𝚏𝚒𝚐𝚑𝚝𝚒𝚗𝚐 𝚝𝚒𝚕' 𝚝𝚑𝚎 𝚠𝚊𝚛'𝚜 𝚠𝚘𝚗
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Fa un freddo inimmaginabile.
A novembre, a Tokyo, fa un freddo davvero inimmaginabile.
L'aria mi sferza sul viso come se mi schiaffeggiasse, mi graffia quasi la pelle secca, mi passa come una lingua di ghiaccio sulle labbra spaccate, mi congela ogni centimetro di pelle scoperta.
La luce è chiara, fredda come freddo è il vento, rivela poche sfumature gelide dell'alba sul cielo che si staglia sopra di noi, sembra starsi aprendo pian piano, come le tende di un sipario.
Tutto è fermo.
Immobile, di fronte a me.
Per un istante mi sembra di stare di fronte alla venuta dell'Apocalisse.
Non un filo di voce, non il rumore delle macchine in lontananza, non lo scalpiccio dei passi fra le foglie secche e morte a terra, non un'anima viva.
Il mondo pare aspettarmi.
Mi sono sempre sentito minuscolo di fronte alla sua incredibile, infinita, enorme magnificenza. Mi sono sempre sentito un granello di sabbia nelle spiagge infinite dell'isola in cui vivo, mi sono sempre sentito niente, di fronte a tutto quello che mi succede davanti, dietro, in generale attorno.
Un emarginato.
Tutta la vita, io sono stato un emarginato.
Al punto che la mia emarginazione era diventata la mia forza, la mia casa, il mio posto. Io, che frequento solo un certo tipo di persone, un certo tipo di luoghi, un certo tipo di eventi. Io, che serro Keiji dietro i suoi occhi di ghiaccio per fingere di non essere chi sono in favore di chi preferisce di gran lunga la versione pulita ed edulcorata di me.
Mi sono sempre sentito ai limiti.
Mi sono sempre sentito invisibile.
Il mondo è un posto strano. È un posto strano e, credevo, un posto cattivo popolato di mostri antropofagi che non vedono l'ora di dilaniarti e lasciarti cadavere sulle strade come è successo alle persone come me.
Non ho mai creduto che ci fosse un posto, per me, qui, che non fosse un rifugio momentaneo dalla paura e dalla desolazione di essere solo.
Non ho mai creduto che il mondo aspettasse me.
Non ho mai creduto di poterlo cambiare, mai come ora.
Fa freddo.
Tutto tace, tutto è immobile e silenzioso, tutto attende.
Per una volta nella vita, so che la persona che il mondo attende non è altri che me.
Akaashi Keiji in cima al mondo.
Ma non per guardarlo dall'alto, che non è mai stato quello il mio obiettivo, ma per...
Camminare sulle strade come qualcuno che merita di farlo.
Non vergognarmi.
Essere me convinto che per me ci sia uno spazio, in questo luogo che mi ha sempre solo generato un'incontrollabile ansia di esistere.
Il mondo non ha mai avuto bisogno di quelli come me, no?
O meglio, sì, ne ha avuto bisogno.
Ma un bisogno scuro e torbido, un bisogno tenebroso, un bisogno istintivo, sporco, motivo di vergogna.
Il mondo quelli come me li usa.
Li getta via quando diventano inutili.
Quando il viso si raggrinzisce, quando la pelle cade, quando la bellezza è un ricordo e non ci si più più giustificare dietro la magra idea che "sembriamo donne", quando sfioriamo, quando l'intrattenimento che possiamo dare diventa scadente, più impegno con una persona adulta che un attimo di divertimento con un ragazzino.
Ma questo riguarda il mondo fuori.
Il mondo delle persone fuori da me.
Il mondo degli altri.
Ma non tutto il mondo è il mondo degli altri.
Perché di questo mondo faccio parte anche io. Io, i miei amici, il mio ragazzo, le persone come noi, le persone come me.
E quel mondo esiste.
E quel mondo ha bisogno di me.
Quel mondo aspetta me, aspetta Keiji, che magari per gli altri è invisibile, ma per noi è qualcuno, per me è qualcuno, e quel mondo lo può cambiare.
Non so come andrà.
Non so se la tempesta ci travolgerà o se non ce ne sarà nessuna, di tempeste, e tutto sarà null'altro che uno scenario potenzialmente utile che non si è mai realizzato.
So che questo momento, a prescindere dall'esito, io me lo ricorderò.
Nel silenzio tombale, nel gelo immobile, zitto, muto, in reverenza di fronte a qualcosa più grande di me. Ed eppure...
Pronto a scalarla, quella montagna, con le mie stesse mani.
Pronto a provarci, nonostante la paura di cadere, pur di dimostrare che un posto ce l'ho anch'io, o che quantomeno ho l'ardire di pensare di meritarmelo.
Akaashi Keiji adagiato nell'idea di essere inutile, Akaashi Keiji rigido, spaventato, terrorizzato al punto da vivere nel suo terrore e usarlo come uno scudo.
Non ho mai fatto niente perché continuavo a dirmi che qualsiasi cosa sarebbe stata vana.
Ma è vana davvero?
E questo, chi me l'ha detto?
Lucifero, io ho tatuato sulla gamba, Lucifero perché era il figlio ribelle, colui che è stato cacciato da chi l'aveva messo al mondo, Lucifero il peccatore che giace nelle profondità dell'Inferno.
Ma io non sono Lucifero.
Perché io non sono il male, e il bene non è quello che ho sempre dato per scontato che fosse.
Il bene è diverso per ognuno di noi.
È giusto che sia così.
Per me è...
Essere libero.
Essere fiero, essere libero di essere fiero. È essere orgoglioso, essere parte di qualcosa, essere qualcuno che merita attenzione, qualcuno a cui io stesso ne do. È essere in grado di amare, di accettare, di condividere, senza sentire vergogna per le persone con cui mi ritrovo a farlo. È accettare che se il mio bene non distrugge quello di un altro, ho tutto il diritto di esercitarlo e tenermelo per me.
Se il mio bene è il mio Dio, in questa Bibbia riscritta per me, io non sono Lucifero.
Io sono Michele.
Michele impugna la spada per combattere con le Legioni degli Angeli.
Io uso quel che ho per proteggere chi amo, per proteggere me stesso, per proteggere la mia gente, perché io per quel bene voglio combattere, perché me lo merito, perché ce lo meritiamo.
Ho abbassato la testa per evitare i colpi.
Ventisei anni, ho abbassato la testa.
Ventisei anni, mi sono nascosto convinto che non cambiare niente avrebbe escluso il miglioramento ma marginalizzato il peggioramento.
Ma la verità è che quel che c'è ora non va bene, ed accontentarmi di vivere la mia vita in un piccolo spazio ristretto è ghettizzarmi da solo per qualcosa che non è una colpa.
Non so come andrà a finire.
Non so cosa accadrà.
So che voglio alzare la testa.
Voglio guardarlo in faccia, il mondo, prima di gettarmici dentro a capofitto per cercare di cambiarlo.
Perché ho sempre avuto paura di avere colpe per come ero, per chi ero.
Ma io non ho colpe, non più di un qualsiasi altro essere umano.
Io ho speranze e timori e preferenze e opinioni, ho difetti, ho pregi, ho sogni, ho paure.
Nessuna di esse vale meno di quelle degli altri.
Nessuna di esse vale meno perché sono un uomo a cui piacciono gli altri uomini che ha venduto il suo corpo per un determinato periodo di tempo.
E se ora lo so per me, perché il mondo che ho odiato mi ha permesso anche di imparare ad amarlo, vorrei poter ringraziare chi me l'ha permesso alzando la testa e facendo quel che posso fare per cambiarlo.
Non lo so, se il mondo fa schifo.
So che va cambiato.
So che tante cose sono orribili, inguardabili, orripilanti e spaventose.
So che altre non lo sono.
E quelle che non lo sono, sono quelle su cui cercherò di ricostruirlo.
Parlo di te, Kōtarō.
Io parlo di te.
Io sono pronto a tirarlo giù, questo mondo che mi ha sempre fatto sentire invisibile, ultimo fra gli ultimi, trasparente.
Ma lo ricostruirò da te.
Perché dentro di te, quel millimetro di mondo che è bello e che è in grado di risplendere, c'è.
Ed è da te che riparto ogni giorno per rimettere su questi muri, questi edifici, questi posti, perché sei le fondamenta di qualcosa di bello, e se ci sei tu sotto, niente che crollerà finirà mai per schiacciarmi.
Finisco la sigaretta con calma, le volute di fumo si avvolgono nell'aria di fronte ai miei occhi, il mozzicone mi brucia fra le dita ma lo ignoro, guardo il panorama di fronte a me sorridendo.
Sono qui.
Per una volta sono dove devo essere, dove voglio essere, dove c'è bisogno di me.
Eccomi.
Sono arrivato.
Vincerò questa battaglia, e se non sarà oggi la vincerò più avanti, ma mi rifiuterò di chinare la testa finché non riuscirò ad uscire vincitore da questa.
Fidatevi di me.
Io mi fido di me.
Vi chiedo solo di credere nel fatto che questa situazione, tutta intera, in ogni sua parte, io la risolverò in nome di tutti noi.
– È uscito. Ci siamo. Quando vuoi, Keiji. –
Percorro qualche passo verso il cestino di fronte a me, spengo la sigaretta, la butto e mi volto verso Bokuto.
– Andiamo. –
– Andiamo. – ripete, con le labbra che non si trattengono, la gioia e la fiducia stampate in volto e tutta la bellezza di un mondo che prima d'ora mi faceva schifo dipinta nei tratti che, in un mese e mezzo, ho finalmente imparato ad amare.
Nessuno dei due parla, nei preparativi.
Rimaniamo in silenzio perché le parole le abbiamo già spese, i dettagli già concordati, e non c'è nient'altro da dire. C'è, in questo istante, solo da fare.
Kōtarō raggiunge il bagagliaio della macchina con calma, lo sgancia, e non fa in tempo nemmeno ad aprirlo completamente che il musino peloso del Capitano sbuca da sotto e scende verso il suolo.
Mi arriva addosso, la lingua di fuori e gli occhi vispi, e mi chino per grattargli il retro delle orecchie in un attimo.
– Ciao, ciao, ci sono, eccomi, ci sono, piccolino, siamo tutti qui. – gli borbotto mentre lo guardo, forse un po' spaesato, cercare di prendere confidenza con quello che ci sta attorno.
Si adagia contro di me e si fa coccolare, e per un attimo mi sembra uguale identico alla montagna di uomo che ci guarda poco distante.
– Lo so che non conosci questo posto ma è un parco come quello in cui andiamo sempre, non c'è niente che non vada. – continuo, convinto non so in quale parte del mio cervello che riesca a capirmi.
Gli sorrido.
– Devi solo fare quello che sai fare meglio. E non per metterti ansia o pressione o cosa ma siamo nelle tue mani, Capitano, quindi fallo bene e dimostra a tutti che anche se sei pigro e dormi tutto il giorno sei un vero poliziotto. –
Non so spiegare come, ma credo di vedergli negli occhi grandi e lucidi un barlume di serietà.
– Sei pronto? –
– Tu sei pronto, Keiji? –
Alzo lo sguardo verso Bokuto.
– Sono pronto. Prontissimo. Non vedo l'ora di provarci, Kōtarō. –
– Anche io. –
Alza le labbra in un sorriso che risplende più del Sole che s'intravede sopra di noi.
– A prescindere da come andrà a finire, sono così... fiero di te. – dice, un secondo dopo, come se fosse la cosa più stupida, più logica, più facile da pensare al momento.
Forse lo è.
Forse...
Forse lo è davvero.
– Grazie, Kōtarō. Grazie. –
– Non c'è bisogno che mi ringrazi, guarda che è solo la veri... –
– Grazie di tutto. Di questo mese a casa tua, di essere come sei, di dire sempre la cosa giusta al momento giusto. Grazie, Kōtarō. Non sarei qui se non fosse per te. Non hai idea di quanto sia felice di essere qui. –
Sbatte le ciglia chiare e metabolizza in un attimo di silenzio.
Poi ride, piega la testa.
– Senti, polpettina, lo sai che ti amo e lo faccio ogni secondo, ma se mi fai piangere ora non credo che riuscirò a riprendermi. –
– No, no, non piangere, mi servi lucido. –
– E allora non dire le cose adorabili, perché se dici le cose adorabili io piango e niente al mondo potrà cambiare questa cosa. –
Le mie guance si sollevano, quando gli sorrido.
– Sei un frignone. –
– E te ne accorgi ora? Guarda che non sono fatto al settanta per cento d'acqua, ma di lacrime. –
– Sei anche un cretino. –
– Dimmi qualcosa che non so. –
Lascio un'ultima grattatina dietro le orecchie del Capitano, poi mi sollevo dalla posizione accovacciata in cui ero e tendo la mano verso Kō, che la prende e istintivamente la porta alle labbra per baciarne le nocche.
– Ti dirò un sacco di cose che non sai alla fine di questa giornata. –
Alza un paio di volte le sopracciglia.
– Intendi delle cose sporche? –
Faccio spallucce.
– Anche. –
– Mio Dio, non vedo l'ora. –
Ridacchio, lo fa anche lui, mi godo la pace che mi si spande nel petto nel sentire le nostre voci che si mischiano.
Ti amo, Kōtarō, ti amo davvero.
Ti amo ogni secondo.
E ripartirei ogni giorno daccapo a rimontarmi e rimettermi assieme, come ho fatto un mese fa, come sto facendo ora, se questo significasse poter mettere anche solo un altro tassello di te nel mosaico che mi compone.
– Andiamo, Kōtarō. È il momento. –
– Ci sono. –
E sono sicuro che tu ci sia.
Lo so.
Lo sento e lo vedo.
Mai niente mi ha fatto stare così bene in vita mia.
– Vai. – gli ordino.
Mi sorride.
– Vado. – risponde.
E l'attimo dopo il mio cuore è pieno, le mie speranze alle stelle e il respiro calmo, mentre lo vedo allontanarsi lentamente, passo dopo passo, di fronte a me, in linea retta fra le foglie secche del parco.
Il mio piano si monta tutto su un'enorme stronzata.
Non mi vergogno di dirlo, non me ne vergognerei se non funzionasse, perché è geniale e so che lo è, ma per onor di cronaca, è giusto che lo dica.
Stiamo facendo una follia idiota.
È esattamente quello che stiamo facendo.
E non è una follia idiota venuta in mente ad un folle idiota, è una follia idiota venuta in mente a me che non credo di essere un folle e di sicuro non sono un idiota, ma...
Certe volte le follie idiote servono.
Questa volta, spero che possa servire.
Bokuto cammina fianco a fianco col Capitano, le mani in tasca, l'aria tranquilla, e osservo le sue spalle da dietro muoversi col ritmo dei suoi passi.
Supera i primi lampioni, si addentra fra i colori caldi degli alberi in autunno inoltrato, si fa sempre più piccolo.
Quando la distanza fra noi è sufficiente, dopo aver sorriso e mormorato al vento che non mi sentirà ma che spero possa portare quantomeno il soffio delle mie parole un timido "ti amo" al ragazzo che effettivamente amo, tutto in me si raffredda.
Il cuore batte meno velocemente, il respiro si calma, la logica torna.
Devo fare delle cose.
So cosa devo fare.
Non c'è momento diverso da quello corrente per farle.
Nell'ordine apro il bagagliaio della macchina di nuovo, controllo che non ci sia niente dentro, controllo che i finestrini siano oscurati e tirati su, che il motore sia acceso e che tutto sia pronto.
Quando sono perfettamente sicuro che la situazione sia sotto controllo, prendo il cellulare dalla tasca della giacca e nel giro di un paio di secondi premo sul nome di Kenma, impostando la videochiamata, spingendomi nell'orecchio una cuffietta e lasciando libero l'altro di sentire ciò che mi circonda.
Neppure squilla.
Risponde quasi subito.
Seduto con le ginocchia tirate su sulla sedia nel suo ufficio, la felpa che cade sulle mani, gli occhiali, e una sigaretta in bocca.
– Stronzo, finalmente mi hai chiamato. Credevo vi foste persi. Guarda che ancora un minuto e lo stavate per perdere. –
Aggrotto le sopracciglia.
– Se ne stava andando? –
– Quasi. Ma poi ha visto qualcuno arrivare ed è rimasto. Vi è andata bene. –
– Cazzo, speriamo di avere fortuna. –
Prende un tiro, e incastra la sigaretta fra le dita, sgancia la cenere su un bicchiere – presumo vuoto – di cartone sulla scrivania, sbatte le ciglia lunghe.
– Ok, vedo Bokuto. Mi sa che ci siamo. Ci puntiamo il tutto per tutto sul cane scemo del tuo tipo scemo. –
– Bokuto sarà anche scemo, ma il Capitano è un filosofo, pulce. –
– Seh, come no. È la versione pelosa e a quattro zampe del cretino che chiami "amore". –
– Non lo chiamo "amore". –
– Lo farai. –
Ridacchio piano e avvicino il telefono al viso, Kenma di rimando gira la sua inquadratura perché si vedano gli schermi di fronte a lui, per quanto riesco intravedo le figure muoversi sullo schermo.
Bokuto lo riconosco subito, per la postura, la fisicità, il modo di camminare.
La cosina che si muove vicino a lui intendo sia il Capitano.
E poi, qualche secondo dopo, sulla schermata delle videocamere di sicurezza che Kenma ha hackerato garantendomi al cento per cento che nessuno l'avrebbe scoperto, s'intravede qualcun altro.
E quel qualcun altro è...
Ci prova, il mio sangue, a raggelarsi, e in parte ci riesce.
A vederlo là, in piedi, col suo cane a fianco che cammina tranquillamente per il parco come se non fosse il diretto responsabile della morte di quattro persone, qualcosa di gelido mi si espande dentro, qualcosa di oscuro e di terrificante.
Ma non esplode.
Non sfilaccia, non rode, si assesta lì.
Perché so che cosa devo fare, e so chi sono e so di avere un posto, qui, e non ne ho il minimo dubbio.
Non sarà uno schifoso, viscido stupratore assassino a far vacillare di me la parte più salda.
L'ho visto dal vivo più volte, nell'ultimo mese, nei miei innumerevoli sopralluoghi.
Mi sembrava un mostro enorme, una creatura mistica, mitologica, fatta di rabbia e terrore, quando l'ho visto in quel seminterrato nella villa trenta giorni fa.
Invece non è nulla più di un omuncolo.
Perché certe volte le paure, se le guardi in faccia, sono molto meno imponenti e terrificanti di quanto non ti sembrino.
– Quel figlio di puttana merita di crepare di fame per quello che ci ha fatto. –
La voce di Kenma mi riporta alla realtà.
– Lo merita e lo farà, Ken, te lo assicuro. –
– Non ne dubito, non ne ho mai dubitato. Spero solo che accada il prima possibile. –
– Sinceramente, lo spero anch'io. –
Torno concentrato su quel poco che intravedo del video.
Sempre Bokuto e il Capitano da una parte, quel figlio di puttana del Ministro e il suo povero, innocente animaletto dall'altra.
Si avvicinano.
Passo dopo passo, la distanza fra loro diminuisce.
Il mio fiato s'interrompe.
Bokuto si ferma.
Sembra durare una vita, quest'attimo che in realtà scorre improvviso.
Mi sembra di guardarlo a rallentatore accadere di fronte ai miei occhi.
Si china.
Kō si china verso il suo cane, sgancia il guinzaglio, lo accarezza.
Poi credo che parli.
E non riesco a leggere le sue labbra e comunque non saprei farlo, l'immagine è troppo, troppo sgranata perché realmente intenda quel che dice, ma mi sembra di sentirlo ugualmente.
Dice il mio nome.
Dice al Capitano di venire da me.
E dopo quello che sembra un secolo, penso che il Capitano capisca.
La scena si svolge esattamente come me l'ero prefigurata nella mia mente.
Il cagnolino di Bokuto scodinzola, lecca la mano di Kō, poi annusa l'aria e sente lo scalpiccio delle zampe di qualcun altro, gira il muso, punta l'estraneo.
Non è un estraneo qualsiasi, però. È un estraneo ben preciso, uno che il Capitano conosce, uno che odia, che detesta.
Punta il piccolo Cavalier King a qualche metro da lui.
Eccolo là.
Il suo nemico.
Quella razza di cani che non sopporta.
Quella razza di cani che insegue sempre, che detesta, che proprio non riesce a farsi mandare giù.
Lo fa immediatamente.
Non aspetta.
È un cane, fa il cane, e fa il cane nel modo più perfetto, più giusto, più intelligente che potrebbe.
Gli corre incontro, credo abbai, e niente del suo corpicino che di solito è morbido e soffice comunica dolcezza o pace, ma solo l'istintivo, duro, complesso gesto della predazione.
Il Cavalier rimane fermo.
All'inizio rimane fermo.
Ma il Capitano non si ferma a metà perché Bokuto non interviene, e quando lo vede ringhiargli ad un metro di distanza, allora il Cavalier fa quello che avrebbe fatto chiunque nella sua posizione.
Scappa.
E scappa dalla parte...
Giusta.
Perché lì lo manda il Capitano.
Perché sa cosa deve fare.
Perché si fida di me, anche lui, anche se è un cane, e perché sono sicuro, sicuro nel mio cuore in un modo che non saprei spiegare, che sa quel che deve fare e che vuole fare esattamente quello che sta facendo.
Kenma sussulta nell'auricolare.
– Merda, ha funzionato! Vengono verso di te, Keiji, è tutto pronto? –
Lascio perdere la schermata e infilo il telefono in tasca, ancora non sento il rumore dei cani che corrono verso di me ma non perdo tempo, mi affianco al bagagliaio aperto e guardo nella direzione da cui mi aspetto di vederli arrivare.
– Prontissimo. Bokuto e Ministro? –
– Il Ministro è al telefono, non ha reagito, credo pensi che stiano giocando. Bokuto sta tornando verso di te. –
– Corre? –
– Cammina finché non esce dal campo visivo. –
Strizzo gli occhi per quanto posso ma ancora non mi sembra di vedere niente.
Che si siano fermati?
Che cosa potrebbe essere successo?
Che si siano...
– Arrivano. Stanno arrivando. Bokuto ha iniziato a correre. –
Mi formicolano le mani, mi formicola la pelle e mi formicola persino il cervello, la sensazione dura e soda dell'impazienza mi si espande in corpo.
– Il Ministro si è accorto che Bokuto non c'è. Si sta guardando intorno. Forse ha capito che c'è qualcosa che non va. –
– Quanto manca all'arrivo? Facciamo in tempo? –
– Devi fare in fretta. Pochi secondi, stanno sbucando dai rovi. –
Dai rovi.
Da rovi in cui...
Dai rovi.
Capisco quali rovi quando vedo un ammasso di pelo color biscotto spuntar fuori da un'intricata siepe stranamente ancora verde, le orecchie pelose che sobbalzano nella corsa e il muso piccino, più dolce e delicato di quello del Capitano.
Eccolo.
Serve lui.
Serve...
Mi chino.
Non scappare.
Ti prego, non scappare.
Vieni qui, vieni qui, vieni...
Lo prendo al volo.
Mi si avvicina, forse abituato agli esseri umani, forse terrorizzato dal Capitano che è piccolo ma è pur sempre il cucciolo di un cane da pastore, forse per un motivo che non saprò mai, e quando so che posso prenderlo, mi spingo in avanti, ignoro qualsiasi cosa e stringo le mani attorno al corpicino sottile.
I passi si sentono subito dopo.
– Capitano, qui! –
Il Capitano smette di correre, smette di ringhiare.
Si gira verso Bokuto che arriva correndo, per un secondo non demorde e non si allontana.
– Vieni qui, bello, su, vieni qui. Ho i biscottini, se vieni qui. –
Alla parola "biscottini" il Cavalier, per lui, perde interesse.
E come il Capitano si butta verso il suo padrone, in quella stessa frazione di secondo io prendo il cane del Ministro, lo infilo nel bagagliaio e attacco il suo collare al guinzaglio che avevo legato prima di uscire oggi, sbatto chiuso il portello e mi fiondo verso la porta del guidatore.
Nemmeno chiudo la portiera prima di spingere il piede nell'acceleratore.
La chiudo nel mentre.
E vedo Bokuto sorridere con la coda dell'occhio, già perfettamente seduto col suo cane in braccio sul sedile del passeggero l'attimo esatto in cui ad una velocità che molto probabilmente mi costerà una multa, mi fiondo fuori dal parco.
Qualcosa fa capolino nello specchietto.
Sembra una persona.
Mi viene da sorridere, mi viene da farlo.
Sei arrivato tardi.
Stammi dietro.
Questa battaglia, questa, questa la vinco io.
Tu rimani là a guardarmi le spalle e a chiederti cosa sia successo.
Lo capirai dopo.
E ti ho solo rapito il cane, potrei averti ucciso un figlio, un fratello, un amante.
Magari ripensa a quel che hai fatto, mentre ti rovino come tu hai rovinato le vite di tante persone.
Ma ricordati di una cosa, magari.
Loro non avevano fatto niente.
Tu, tu te lo meriti.
Svolto sulla strada, supero un giallo come se fosse un verde e pochi secondi dopo sono lontano da quel parco, col Cavalier di un Ministro nel porta bagagli, a guidare per le vie di Tokyo come se fosse la mia missione di vita.
Ce l'abbiamo...
No, non è ancora detto.
Non è ancora...
Manca...
– Kenma, la telefonata. Sta telefonando? –
– Ancora no. –
Bokuto mi guarda, sa cosa intendo, rimane zitto.
– Fra quanto cazzo pensa di chiamare? È il suo cane, per Dio, se avessero rapito il Capitano avrei chiamato in tempo ze... –
– Sta chiamando. –
– Cazzo. –
Deglutisco la saliva che ho in bocca, la gola mi diventa secca ma la schiarisco, il cuore dal non battere quasi più inizia a martellarmi nel petto.
– La reindirizzo a te. Pronto? –
– Prontissimo. –
E sento solo un misero "bip", prima che una voce che mi ha inseguito per giorni si spanda nel mio orecchio come un'onda, come uno tsunami, che cerca di spazzare via tutto, di divellere e rovinare qualsiasi cosa gli si pari di fronte.
– Parlo con la Polizia? Perché cazzo ci mettete così tanto a rispondere? Sono un Ministro, non uno stronzo qualsiasi. –
Tu sei molto meno che uno stronzo qualsiasi.
– Centro emergenze di Tokyo, ha un'emergenza? –
– No, chiamo a caso. Certo che ho un'emergenza! –
No, non devo cedere.
Non devo rispondere.
Non devo farmi intimidire.
Non devo...
– Prima di chiederle cos'è successo l'avverto che la chiamata sarà registrata. Acconsente alla registrazione della chiama... –
– Acconsento, acconsento, dimmi tu se servono tutte queste stronzate. Ho bisogno di aiuto, non delle vostre politiche di merda. –
– Ok, mi dica cos'è successo. –
Non chiedo a Kenma se sta registrando.
Non chiedo a Bokuto di dirmi se crede che Kenma lo faccia.
Mi fido.
Mi fido ciecamente.
– Uno stronzo è venuto qua col suo cane di merda e credo che abbiano fatto sparire il mio cane. Non lo trovo da nessuna parte, mi serve che qualcuno me lo ritrovi. –
– Qualcuno le ha rubato il cane? –
– Non so se me l'abbiano rubato o cosa, so solo che non lo trovo e che quando sono tornato a cercare il tipo ho visto solo una macchina che partiva a tutta velocità per uscire fuori dal parco. –
Inchiodo all'ultimo ad un rosso.
Me ne rendo conto un secondo prima che sia troppo tardi.
Bokuto sbatte quasi contro il cruscotto e gli lancio un'occhiata di scuse senza dire nulla, che reciproca solo con un grosso sorriso.
– Il cane è suo? Di sua proprietà? –
– Ma a che ti serve sapere se il cane è... –
– Ora, luogo, proprietario. Sono dati indispensabili. –
Il Ministro mi sospira nell'orecchio, mi viene voglia d'infilarmi nella cuffietta e riemergere dalla sua parte per gonfiarlo di botte, ma mi mantengo calmo, perché ho bisogno che mi dica queste cose e sono disposto a tutto pur di...
– Di proprietà della mia fidanzata, ufficialmente, ma vive con me e lei non lo vede mai, ha scoperto di essere allergica al pelo di cane. Alle sette e venti nell'area cani di fronte a casa mia. –
– Indirizzo e nomi. –
Riferisce l'indirizzo e i nomi, il suo, quello della sua fidanzata.
Li dice.
Chiaramente, specificando lo spelling.
In una chiamata registrata.
L'ha detto.
Li ha detti.
Li ha...
Lui li ha...
– Quindi conferma che questo è il suo cane, che nonostante la proprietaria sia la sua compagna vive con lei e che l'ha perso questa mattina alle sette e venti. È corretto? –
– È corretto, cazzo, perché devo ripeterlo così tante vo... –
– Invieremo una volante sul posto. – rispondo, senza permettergli di finire, prima di tirare su il telefono, interrompere la chiamata e lasciar cadere la sua voce indietro, fuori dal finestrino, lontano da me.
Il cuore batte così forte che quasi mi sembra aver smesso di farlo.
La mia ansia è alle stelle, lo stomaco mi si torce, le dita pizzicano e il cervello lavora e...
– Ho la registrazione. Ho tutto. Kuro vi aspetta al laboratorio fra dieci minuti. Nessuno vi segue, il Ministro non si è spostato da lì, manderò una volante sul luogo quando sarete arrivati. È fatta, Keiji. –
– È fatta? –
– Cazzo, è fatta. È fatta più fatta di me al mio diciottesimo. È fatta, brutto stronzo, è... –
– È fatta. –
Ride.
Kenma ride.
Ride nel mio auricolare e viene da ridere anche a me ma non lo faccio perché è stato tutto così veloce e così paradossale e ancora non sono certo perfettamente al cento per cento che abbia funzionato, però...
– Quindi? Ha funzionato? Ci sei riuscito? Dimmi qualcosa, Keiji, ti prego, dimmi qualcosa, sto morendo d'ansia e mi viene da vomitare se mi viene l'ansia e non voglio vomitare in macchina e abbiamo rapito un cane e so che è per una buona causa ma rimane un rapimento e spero che non stia male chiuso là dietro perché mi spiacerebbe e dovremmo fare i complimenti al Capitano per il suo lavoro e ti prego dimmi qualcosa perché io sto impazzendo, ti prego Keiji dimmi che... –
Mi fermo al semaforo.
Stacco la cuffietta dal mio orecchio, non so se ci sia ancora Kenma attaccato, se abbia staccato la chiamata, se sia là o chissà dove.
Giro di novanta gradi la testa verso il mio fidanzato in ansia che straparla.
Lo guardo.
– Ti amo. –
Il fiume di parole s'arresta.
Si blocca immediatamente.
Ho pochi secondi prima che diventi verde.
– Ha funzionato. Siamo a buon punto col piano. Ora andiamo da Kuroo. Io ti amo. –
– Credo di sentire le voci, mi sa che ho capito male l'ultima cosa che mi hai de... –
– Ti amo. Kōtarō, io ti amo. Ti amo da prima di conoscerti, probabilmente. Ti amo da quando sono nato, credo. Ti amo. Sei l'uomo della mia vita. Voglio sposarmi e avere dei figli con te. Vorrei che stessimo insieme per sempre. –
La sua faccia si trasforma in una maschera di completo stupore.
Manco il pianto, solo...
– Ti amo. Sei l'unica persona al mondo che mi avrebbe supportato nel mio piano di rapire un cane. Abbiamo rapito un cane. Il cane di un Ministro. E nonostante il cane del Ministro sia nel mio bagagliaio a grattarmi i sedili di pelle vera non riesco a pensare a nient'altro che non sia che ti amo. –
La luce di fronte a me diventa verde.
Smetto di guardarlo per tornare a osservare la strada.
Come distolgo lo sguardo sento il primo singhiozzo.
– Ti amo, Bokuto Kōtarō. Ti amo da sempre. Rapirei altri mille cani con te, fino a morire in cella per quanti ne ho rapiti. Ti amo davvero. Non voglio un futuro se in quel futuro non ci sei tu, ti amo. Non smetterò mai di farlo. –
E riparto, fra le strade di Tokyo, col cuore che pesa venti chili di meno, un ostaggio nel retro della macchina e un fidanzato grosso e frignone che piange a dirotto sul sedile, felice come non lo stato mai e pronto, per una volta nella mia vita, a prendermi quello che, fino ad un giorno fa, non credevo mi sarei mai meritato.
Lo scenario che mi si propone di fronte un paio d'ore dopo è un altro di quelli che credevo m'avrebbe inseguito per sempre.
È simile, somigliante al momento più brutto, più traumatico, più doloroso della mia vita.
Paro paro, identico, la stessa cosa.
Io che entro di corsa nell'ufficio del procuratore.
Io che mi getto verso quella maledetta porta come se ne andasse della mia stessa vita, ed in effetti ne va, della mia vita, ne va decisamente.
Io che credo di aver risolto il caso che spero fino all'ultimo secondo che il mondo lo creda con me, io che mi metto in gioco pur potendo perdere tutto.
C'è una cosa diversa, ora, però.
Sono io, quella cosa diversa.
Io dritto, stabile, forte, consapevole. Io che ho fatto tutto quel che dovevo fare, io felice, che so per cosa combatto, io che non mi lascerò piegare perché credo di essere nato per subire quella sorte, ma io che credo, ci credo, per davvero.
Rido quando apro la porta.
La tengo a Bokuto, non mi dimentico di farlo, lo faccio entrare e rido di nuovo, a guardarlo con la faccia un po' gonfia e arrossata tentare di spazzarsi via le lacrime dagli occhi.
Piange da ore.
Piange da quando eravamo in macchina.
Ha pianto quando siamo scesi al laboratorio, quando ha salutato Kuroo, quando abbiamo fatto il test, quando ci siamo rimessi in macchina, quando siamo scesi di nuovo, nell'ascensore.
Piange.
Bokuto piange.
E piange di gioia ed è così bello, per me, che mi chiedo come potessi pensare un mese fa che dovessi "ignorarlo" per dovermi concentrare sul caso.
Perché dovrei?
Perché dovrei limitare la felicità che mi dai come se essere felice rovinasse il mio rendimento lavorativo?
Perché devo costringermi dentro l'idea che per far bene le cose io devo soffrire, quando invece è ora che mi vengono come dovrebbero, ora che sono felice e contento di te?
No, non ti ignoro.
Ti guardo, ti vedo, ti tengo la porta, ascolto quel che hai da dire e non lascio che tu sia dietro di me a guardarmi, ma al mio fianco, a... condividere.
Forse distruggermi mi ha reso una persona nuova.
Forse ero così anche prima, e semplicemente non me n'ero mai accorto.
Non lo so.
Non importa.
L'importante è che io possa stare così e sto così, ora.
Sto così perché ho fatto il mio lavoro. Perché ti ho confessato i miei sentimenti in maniera chiara, perché condividere mi è sempre sembrato spaventoso ma con te è solo una continua e meravigliosa sorpresa, perché sei bello, sei dolce, sei l'amore della mia vita.
Non c'è nessun Keiji che si sta spezzando, quando entro nell'ufficio del procuratore.
Non c'è nessun ragazzino adolescente rifiutato da sua madre che mi si nasconde in testa e non vede l'ora di dirsi che sa perché lei l'ha mandato via.
Ci siete voi.
Voi che fate parte di me.
Tu, Kenma, Kuroo, il Capitano. E anche Oikawa, anche Iwaizumi, anche le ragazze che erano con noi alla festa, la sorella della terza vittima, le persone che sono morte.
Ed è molto più confortevole di quanto mi sarei mai aspettato, condividere la mia mente con voi al posto di tenermela per me stesso e barricarmici dentro come se fosse un fortino inespugnabile.
Stringo la mano di Kōtarō al mio fianco, la stringo forte, apro il mio viso nel sorriso più aperto che la mia faccia riesca a produrre e senza panico, senza ansia, prima che il procuratore faccia in tempo a dire qualsiasi cosa schiaffo una cartella gonfia di fogli sulla sua scrivania.
– Ho risolto il caso. Ho delle prove. Posso avere quel mandato. –
La bocca che aveva aperto per – immagino – salutarmi non emette alcun suono.
Vorrei che dicesse qualcosa, ma...
– Lo so che sono stato in fermo per un mese e che sono teoricamente non in servizio ma non potevo aspettare lunedì. Sono venuto ora, perché dobbiamo farlo ora. Se vuoi ti spiego che cosa c'è dentro la cartellina, è una storia lunga ma giuro che ha un senso e ho fatto tutto per bene e sto letteralmente friggendo dall'ansia quindi ti prego dimmi qualcosa perché se non mi dici qualcosa io... –
– Keiji, sembri me. Respira, credo che non abbia nemmeno capito perché sei qui. –
Chiudo la bocca.
Mi giro verso Bokuto che sorride anche lui, ridacchio appena mi rendo conto di quel che mi ha detto, annuisco.
– Oh, in effetti, se la metti così. Forse hai ragione. Ecco... –
Mi giro verso il procuratore.
È costernato.
Credo che sia decisamente costernato.
– Ok, allora... ciao. Scusa se l'ultima volta ti ho urlato in faccia che sei un viscido, mi riferivo agli eterosessuali, non a te, e non penso che siate viscidi, era più un discorso eufemistico sulla discriminazione. Ho risolto il caso, comunque. C'è la cartellina con le prove per il mandato. –
Indico i fogli impilati.
Lui, senza perdere di una virgola l'espressione che aveva in volto un attimo fa, guarda disperato la cartellina.
– Non è come l'altra volta. È roba vera. Ci sono anche i fogli che... –
– Keiji, credo che non sia... –
Mi blocco.
Bokuto si blocca con me.
Entrambi ci giriamo come se fossimo due cuccioli verso il procuratore che rappresenta, in questa metafora, la mamma, e passa un infinito istante di silenzio.
Di' qualcosa.
Avanti, di' qualcosa.
Non ho fatto tutta questa fatica per non sentirmi dire niente, su, avanti, di' qualcosa, anche una stronzata, basta che tu dica...
– Voglio un campanello alla mia porta. Una serratura, un chiavistello, una catenella, qualcosa. Non puoi entrare qui così. Ho avuto un infarto. –
Non era la cosa che mi aspettavo.
Ma è qualcosa.
Quindi...
– Mi fa piacere rivederti bene, Akaashi, ho provato a chiamarti in questi giorni ma non mi hai risposto. Ho temuto che non volessi tornare. –
– Ho avuto delle giornate impegnate. –
– Lo credo. – mi risponde.
Prende un grande respiro, poi incrocia le mani fra di loro.
– Per quanto riguarda questa... Akaashi, lo sai come la penso, ma sai anche com'è che devo comportarmi. Non è che non mi fidi di te, è che... –
– È una prova schiacciante. Una prova regina. Non dico stronzate, non sono teorie. –
– Una prova schiacciante? –
Annuisco convinto, consapevole.
– Ho il DNA. E due milioni di prove circostanziali se quella ti sembra troppo poco. Ho tutto, te lo giuro, ho tutto. –
Sgrana gli occhi come se gli avessi bestemmiato in faccia.
– Sai che non posso ammettere DNA preso senza mandato in aula, Akaashi, ma come diavolo ti viene in mente che... –
– È il DNA del suo cane. Avevamo trovato un pelo di cane su una delle vittime e avevo inserito nel database il DNA per cercare un riscontro. Oggi è arrivato un riscontro. E ho le prove che quel cane sia solo ed esclusivamente suo. –
– Hai il DNA del cane? Come diavolo hai fatto a prendere il DNA del suo... –
Un sorriso si apre sul mio viso, un sorriso sincero e fiero e totalmente soddisfatto del mio piano geniale.
– L'ho rapito. E sai come l'ho rapito? –
Apre talmente tanto le palpebre che quasi temo i muscoli del suo viso si spezzino.
– In maniera totalmente legale. –
– Lega... –
– Stamattina io e Bokuto siamo andati a fare una passeggiata col cane di Kō, il Capitano. Guarda caso il Capitano ha avuto una... lite con un Cavalier, si sono inseguiti e non sapevamo se l'avesse morso. Secondo la legge se c'è una lite fra due cani è non solo possibile ma anche fortemente consigliato far testare i cani per la rabbia. Noi non conoscevamo questo cane, siamo stati costretti. –
– Quindi avete... –
– Non trovando il padrone da nessuna parte abbiamo deciso di portarlo al laboratorio più vicino prima di riportarlo alle forze dell'ordine, perché la rabbia è mortale per i cani se non è curata col giusto anticipo. Volevamo evitare che uno dei due morisse. –
Il procuratore non dice niente, annuisce, esterrefatto, come se non credesse a quello che sta ascoltando.
– Il laboratorio più vicino era quello di Kuroo Tetsurō della scientifica. Gli ha fatto un check-up completo, tanto che c'era, e indovina un po'? Riscontro col database del DNA, esattamente il campione che avevo depositato un mese fa. Rimaneva solo da capire di chi fosse questo cane. –
– Era il cane di... –
– Terza pagina della cartella, c'è la trascrizione della chiamata effettuata alle forze dell'ordine dal proprietario. C'è il consenso alla registrazione, nome, cognome, indirizzo. –
Il procuratore allunga le mani verso la cartelletta la tira verso di sé, apre alla pagina desiderata, strabuzza gli occhi a leggere la trascrizione, come se non ci credesse.
– Hai ricevuto tu la chiamata? È legale che tu riceva le... –
– Sono abilitato al reindirizzamento diretto delle chiamate del centro emergenza. Sono abilitato da... ieri. È stato un puro caso che la chiamata sia stata trasferita a me, direi che ho avuto... fortuna. – rispondo, il sorriso sulle mie labbra che non riesco più a spingere giù.
– Fortuna? –
– Fortuna, Kozume Kenma, chiamalo come vuoi. –
Mi rivolge un'occhiata che sa di "ma guarda tu questo bastardo", ma non in modo negativo, più in modo incredulo.
– Secondo le prove, quindi, il pelo di quel cane, un cane che sta solo ed esclusivamente col Ministro perché la compagna è allergica, è finito sul corpo di una vittima. E non sopra, ma fra il corpo e i vestiti, è entrato in contatto sulla pelle nuda. Qualcuno ha trasferito quel pelo di quel cane dal Cavalier al cadavere. Quel qualcuno è il proprietario del cane. –
Lo vedo prendere fiato ma l'interrompo prima.
– E nel caso credessi che la mia idea è solo una teoria, no, non è così. Abbiamo altre prove circostanziali. Sul corpo è stata ritrovata la fibra di un cappotto a tiratura limitata introvabile che guarda caso il nostro Ministro ha. L'altro giorno ho chiesto a Bokuto di farmi una foto di fronte al Ministero e per caso, solo per caso, ci siamo accorti che le striature della macchina della guardia del corpo del Ministro sono identiche a quelle della macchina che abbiamo visto nel video della videosorveglianza quando lasciavano il terzo cadavere. Ho delle testimonianze di alcuni ragazzi che dicono di essere stati pagati dal Ministro per fare sesso e che riferiscono che avesse tendenze violente nei loro confronti che li hanno costretti a smettere di frequentarlo. –
Stringo forte la mano di Bokuto, forte, fortissimo, tanto che vorrei quasi s'immergesse nella mia.
– Tutte le prove portano a lui. Non basterebbero a inchiodarlo ma sono più che sufficienti per un mandato. –
Mi sporgo dalla sua parte.
– Mi serve solo quel mandato. Solo quel misero, stupido mandato. Ti giuro che è lui, so che è lui, tutte le prove dicono che è lui. Se mi dai quel mandato posso confrontare il suo DNA con quello dei kit antistupro e le sue impronte dentali con quelle dei morsi sui corpi e avremo delle prove ancora più solide. Devi solo darmi quel mandato. –
Non dice niente.
Rimane zitto e mi guarda.
Scivola con una mano sulla sua scrivania, non vedo dove la metta.
Il cuore mi batte all'impazzata nel petto.
Si ferma prima di fare qualsiasi cosa stesse facendo.
Mi guarda.
– Lo sai che può chiedere di far sopprimere il cane se ha morso il suo, vero? –
– Non si sono morsi. Credevamo di sì, ma in realtà no. Il Capitano l'ha solo... inseguito. –
Stringe i denti.
– Sei davvero un figlio di puttana, Akaashi Keiji. –
Poi infila la mano sotto la scrivania, apre un cassetto, e l'attimo dopo sta firmando un foglio che ha scritto "mandato per il prelievo di DNA" sopra, e il mondo mi si muove sotto i piedi.
– Hai messo dietro le sbarre un Ministro per un cane. Solo tu, solo tu potresti fare una cosa del genere, solo tu... –
Inizio a tremare.
Tutto il mio corpo inizia a tremare.
La mano di Bokuto si stringe sulla mia e la prima cosa che faccio, la più istintiva, è guardarlo.
Ha gli occhi grandi e aperti e contenti, fissi verso di me, mi sembra di vedergli negli occhi...
Orgoglio.
Lui è...
Puro orgoglio per me.
– Prima o poi mi ucciderai, con una di queste tue trovate geniali. Però, miseria se non lo sapevo, l'ho sempre detto che sei il fiore all'occhiello della Omicidi. –
Riempie i campi con la penna, seguo i tratti d'inchiostro che compaiono sulla carta finché non iniziano a sfumare, finché le lacrime e la commozione non le trasformano in nebbia.
– Lo sapevo la prima volta che ti ho visto – alza gli occhi verso di me, le iridi si allacciano con le mie oltre il vetro degli occhiali – che sei nato per fare grandi cose. Sei un bastardo, ragazzino, lo sei davvero. E non saprò mai dirti quanto sono felice che tu lo sia. –
Firma, prende il timbro sul suo tavolo, lo stampa sulla carta e poi spinge il foglio verso di me.
– Ecco il tuo mandato. Sappi che se non ci sarà corrispondenza col Ministro nessuno dei tre avrà un lavoro domani. Va' a mettere quel figlio di puttana dove deve stare. –
Sorride.
Finalmente sorride.
E sorrido anch'io, fra le lacrime, con tutto quello che ho dentro che straborda fra le mie ciglia, guardando quello che è una rivalsa per me, per le persone come me e per chiunque in questo mondo abbia sempre creduto di non meritare giustizia.
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───
ok allora, siamo onesti
QUESTA COSA DEL CANE E' UFFICIALMENTE IL MASSIMO GRADO DI CREATIVITA' CHE IL MIO CERVELLO POSSA OFFRIRE quindi amici io spero che abbia senso per voi come ce l'ha per me perché io, meglio di così, non posso fare
ho provato a disseminare gli indizi nella storia e ha scrivere qualcosa che avesse un fine e niente spero che ce l'abbia e nulla a me questo capitolo piace tanto quindi sono tanto felice di condividerlo con voi e spero che piaccia anche a voi e niente
l'ho scritto con le lacrime
non so come o perché ma questo keiji lo sento molto e mi sento super fiera di lui anche se lo scrivo io non so se ha senso giuro però non lo so mi fa super sorridere io mamma fiera
ok ora scappo che devo tornare a casa
spero che vi sia piaciuto sisi
(mi duole dirvi che di capitoli ora ne mancano solo tre però prossimo capitolo crossover con una os che secondo me potrebbe piacervi sisi)
niente
ciao cuoricini <3
mel :D
p.s. un super grazione a v4ltor ,abovtalex e per il betareading ❤️
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