME

ci vediamo il ventitré con la kiribaku, statemi bene piccole polpettine di riso, see u asap,

mel :D

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