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𝚋𝚊𝚝𝚝𝚕𝚎𝚜 𝚋𝚎𝚐𝚞𝚗

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Odio i film polizieschi.

Davvero, li odio.

Li trovo...

Dio, descriverlo mi riesce persino difficile.

Li trovo aberranti.

Prima di tutto, la fanno estremamente facile. Davvero, pensiamoci un attimo.

Com'è possibile che nel giro di centoventi minuti se proprio vogliamo essere generosi, racchiudano tutto quello che accade con quella linearità semplicistica e pulita?

Obiettivamente, in centoventi minuti già è tanto se riesco a tirarmi su dal letto, lavarmi, fare colazione e andare al lavoro.

Poi, aggiungiamo al carico qualche altro dettaglio.

Perché tutte le donne hanno una voce così acuta?

Non mi sembra onesto, né realistico, né rispettoso. Chi l'ha detto che in polizia entrano solo biondine con le gambe lunghe e un tono che rasenta l'udibile?

Perché, poi, non sono mai capo-detective o che ne so, procuratore ministeriale, ma solo e sempre detective di un team che fa capo ad un uomo?

No, no, non mi piace.

Perché c'è sempre un elemento estremamente attraente che sembra avere un passato oscuro e fa casino con la legge? Quello ombroso che fa commenti cinici di tanto in tanto, intendo, quello che fa l'accordo improbabile col cattivo per risolvere il caso e viene lasciato in solitudine a prendersi le responsabilità delle sue scelte.

Chi l'ha detto, che quel tipo di persona esiste davvero?

Se fai accordi con i criminali, non sei un poliziotto.

Nessuno ci ha mai pensato?

Perché indagano solo sui serial killer? Gli omicidi normali non valgono più, non importano? Perché pare che Los Angeles – perché è dell'America che parliamo – sia il covo di una barca di matti con la passione per il sangue?

Non ci sono gli incidenti stradali, in California?

Non ci sono i morti sul lavoro?

Fanno sembrare il lavoro di polizia come un susseguirsi di fotogrammi cruenti che si riconducono a malati psichiatrici folli che uccidono per il gusto di farlo.

Non che voglia dire che c'è un motivo valido per uccidere, sia mai, ma cazzo, almeno un po' di credito vogliamo darlo a questi che prendono il coltello in mano e menano il colpo?

Tra l'altro, tornando al fattore donne, perché se c'è qualcuno che s'impressiona per la scena del crimine è sempre di sesso femminile?

Miseria, avrei fatto vedere loro la maestra di matematica che avevo alle elementari, quel donnone alto tre metri che guardava la mia fronte madida di sudore e continuava a chiedermi la tabellina del sette come volesse distruggermi o farmi finire in polvere.

Lei non si sarebbe impressionata.

Quello che mi faceva scienze, invece, assolutamente sì.

Perché il detective di punta, poi, ha sempre gli occhiali da sole?

Non c'è la notte, in America?

Vivono in un perenne stato di luce solare?

No, lui è sempre là, fico e impassibile, che dice una frase da strapparsi le mutande sul momento inforcando un paio di Ray-Ban Aviator col gesto del braccio che rivela un tessuto muscolare improbabile.

Anche lì, perché sono tutti super muscolosi?

Qualcuno glielo dice che siamo più menti che lavorano, rispetto a picchiatori senza scrupoli che inseguono fuggitivi saltando sopra i bidoni della spazzatura?

No, perché la cosa mi fa sentire scemo.

E magro.

E forse anche un po' esilino.

Perché il protagonista si porta sempre a letto la parente disperata del morto?

Non è etico, qualcuno dovrebbe far arrivare un comunicato ad Hollywood. Se facessi una cosa del genere o anche solo ci pensassi, mi sbatterebbero fuori a calci nel culo.

Davvero, una bella pedata e addio, Akaashi Keiji, ci rivediamo nella prossima vita.

Un'ultima cosa, m'infastidisce, ma forse è per il modo in cui vivo, il modo in cui sono, le tematiche che m'importano.

Perché sono sempre etero?

Tutti etero.

Non è che siamo animali rari, noi gay, siamo fottutamente ovunque, disseminati e sparsi nella vita comune di tutti. È strano che non ci sia un singolo omosessuale in tutta l'America, vero?

No, un attimo, forse ci sono.

Sono sempre morti.

Sempre stesi su un lettino di metallo, pallidi e spiritati – qualcuno dovrebbe anche dir loro che i cadaveri non hanno quell'aspetto – a farsi osservare da un medico legale che o è un vecchio super inquietante o un affascinante semi-psicopatico.

Sempre "povere creature" che il mondo rifiuta, questi fantomatici omosessuali.

Ma insomma, dopotutto, che cos'altro potrebbero fare?

Uno scienziato gay non si può vedere, sia mai. Magari uno stilista, magari un architetto con la sciarpetta svolazzante, forse forse impiegato in un negozio di trucchi, ma cosa potrebbe farci in una centrale di polizia?

È scontato.

Se devono morire, che muoiano.

Ma se devono lavorare, sia mai, perderebbero troppo tempo a pulire la loro pistola rosa confetto e a lustrare il distintivo glitterato.

Che poi chi è che si farebbe arrestare da un gay?

Cioè, immaginatevelo, magari s'innamora del criminale, si sa che agli omosessuali piace quel genere di persona. Quelli cattivi con i muscoli, che siano moralmente integri o meno, poco importa. E se si mettessero a baciare l'arrestato mentre lo portano in centrale?

Sarebbe un disastro.

Un altro assassino scappato perché uno stupido, scemo gay se n'è innamorato.

E allora mettiamoli dove devono stare, in orizzontale con un telo bianco sopra.

È facile, empatizzare, se sono morti. Che non devi vederli fare le loro cose strane come portare borsette minuscole o indossare leggins di pelle, se sono morti.

Ti dici che alla fine è solo un cadavere, poverino, che gli piacessero gli altri uomini non frega a nessuno.

Anzi, ti senti un salvatore, un amorevole dolce essere umano, un alleato, se hai pena di loro. Già era gay, tesorino, e ora la vita gli ha riservato anche una morte violenta.

Ce l'hanno tutti con lui.

Quante cose orrende devono succedere nell'esistenza di una sola, singola persona.

Se fosse stato vivo chissà quanti tagli di capelli mi avrebbe consigliato in fila dall'estetista.

Se fosse stato vivo gli avrei voluto bene, l'avrei portato in giro dentro una pochette assieme al mio ridicolo chihuahua e l'avrei fatto vedere a tutte le mie amiche, l'avrei trascinato a fare shopping. Perché è questo che fanno i gay, se non muoiono, vero?

Poverino.

Poverino.

E invece no, e invece i gay, talvolta, fanno anche qualcosa che con la cura del corpo non c'entra.

In questo caso specifico, stanno in piedi, al freddo invernale, a squadrare un morto.

− Ventidue anni, maschio, asiatico. –

Annuisco.

− Morto tra ieri pomeriggio e ieri notte, colpo di pistola alla testa. –

Annuisco ancora.

− Probabilmente omosessuale. –

Guardo gli occhi aperti, vitrei e lontani. Spaventato, il mio morto era spaventato.

Un gay che ne guarda un altro.

Se fossi in un film poliziesco, sarei biondo, più alto e più massiccio, avrei degli occhiali da sole. Direi che prenderò il figlio di puttana che ha dato così tanto dolore ad una persona che già la vita aveva odiato, inserirei una frase politicamente corretta per far capire agli spettatori che no, gli sceneggiatori non sono omofobi, dire "frocio" per insultare qualcuno è solo goliardia.

Ma non sono in un film poliziesco.

E la realtà, è ben diversa.

− Chi è? – sento chiedere dalla mia stessa voce.

− Non ne abbiamo idea. –

− E come fate a dire che è gay? –

Il coroner mette le mani sul viso del ragazzo.

− Ha l'eyeliner e i pantaloni stretti. –

− E questo lo rende gay? –

Lo è.

Lo so che lo è.

Come se fossimo mostri, anomalie dall'aspetto innocuo, ci riconosciamo a vicenda.

Ma se io posso dirlo, il coroner, no.

Quanti "uomini veri", in questo ambiente. Quanti etero convinti che il minimo segno di femminilità li renda come noi.

Deve far paura, essere gay, se ne sono così terrorizzati.

− Ho solo supposto che... −

Scuoto la testa.

Non la voglio, la sua spiegazione.

Non mi serve.

− Avete mandato le impronte e il DNA per l'identificazione? –

− Sì. –

Ti troverò, piccola aberrazione del sistema sociale.

Saprò chi sei.

"Un gay".

Ti darò un nome.

Perché vorrei che qualcuno lo desse alla persona che sono, se fossi io, a stare steso sul cemento freddo senza vita.

Non sei "un gay".

Sei qualcuno.

E vorrei tanto che anche gli altri se ne rendessero conto.

− Ci sono telecamere nelle vicinanze? –

− Quella del supermercato, abbiamo requisito i filmati. –

Perfetto.

Nonostante nei film polizieschi, i maledetti film polizieschi, sia sempre una di quelle opzioni che ti danno all'inizio della pellicola ma che non portano niente, nella vita reale una marea di crimini vengono risolti così.

− Altre prove? –

Tira il guanto nero che indossa, sposta le dita sul viso giovane della persona stesa a terra. Che asettico, è, il mio lavoro, a volte.

Asettico e secco, duro, difficile.

Toccare e guardare così da vicino una persona che non c'è più, alle volte mi fa sentire davvero distaccato, dissociato quasi dalla realtà delle cose.

Gli sposta il colletto della camicia.

− Un morso, l'impronta dentale dovrebbe essere parziale. –

− È un inizio. –

Sposta di nuovo le dita, le allunga verso il braccio.

Indica la mano e la guardo da solo, chinandomi sul cadavere e prendendo io stesso il corpo freddo.

C'è un timbrino sbiadito.

− È di una discoteca, credo. Di qualche giorno fa, è chiaro. – dico ad alta voce, più ragionando fra me e me che per effettivamente condividere l'informazione col coroner.

Non risponde, non avrebbe senso che farlo.

Esamino le unghie.

C'è qualcosa... sotto.

− Fibre di tessuto. Dev'essersi aggrappato forte a qualcosa, il ragazzo. –

Silenzio, altro silenzio.

Le rotelline del mio cervello girano, girano e continuano a girare.

− Non c'è sangue, è stato ucciso in un altro posto e mollato qui. –

"Come un cane", sono le tre parole che non dico.

Non le dico perché è vero, che l'hanno abbandonato qui, ma in faccia mi rifiuto di comporle, queste tre parole. Era una persona, non lo è più, ma merita il rispetto che temo non molti vogliano dargli.

Mi giro attorno per osservare la scena del crimine.

Tranne che questa, non è la scena del crimine.

È vuota.

− Non c'è niente di utile, qui. Non c'è nessuno, niente. L'hanno mollato qui, scaricato forse, e via. È tutto inutile. –

− È sicuro? –

Mi giro con uno sguardo di ghiaccio verso il coroner.

− Scusi? –

Non lavoro per essere "sicuro".

Nessuno è mai "sicuro".

La legge, la polizia funziona con le probabilità, con l'intuito e l'ingegno. Io non lo so, se sia andata davvero così. Potrebbe essere andata in un milione di modi, con un milione di variabili.

− Niente. –

− Meglio. –

Guardo il ragazzo.

Bella, quella linea d'eyeliner, gli direi se fosse ancora vivo. Non il mio stile la camicia trasparente né gli stivali pieni di glitter, ma ci vuole personalità per vestirsi così.

Chissà se l'ho mai incontrato.

Chissà chi era.

Chissà chi sei.

− Akaashi! –

Mi giro di scatto.

Fa freddo, oggi, un freddo orribile. Ho gli stivali sotto i jeans spessi, la maglietta, la felpa, la giacca e la sciarpa.

Il mio naso è intirizzito dal gelo e ne intravedo la punta arrossata con la visione periferica, gli occhiali si appannano ad ogni respiro più intenso.

Verso di me, corre un poliziotto giovane.

Chi è?

− Akaashi, il dipartimento ha mandato questo. – aggiunge, tutto trafelato.

Tiene stretto in una mano che trema un fascicolo.

Un... fascicolo?

Sono sulla scena del crimine, miseria, per le scartoffie avrò tempo dopo.

− Portalo in centrale, ci penso do... −

− La circoscrizione quattro l'ha fatto mandare per oggi, è importante! –

Chi è questo impertinente che fa casino?

Alzo una mano verso di lui che si ferma immediatamente.

− Non ti avvicinare, contamini la scena. –

Inesperto.

− Oh, mi scusi! –

Mi muovo con delicatezza, piego e stendo le gambe per superare il mio cadavere senza toccarlo, cercando di occupare col mio corpo meno spazio possibile.

Di me, le persone che mi conoscono, dico che mi muovo come se fossi un felino.

Non ci credo, il mio migliore amico somiglia ad un gatto molto più di me, ma questo è quello che sento.

Dicono che i miei passi sono felpati, sensuali perché ho le gambe lunghe e le mie anche oscillano quando mi muovo, pacati.

Io non mi sento un felino, mi sento un ventiseienne che ha bisogno di una sigaretta, ma non ho controllo su quello che dicono di me.

Mi avvicino respirando nella sciarpa al poliziotto giovane che tiene la carta fra le dita.

− Che cos'è? –

− Un fascicolo di un caso. –

Perché mai la circoscrizione dovrebbe mandarmi il fascicolo di un caso?

No, un attimo.

Ha senso, è pieno di casi archiviati male, irrisolti che hanno spunti nuovi se li guarda qualcun altro, lavoro condivisibile.

Riformulo.

Perché mai la circoscrizione dovrebbe mandarmi il fascicolo di un caso mentre sono sul campo?

Allungo la mano.

Il ragazzo mi guarda un po' imbarazzato.

Ah, il guanto.

Gli fa schifo.

Non c'è sangue, però gli fa schifo lo stesso.

Lo tolgo e infilo in tasca, tanto ho fatto, non devo rimetterlo.

Quando finalmente il fardello di fogli si assesta sulla mia mano, sistemo gli occhiali, strizzo gli occhi e guardo.

Scritto in stampatello maiuscolo anche se a mano, la data traballante e cancellata, al fondo della copertina.

Una settimana fa.

Due casi di una settimana fa.

Passato a me perché...

Lo apro.

Fogli, tanti fogli, scritti tutti con la stessa calligrafia, foto e referti, informazioni sommate sulla pallida superficie di un pezzo di carta.

− Non so chi l'abbia scritto, mi scusi se non si capisce, dev'essere un idiota. –

Lancio uno sguardo al poliziotto attraverso le lenti degli occhiali, senza nemmeno muovere la testa.

− Ci sono due problemi con quello che hai appena detto. – sputo fuori dalle labbra, il tono più acido di quanto vorrei ma inevitabilmente duro.

Deglutisce ed evita il mio sguardo.

− Primo, se è un documento che doveva arrivare a me, non avevi alcun diritto di aprirlo. –

Sbuffa una nuvoletta di condensa fuori dalle labbra.

− Secondo, è la calligrafia di un dislessico. Non un idiota, un dislessico. Non fare assunzioni su chi non conosci, già che abbia scritto tutto a mano senza batterlo al computer è uno sforzo enorme. –

Trema un attimo, non so se intimidito o infreddolito.

− Scusi. –

Lascio perdere.

È vero, che è difficile da leggere. Le lettere si confondono, è pieno di cancellature e le frasi sono sconnesse, ma come ho detto al ragazzino qui di fronte, c'è dello sforzo, e lo sforzo vale più della mia pretesa di avere parole stampate.

Cerco le parole che mi servono.

"Ventenne sconosciuto."

"Locazione del delitto sconosciuta."

"Probabilmente membro della comunità LGBTQIA+."

Mi fa sorridere l'acronimo completo e mi fa sorridere vedere che l'abbia cancellato e riscritto tre volte per mettere in fila le lettere nel modo corretto.

"Timbrino della discoteca sulla mano."

"Visibili segni di incontro sessuale."

Osservo le foto allegate, non un morso ma un succhiotto su uno, violaceo e spento sulla sua spalla, il segno di una mano attorno al collo sull'altro.

Vado al fondo del foglio.

"Unico colpo di pistola alla testa."

Unico...

Merda.

Ho capito.

Ecco perché.

Ecco perché dovevano mandarmelo, ecco perché, ecco...

− È un seriale. – dico ad alta voce, la testa che si solleva nel freddo gelido dell'inverno, l'animo che sprofonda.

− Che cosa? –

Tre crimini fanno un seriale, tre...

− È un seriale. Stiamo cercando un seriale. Un serial killer. –

Divento di ghiaccio.

Ma non per il gelo, non per quello.

Uccide i gay.

Un seriale che uccide i gay.

Ragazzi, ragazzini. Quello...

Merda, quello potrei essere io.

− Torno in centrale. Fai raccogliere le prove, le voglio classificate per oggi pomeriggio. Abbiamo un seriale. – ripeto.

Niente occhiali da sole, niente capelli biondi, niente torrido caldo della California.

Ma del poliziesco, ora ho qualcosa.

Un crimine coi fiocchi.

Un vero e proprio crimine coi fiocchi.

Un'ora e mezza dopo, sono seduto sulla poltrona del procuratore ministeriale con una sigaretta che non dovrei fumare in un luogo chiuso fra le dita e un fastidio che serpeggia lungo la spina dorsale.

− Akaashi, non fare il testardo. –

Aspiro e quasi sibilo dal fastidio.

− Non sto facendo il testardo, è come lavoro. Volete che lo catturi? Devo poter fare il mio mestiere al meglio. –

Sento un sospiro provenire dall'altra parte della stanza.

Il procuratore ministeriale... mi conosce. Sa chi sono, sa come sono arrivato qui, sa il mazzo che mi faccio e sa il talento che ho.

E dovrei fidarmi, visto che è il mio superiore, ma su questo, su questo non transigo.

− Farai il tuo mestiere al meglio con una mano. –

− Non la voglio, una mano. Lavoro da solo. –

− Non è quello che vogliamo che tu faccia. –

Mi giro pieno di astio.

Io me ne batto di quello che vogliono che io faccia.

Io catturo i cattivoni, e se il cattivone è un seriale, allora a maggior ragione devo avere la possibilità di sbatterlo dietro le sbarre nel modo più semplice che conosco.

E quel modo è lavorando da solo.

− Lo volete o no, il bastardo? –

− Lo vogliamo, Akaashi, ed è per questo che lavorerete in due. È il miglior detective della quarta e sta indagando sugli altri due casi. –

Me ne frega ancora meno di chi cazzo sia.

Per carità, carino il modo in cui scrive, ma io continuo ad essere uno che lavora da solo.

− Passatemi i fascicoli, lo consulterò se serve. –

− No. Lavorate insieme e basta, è un ordine. –

Infilo la lingua fra le labbra, appoggio la mano sul tavolo, la cenere che inizia a formarsi al fondo del bastoncino che tengo fra le dita.

− Puoi ficcartelo nel culo, il tuo ordine. –

L'insubordinazione è una brutta bestia, ma ripeto che ci conosciamo, siamo direi persino amici. Conosce il mio modo di fare e conosce di me l'aspetto severo che riservo al lavoro.

Sono rigoroso, preciso.

Nessuno fa le cose come le voglio.

L'unico modo che ho, è farle tutte da solo.

− Akaashi, se non accetti di lavorare in team il caso non è tuo. –

Questo stimola la mia attenzione e m'infastidisce ancora di più.

Prendo un tiro, alzo gli occhiali sopra la testa.

− In che senso? –

− Due crimini alla quarta, uno qui. I loro sono arrivati prima, ci stanno già lavorando. Che ti faccia partecipare all'indagine è un favore, non te lo devo. –

Mi mordo la lingua.

− La cosa è, o lavori con loro, o sei fuori, Akaashi. –

− Sono il migliore che avete. –

Maledetta arroganza. Onesta, ma pur sempre arroganza.

Alza le sopracciglia, indietreggia sulla sedia e sospira.

− Il migliore in panchina. –

Mi mordicchio nervosamente il labbro inferiore.

Ma porca di una puttana, ma perché? Era un caso interessante, uno di quelli da promozione o da lavoro ininterrotto, qualcosa che mi avrebbe occupato una barca di tempo.

La mia cosa preferita, chiamatemi stakanovista, è lavorare fino a dimenticarmi del resto.

E ora devono togliermelo per darlo a qualcun altro?

− Chi è il detective della quarta? –

Cedimento.

Il procuratore sente cedimento e sorride, bastardo maledetto, tirando su un angolo della bocca carico di strafottenza.

− Premiato nelle Forse Speciali, lavora in polizia da due anni. –

Forse Speciali, eh?

Eccolo, il mio poliziotto da film.

Come sarà, il bastardo?

Quelli delle Forse Speciali, convinti che quel che hanno fatto basti, quando tornano nel mondo comune si lasciando andare. Fumano, bevono, diventano scarti di qualcosa che non sono più.

Già me lo immagino, la birra in mano e la puzza di sigaro a blaterare di una donna dietro l'altra.

− Casi irrisolti? –

− Due da quando è arrivato alla quarta. –

Due?

Io ne ho cinque, ma lavoro da quattro anni.

Con un paio di calcoli... vince lui.

Ma sì, dipende sempre dai casi. Se gli passano solo le stronzate, è scontato che le risolva. Bisogna vedere di cosa si occupa.

Rimango zitto a finire di fumare, il nervoso che mi s'inerpica nel corpo dall'interno.

Odio lavorare in team e odio lavorare con gli stronzi saccenti, figurati tu se questo bastardo non riempirà il mio povero cervello di aneddoti e storie sul sesso che dovrò sorbirmi tutto il tempo.

Lo odio già.

Lui e i suoi modi schifosi di fare.

Come i poliziotti vecchi, quelli un po' repressi che mi dicono che sono bello ma si coprono all'ultimo dandomi della donna, quelli avvizziti e mollicci che squadrano il mio culo mentre cammino.

− È davvero necessario? –

− Almeno conoscilo, prima di dire di no, dai. –

Sbuffo ad alta voce.

Ho bisogno del mio tempo privato, per risolvere i casi, di pensare da solo, di meditare in santa pace. Non di barcamenarmi fra le cazzate di un viscido, non di stare attento che non allunghi le mani.

− È qui? –

− È arrivato stamattina a portare il fascicolo e non se n'è andato, ma diceva di non voler venire nella tua scena del crimine lui stesso per non darti fastidio. –

Non è viscida questa cosa?

No, non lo è.

Ma tutto potenzialmente può sembrarlo, se lo guardi con una prospettiva settoriale come la mia.

Non voleva scavalcarmi, eh? Voleva fare il carino per raggirarmi, per guadagnarsi la mia fiducia e rubarmi i meriti quando avrei risolto il caso.

Maledetto figlio di...

− Dice che non vuole i meriti dell'indagine, che sarebbe solo onorato di lavorare con te. –

Anche i miei pensieri diventano silenziosi.

Questa, questa non me l'aspettavo.

È...

− Mi conosce? –

− Ha sentito parlare di te e prova rispetto nei tuoi confronti. –

Ha usato questa frase?

Che prova "rispetto"?

O forse era più una battuta orrenda su come sarebbe carino interagire per una volta nella vita con un omosessuale, per vedere se gli piace.

− Non sono sicuro di volerlo fare. –

− Provaci e poi ne parliamo. –

Provarci.

Davvero?

Dovrei provarci?

Spengo la sigaretta contro il posacenere, slego le gambe dall'intreccio in cui le avevo messe, mi stiro le pieghe sui pantaloni.

− Se mi tocca o fa il viscido, il caso va a me senza proteste. –

Il procuratore ministeriale non vacilla, e la sua sicurezza mi spaventa.

− Promesso. –

− L'hai detto. –

Prendo un grande respiro.

Solo un paio di minuti.

Sarà come me l'aspetto, sarà peggio, probabilmente, e tutto questo finirà al primo merdoso tentativo di approcciarmi.

Lo coglierò in flagrante, lo caccerò a pedate.

− Vado. –

− Vai, vai. –

Sorride.

Sorride come se sapesse qualcosa che io non so.

Maledetto bastardo, cos'è che non so? Io so tutto, so come andrà a finire, so che cosa succederà, so che cosa mi stai costringendo a fare.

Togli quell'aria di superiorità dalla tua stupida faccia.

Ripasso le cose che devo fare nella giornata mentre esco dall'ufficio, giusto per distrarmi un attimo. Devo passare alla cibernetica da Kenma per i filmati delle telecamere, dal suo ragazzo alla scientifica per le fibre. Un occhio al medico legale, poi alla ricerca della discoteca.

Sono tante cose.

Se riesco a levarmi d'impiccio questa puttanata del lavorare in coppia, potrei anche farcela.

Percorro un passo alla volta il corridoio gremito di persone della centrale.

Per quanto sembri ipocrita, il problema di base, è che a me i poliziotti non piacciono. Figli di machismo e maschilismo estremizzati, sono soltanto dimostrazioni di virilità con pistola e distintivo, ai miei occhi.

E so che sembro fastidioso, pretenzioso ed arrogante, ma è vero che senza di loro sto meglio.

L'unico partner che abbia mai avuto è esattamente come mi aspetto sia questo che verrà.

Vecchio, viscido, convinto che qualche anno di servizio militare l'avessero reso un genio quando a malapena riusciva a mettere in fila due parole senza sputarsi addosso.

Mi chiamava per nome, quel merdoso, e mi diceva che ero "bello come una ragazza".

Alzavo gli occhi al cielo e pensavo che fosse diverso, il concetto, proprio alla base.

Sono slanciato, è vero, sono magro e ho le gambe sottili, ma è evidente che sia un maschio, niente in me è femmineo.

Non è che sembro una ragazza, è che chi mi trova bello è attratto dagli uomini.

Poco, dovrò fare.

A quanto pare sono il tipo dei bavosi, dovrebbe entrarmi in vantaggio la cosa, in questo contesto.

Basterà alzare un po' la voce, stringerla sui bordi, ondeggiare le anche e il suo cervello andrà in cortocircuito, tenterà di toccarmi il culo e avrò il mio caso.

Non è carino sfruttarsi così, ma è utile.

Entro nella sala principale, la mia scrivania è al fondo.

Non saluto i miei colleghi, non ho un buon rapporto con loro, tiro dritto per diritto verso il mio posto, la rabbia che mi acceca e il nervosismo che serpeggia in me.

Tre, due, un passo mi separa dalla mia poltrona.

E quando mi accorgo che su quella poltrona c'è qualcuno, capisco anche che il mio nuovo partner, è esattamente la persona qui dietro.

Prendo un grande respiro.

Puoi farcela, Akaashi.

Hai fatto di tutto, hai superato di tutto, ti hanno persino rapito, una volta.

Puoi farcela.

Fai l'avvenente, tira fuori le tue migliori qualità e fatti dare questo caso di merda.

Fallo.

Credo in te.

Credo in...

− Akaashi? –

Mi cade la mascella a terra.

Ripassiamo insieme le caratteristiche del partner che mi aspettavo.

Avvizzito, molle.

No.

Non è né avvizzito, né molle, stretto nella sua camicia bianca e nei jeans, con la fondina ascellare che corre sul petto.

È alto.

È massiccio.

È... solido.

Viscido, schifoso vecchio.

Avrà la mia età, anno più anno meno.

Insopportabile, fastidioso, lascivo ghigno sulla faccia che cade a pezzi.

Niente del sorriso a trentadue denti che mi accoglie è lascivo, mi sembra di vedere il Sole. Labbra increspate e fossette ovunque, occhi grandi che si chiudono appena tanto è forte l'impatto che il gesto ha sul suo viso, ciglia chiare, pelle liscia.

Orrendo.

Niente di quello che ho davanti ha a che fare, anche solo un minimo, con la parola "orrendo".

Mi si secca la bocca.

Credo che sia, a ragion veduta e calcoli fatti, la singola persona più bella che in tutta la mia vita io abbia mai avuto il piacere di vedere.

È...

Merda, è meraviglioso.

Intravedo i muscoli sotto il tessuto chiaro della camicia, le spalle larghe, le braccia rigide.

Il bastardo...

Il bastardo brilla.

E brilla forte, così forte, che non riesco a rispondere.

− Sei tu Keiji Akaashi? Ti ho visto ad una festa del dipartimento qualche anno fa e mi ricordavo che fossi tu, ma magari mi sono sbagliato, sai, sono un po' un disastro. Se non sei tu sai che figura di merda mi sono fatto? Mi dispiace di aver usato la tua sedia, è che ero stanco e volevo sedermi, ma non sapevo se ti avrebbe dato fastidio ma poi ho pensato che alla fine è solo una sedia, io... −

Parla tanto.

Ha la voce squillante.

Non alta, bassa, maschile.

Vivace.

E dice tante, tante parole.

Tante parole che non ascolto, fermo come sono a guardare quanto cazzo sia bello quest'uomo.

− Come ti chiami? – è tutto quello che il mio cervello riesce a tirare fuori.

Smette di parlare.

Sembra che... finalmente mi guardi anche lui.

È come se fosse stato così nervoso all'idea del mio arrivo che quando poi sono arrivato davvero i suoi nervi siano saltati in aria come petardi, facendolo reagire sproloquiando.

Ora pare che qualcosa l'abbia calmato.

La mia voce?

Non so se...

− Wow. – risponde.

Wow?

Wow cosa?

Io?

Ho tolto la giacca, la sciarpa, porto solo una felpa un po' grande sul corpo e i pantaloni che metto tutti i giorni, ho i capelli un po' arruffati, gli occhiali addosso, ombre scure sotto gli occhi.

Io non sono wow.

Ed eppure...

Mi fissa.

L'uomo bello mi fissa.

Mi fissa e sorride, e non come uno che pensa "questa è la mia preda" e nemmeno "merda, ma che cazzo, perché sto pensando che un uomo sia bello", no.

Mi fissa come se fosse entusiasta.

Felice.

Mi sembra che un singolo attimo duri una vita, prima che si riprenda e diventi tutto rosso, si guardi la punta dei piedi e recepisca la mia domanda.

− Bokuto Kōtarō. –

Non ascolto.

Mi vergogno di questo, ma non lo faccio.

− Eh? –

− Mi chiamo Bokuto Kōtarō. – ripete.

Mai sentito, mai visto.

Ne sono certo, di questo.

Perché se l'avessi visto, miseria, me ne sarei davvero ricordato.

Tende la mano nell'aria, rimane lì un paio d'istanti prima che mi riprenda e decida di stringerla, forse un po' più debolmente di quanto avrei voluto.

Ha le mani grandi, le nocche un po' screpolate, piene di cicatrici rimarginate come se le avesse spaccate una marea di volte, intravedo il nero di un tatuaggio dall'avambraccio.

Non ha l'orologio, non è il tipo, a primo impatto. Mi sa di uno che non sa mai che ore siano, sempre in ritardo, sempre a correre e scorrazzare perché si è dimenticato di avere questo o quello da fare.

Stringe forte le dita, ma con una forza non crudele, forse ingenua.

Come se non si rendesse conto di se stesso.

Come se non avesse idea di quando stretta possa essere la sua mano.

Non lascia andare le mie dita, e mentre mi riprendo dalla mia trance, me ne rendo conto con un po' d'imbarazzo, inizio a fissarlo.

Molla arrossendo di nuovo.

− Scusa. – borbotta.

− Niente. – borbotto io.

Sono...

Cos'è che mi preoccupava, prima? Cos'è che mi dava fastidio?

Non me lo ricordo.

Non mi sembra di ricordare niente, mentre rimango a fissargli il viso.

Chissà cos'era.

Chissà...

− Sono il detective della quarta che lavora al caso dei ragazzi uccisi. Mi hanno detto che potevamo lavorare insieme e allora sono venuto qui. –

Non mi mordo la lingua abbastanza in fretta.

− Hai fatto bene. –

Non mi pento di quello che dico quando mi sorride di nuovo. Questo sorriso dovrebbe essere illegale, mi dico, illegale.

È un attacco al cuore.

− Mi hanno detto che di solito lavori da solo, ho pensato solo di passare a vedere se ti andasse di farlo con me, questa volta. Faccio casino, è vero, ma non ti intralcerò, lo giuro. –

− Non importa. –

Importa?

Forse m'importerebbe, se avessi una coscienza.

Non credo di averla.

− Spero che lo prenderemo. –

Io so cosa spero di prendere.

Al momento, ahimè, non è il serial killer.

− Anche io. –

− Perfetto! –

Di colpo si sporge e mi arruffa una mano fra i capelli, sorride e si avvicina.

− Bravo, bravo. –

Ammetto che una parte di me vorrebbe rimanere qui a farsi toccare, ma l'altra, quella noiosa e razionale, è decisamente interdetta.

− Scusami? –

Bokuto, grande e grosso, si blocca di colpo, e di nuovo diventa rosso come un peperone.

Si allontana come se scottassi.

− Merda, mi sono fatto prendere. –

Prendere?

− Da cosa? –

− Ho lavorato con la cinofila, mi sono abituato a... −

Ai cani.

È abituato ai cani.

Mi stava accarezzando come se fossi un cane.

A metà fra lo scoppiare a ridere o svenire per quanto sia dolce questa cosa, credo di metter su un'espressione non particolarmente accogliente.

Quando la vede, indietreggia e inizia, di nuovo, a sproloquiare.

− Mi dispiace tantissimo, non cacciarmi, non lo farò mai più. È che ho un cane a casa e ho lavorato con i cani per l'ultimo caso e loro erano bravi e gli davo i premi così erano felici ma non penso che tu sia un cane penso che tu sia un essere umano cioè sei un essere umano uno bello uno umano non voglio darti del cane scusami non picchiarmi io... −

Mi lascio scappare una risatina e si zittisce.

Un essere umano bello.

Un essere umano... umano.

"Non picchiarmi"?

− Non sono arrabbiato, Bokuto-san. –

Ha gli occhi spalancati.

− Zero? –

− Meno tre. –

Aggrotta le sopracciglia.

− È ancora meno di zero? –

Annuisco.

− Scusa, faccio schifo in matematica. Una volta ad una verifica al liceo ho scritto che il cubo di tre era nove ma perché cubo e quadrato sono due parole così simili, cioè iniziano con la stessa lettera. Ho preso tipo uno e mezzo. –

Sorrido appena.

− Cubo inizia con la "c" e quadrato con la "q". –

− Sì, ma tipo la "q" è il mashup della "c" e della "u". –

Come sono finito a parlare di alfabeto?

Non lo so, non m'interessa.

− E allora la "x" è il mashup della "c" e della "s"? –

Annuisce tutto soddisfatto.

Si sporge e mi arruffa i capelli di nuovo.

− Giusto, guarda come sei bravo, che bravo. –

A questa, perdo.

Perdo completamente.

Scoppio a ridere forte, così forte che si gira tutto l'ufficio, le lacrime che mi fanno capolino dagli occhi e la pancia che inizia a fare male, l'aria che manca e il respiro spezzato.

Non m'interessa del lavoro, per questi minuti così sottili, so che dopo magari penserò che sia troppo tonto per aiutarmi, magari un po' inutile.

Ma lavoro escluso, quest'uomo, è così... merda, è davvero divertente.

Rido, rido e rido ancora.

Un attimo fa, me l'hai detto, e ora hai già dimenticato tutto?

Che carino, che scemo, che bello.

− Stai ridendo di me? –

Fra un respiro ed un altro, annuisco.

− Che bello, faccio ridere! –

Rido di più.

Idiota.

Idiota e adorabile.

Davvero adorabile.

Quando mi riprendo, tutti si sono alzati dal loro lavoro per fissarmi completamente confusi.

Già, il detective freddo e rigoroso non ride spesso, anzi, non ride mai. Ma cosa c'è da guardare? Sono affari loro? No, non lo sono, che smettano di fissarmi come se fossi matto.

Un moto di fastidio mi fa abbassare la voce quando parlo, come per nascondermi.

− Sei molto divertente, Bokuto-san. – dico, completamente onesto.

− Davvero? –

− Sì, lo sei. –

Sorride più di prima, più ancora, come se avesse vinto una gara importantissima, come se fosse il migliore.

Non sa di arroganza, però.

Sa di... gioia.

− E mi devi vedere quando lavoro, sembra quasi che il mio cervello funzioni. –

Piego appena la testa.

− Quasi? –

− Beh, non mi spingerei troppo in là, magari ti fai aspettative troppo alte. –

Vorrei dirgli che le mie aspettative erano a zero prima di vederlo, e che qualsiasi cosa faccia, se la fa con quel viso, sarà comunque meglio del novanta per cento che un qualsiasi altro poliziotto abbia fatto per me.

Ma non glielo dico, sorrido e basta.

− Vogliamo provare a vedere come sei, invece di farci aspettative? Senza contare che anch'io potrei deludere le tue. –

Scuote la testa un paio di volte.

− Non potresti mai, lo so che sei super bravo. –

Mi fa un po' arrossire, il complimento.

Ripeto, l'ambiente è quello di "veri uomini" che piuttosto di concederti qualcosa ti trattano male e marciscono nel loro complesso d'inferiorità, trovare qualcuno che riconosca i tuoi meriti è raro.

Piacevole, anche, ora che ci sono.

− Ho più casi irrisolti di te nella statistica. –

− Scommetto che erano dei casi difficilissimi. –

Le mie guance diventano più calde di nuovo.

Merda, merda, che carino. Che dolce.

− Quando chiudiamo questo te li faccio vedere, magari puoi aiutarmi con quelli. – mi scappa, prima anche solo di riuscire a fermarmi.

Non so neppure come lavora, non so nemmeno se è bravo, non so niente, ma...

− Mi piacerebbe. –

− Anche a me. –

Cade un istante di silenzio.

Sembriamo due scemi, non è vero?

Qualcosa in me se ne rende conto. Sembriamo due coglioni che dicono cose a caso nel panico più totale, e se da una parte credo che per Bokuto sia normale, questo, un po' perché è tonto davvero e un po' perché è totalmente a suo agio nel farlo, per me...

Miseria, ho detto nemmeno venti minuti fa al procuratore ministeriale che "poteva mettersi nel culo i suoi ordini" e che ero "il migliore che avevano".

Ora sono davvero qui a ridere e sparare cose a caso solo perché ho visto un bell'uomo?

Contegno, Akaashi, contegno.

Schiarisco la voce e cerco di assumere la mia postura classica, dritta, seria, distaccata.

Mi tiro su gli occhiali sul viso, mi passo una mano sulla guancia e prendo un grande respiro.

− Da dove iniziamo? –

− A fare cosa? –

Vorrei sorridere come uno scemo ma mi limito a non reagire.

− A risolvere il caso. –

Anche lui cambia.

Non parecchio, non in modo eclatante e pazzesco, ma da qui vicino, carpisco i dettagli e me ne rendo conto in prima persona.

Si fa quasi più minaccioso, oserei dire, più adulto, professionale.

Non smette di sorridere, ma il sorriso diventa più... deciso, credo.

− Classificazione delle prove? – mi chiede, e la mia mente inizia a rischiararsi, a farsi più reattiva e logica, meno intorpidita dalla bellezza sconcertante della persona di fronte a me.

− L'ho richiesta per oggi pomeriggio, manderanno alla scientifica le fibre per oggi pomeriggio. Tu cosa avevi trovato? –

Si appoggia all'indietro, sedendosi appena sulla mia scrivania, tira su le braccia e le tiene conserte sul petto.

Un minuscolo pezzettino di me nota come i muscoli si flettano alla posizione, ma lo faccio stare zitto.

− Niente. Assolutamente niente. Non c'era un'impronta, non un segno, nulla. Solo i succhiotti e le mani attorno al collo, ma nulla che riconducesse a qualcuno. –

Sbuffo fra le labbra.

− Abbiamo i filmati delle videocamere, almeno quelli ci sono. –

Annuisce.

− Giusto. Ho la sensazione che serviranno a poco, però, non uccidi tre persone in quel modo per poi farti beccare da un supermercato, mi sbaglio? –

Devo, mio malgrado, dargli ragione.

− Vero. Ma magari qualcosa... −

− Qualcosa ne caviamo fuori di sicuro. Dove sono i filmati? –

− Alla cibernetica, credo li stiano analizzando. Sento se hanno finito e passiamo, o magari vediamo prima come sono messi con l'autopsia? –

Non mi riconosco.

Lo sto interpellando di mia spontanea volontà?

Io, Akaashi-lavoro-da-solo-Keiji che naturalmente chiedo il parere di qualcuno?

Non so cosa sia.

Forse...

Mi fa sentire a mio agio, anche se non lo conosco, con il suo modo di fare.

− Chi finisce prima secondo te? –

Ci penso su.

Kenma, il mio amico della cibernetica, imbronciato e arruffato ma comunque capo della sezione di almeno sei circoscrizioni, è veloce.

Il medico legale, un po' meno, complice anche il fatto che esaminare un filmato e classificare un cadavere siano due cose che richiedono un'attenzione diametralmente opposta.

− Kenma finisce prima, ma non so se finisce in tempo per quando arriviamo. –

− Conosci Kenma? –

Mi aspettavo una risposta di lavoro, questa non lo è.

La cosa, nonostante dovrebbe infastidirmi, m'incuriosisce e basta.

− È il mio migliore amico. Perché, sai chi è? –

− Oh, il mio, di migliore amico, non fa altro che parlare di lui. "Micetto" di qua, "micetto" di là, mi fa sempre sentire single. –

Alzo un po' le sopracciglia.

− Sei amico di Kuroo? –

Annuisce un po' fiero e un po' qualcos'altro che non distinguo.

− Abbiamo lavorato insieme l'anno scorso e siamo diventati amici. Gli voglio bene, è un po' strano quando parla di chimica ma è super divertente. –

In effetti, ce li vedo.

Sono due tipi... calzanti.

Scuote la testa come per distrarsi.

− Scusa, non volevo interromperti, mi è venuto naturale. Allora, dov'eravamo? Già, i filmati. –

Rientro nel binario della conversazione in un attimo.

− Ecco, sì. Kenma fa veloce, secondo me, ma è meglio se non gli mettiamo fretta. –

− Concordo, se poi si arrabbia mi fa paurissima. –

"Paurissima"?

Kenma sarà un metro e sessanta di uomo, con le gambette magre e le manine piccine, gli occhioni grandi e la conformazione minuta.

Questa cosa fa più ridere di quanto mi aspettassi.

− Proviamo prima a vedere il timbrino della discoteca? –

Gli si accende qualcosa nel cervello, o quantomeno, mi sembra che lo faccia.

− La discoteca, giusto! Sei un genio, Akaashi! –

Si gira sulla mia scrivania che ringrazio lo stia facendo perché le mie guance diventano tutte rosse.

− Ho fatto fare questo da un altro alla cibernetica con tutti i timbrini delle discoteche gay di Tokyo. Avrei voluto farlo con tutte perché così mi sembra omofobo, ma ho pensato che le discoteche etero fossero troppo noiose per meritarselo. – commenta, un po' interdetto dal foglio che gli si para davanti.

Sembra persino dispiaciuto.

Che carino, cazzo, che carino.

− Fammi vedere. –

Allunga la carta verso di me, la gira, guardo le immagini.

− Quelle due in alto sono le due sui miei morti. Ne riconosci qualcuna per il tuo? –

Scorro i disegni uno alla volta, uno alla volta. Ho una buona memoria, e per quanto non ricordi precisamente cosa ci fosse sul cadavere di stamattina, credo che la mia mente scatterebbe se ce ne fosse uno che non vedo per la prima volta.

La terza fila è inutile, così la quarta, la quinta, la sesta e...

− È questo. –

Il mio dito si appoggia sul foglio con decisione.

Non chiede "sicuro".

Annuisce.

− Perfetto, andiamo ad interrogare il proprietario. –

− Sai chi è il proprietario? –

− Assolutamente no, ma l'intenzione era di scoprire chi fosse e andarci subito. –

Non trattengo una risatina, sposto lo sguardo dal logo a lui e mi specchio per un istante sul colore ambrato dei suoi occhi.

− Sei un po' scemo, lo sai? –

− Al cento per cento. –

− Ottimo. –

Sorride anche lui, sorride tanto.

− Dobbiamo andare da Kenma anche per trovare il proprietario, vero? – mi chiede.

− Possiamo cercarlo noi nel database, ma se chiediamo a Kenma ci metterà dieci secondi e risparmieremo un sacco di tempo. –

− Giusto, facciamolo lavorare. –

Già m'immagino il faccino contrito e il "ma che cazzo era meglio se mi fossi finto morto" sulle sue labbra, ma li ignoro.

− Andiamo? –

− Siamo in anticipo, l'abbiamo detto nemmeno due minuti fa. –

Si gratta la nuca.

− E se mangiassimo qualcosa? Ho fame. –

Non si fanno pause in orario di lavoro. Sto lavorando, non ho tempo per mangiare, ho tempo per risolvere il caso, per...

− Anche io, non ho fatto colazione. –

Sarebbe stato tanto meglio mettersi a rimuginare? Forse sì, forse no. Se l'avessi chiesto al me di un'ora fa, la risposta sarebbe stata "ovviamente".

Ma siamo in due, no?

Due significa che il lavoro si sobbarca a metà.

E se ho metà di quello che faccio di solito da fare, forse ho il tempo di prendere un caffè, fumare una sigaretta, mangiare un muffin al bar.

Forse ho il tempo di guardare il sorriso di Bokuto Kōtarō ancora un po'.

− Poi però guidi tu, non so guidare. –

− Non sai guidare? –

Scuote le spalle, come se non potesse farci nulla.

− Mi hanno bocciato quattro volte al teorico. –

Rido di gusto, rido e lo guardo.

− Certo che sei proprio tonto. –

− È solo il mio modo di essere il migliore. –

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