Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

𝚊 𝚜𝚘𝚕𝚍𝚒𝚎𝚛 𝚒 𝚠𝚒𝚕𝚕 𝚋𝚎

➥✱ TW :: f* word

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

Ad alcune persone piace avere gli occhi addosso.

In generale, intendo, ad alcune persone piace farsi guardare. Fermare qualcuno con un solo sguardo in mezzo alla strada, farsi vedere, mostrarsi, mettersi in mostra.

Non è che io lo detesti in ogni occasione.

Anzi, in effetti c'è un certo senso di potere, nell'essere l'oggetto degli sguardi di qualcuno.

Ti sale quest'autostima fulminea nelle vene e ti senti adorato, ti senti fissato, e ti piace. Guardatemi, guardatemi tutti, perché sono meraviglioso e lo sapete quando me.

Certo, però, ci sono situazioni e situazioni.

Ti piace quando sei in mezzo alla gente, al sicuro, quando vai a ballare, quando esci a bere qualcosa e gli sguardi degli altri ti trattano come se fossi il centro della serata, l'attore su cui punta ogni luce della ribalta.

Ti piace un po' meno quando...

Non posso negare che sia piacevole.

Kōtarō che mi bacia e mi stringe i fianchi è indubbiamente piacevole.

Ma...

Sento gli occhi sulla pelle.

Sento innumerevoli coppie di occhi che mi bucano la carnagione, che mi s'infilano sotto la camicia mezza aperta, che bruciano addosso a me.

Non guardatemi.

Non guardatemi più.

Se mi guardate così, mi fate solo sentire... sporco.

Cerco di rilassarmi.

C'è Bokuto Kōtarō, quel Bokuto Kōtarō, che mi sta baciando, non ho certo nient'altro a cui pensare, no?

Non è che lui si senta tanto meglio di me.

Lo sento dal modo in cui mi stringe a sé.

Non possessivo, ma... di protezione. Mi stringe forte, avvita le braccia dietro la mia schiena come se stesse cercando di coprirmi, mi spreme contro di sé.

Le sue spalle sono rigide, i muscoli contratti.

Vorrei che fossimo a casa mia da soli.

Vorrei che fossimo solo io e te, tutto questo sarebbe sicuramente molto più dolce, molto più divertente, molto più... onesto.

Qui mi fa schifo.

Mi fa schifo davvero.

Non so come io possa aver fatto questa vita prima, ora la sento completamente distante da tutto quello che sono.

Non dico che non possa essere piacevole, ma...

Il lavoro che ho fatto per qualche anno prima di entrare in polizia per un magico congiungimento cosmico, ad alcune persone piace. Non è che ci sia vergogna o imbarazzo nel dirlo, è possibile che piaccia, è pur sempre un lavoro, me l'ha detto Bokuto, no?

Il problema sta sempre dall'altra parte.

Sta nel fatto che alcune persone, alcuni clienti, sono peggio di altri.

E questi che mi guardano come se fossi feccia fatta per compiacere ad un loro desiderio voyeristico di osservare da vicino, sono peggio di tutti.

Sospiro e cerco di trattenere un gemito quando Kōtarō affonda i denti sul mio collo.

Meno, meno, meno.

Non farmi esporre troppo, non...

Bacia il morso, poi sale su, verso l'orecchio.

Non sono baci... passionali, no. Non saprei come descriverlo in altro modo, sembrano in effetti quelli che ti dà tua madre quando hai la febbre, sulla fronte, quelli di "bentornato" a casa, quelli distratti così tanto per abitudine.

"Calmati".

Sembra che mi stia dicendo "calmati".

Cerco di rilassare la schiena e mi lascio andare contro il suo petto, respiro a pieni polmoni, il cuore nel petto mi batte come se stesse bussando sulla mia cassa toracica pregando di uscire.

– Keiji, va tutto bene? –

– Ti sembra che vada tutto bene? –

– No, no, non intendevo questo. –

Riempio i polmoni un'altra volta, li svuoto.

– Scusa, non volevo risponderti male. –

– Non importa, davvero. –

Infila una mano tra i miei capelli, mi spinge il viso contro l'incavo della spalla, mi bacia la tempia una, due volte.

– Non vuoi continuare? –

– Voglio che se ne vadano tutti. Mi mettono a... –

Scappo con lo sguardo intorno a noi.

Non so quanti siano, ad occhio e croce una ventina. Erano di meno quando abbiamo iniziato, pare che lo spettacolino abbia più fan del previsto.

Kōtarō mi prende il mento fra le dita e gira la mia testa verso di sé, solo ed unicamente verso di sé, non mi lascia andare, mi bacia la punta del naso.

– Li guardo io. Li tengo d'occhio io, davvero. Tu non hai bisogno di guardarli. –

Storco il naso.

– Sono tanti. –

– Sì, è vero. –

– Mi guardano come se... –

– Ssh, non ci pensare, non ci pensare, Keiji. –

Scivola con la mano dal mio mento alla mia guancia, con il braccio libero mi avvicina a sé.

– Sono solo io. Ci sono solo io, non ti devi preoccupare. Ci penso io a te. –

– Ci pensi tu? –

Sorride.

– Sì. –

Avvicina il viso al mio, le sue labbra hanno un sapore quasi familiare, ormai, accetto il bacio con calma.

Solo lui, c'è solo lui.

Solo ed unicamente lui, solo...

Spengo il cervello.

Spengo il cervello e premo più forte contro il suo viso, infilo una mano fra le ciocche chiare dei suoi capelli e tiro la sua testa indietro, apro di più le gambe.

Solo tu.

Nessun altro.

Solo tu, solo tu, solo...

Mi tiro su sulle ginocchia, le cosce stese che mi permettono di guardare Kōtarō dall'alto, stringo il suo collo con le braccia, fondo un'altra volta le labbra con le sue.

Siamo da soli, siamo a casa, nessuno ci guarda.

Abbiamo appena mangiato e tu hai fatto fuori un terzo della mia dispensa, sei riuscito a rompermi almeno due bicchieri del servizio buono sbattendoci contro, hai pianto perché eri dispiaciuto e mi hai detto che l'unico modo per consolarti era darti come minimo quindici baci.

"Perché quindici?"

"È il numero di lettere nel nome del mio cane."

"Come si chiama il tuo cane?"

"Devo presentartelo prima di potertelo dire."

Sorrido mentre lo bacio e lo sente, appoggia le mani aperte sul retro delle mie cosce, stringe alla base del culo, il mio sangue torna fluido e mi scorre nel corpo, in tutto il corpo.

Ho caldo.

Perché baciare te è molto meglio che baciare qualsiasi altra persona?

Sai quante persone ho baciato?

Anche per noia, mi è capitato di farlo.

Ora mi vien quasi da dire che trovo più piacevole fare questo con te che qualsiasi rapporto completo io abbia avuto con un'altra persona.

Mi stacco per appoggiargli la fronte addosso.

Mi stringe con le mani.

Non mi vergogno a gemere, questa volta.

Prendo fiato per attaccarmi un'altra volta, ma...

– Dire che mi è venuto duro mi rende frocio? – dice qualcuno nella stanza.

– Non lo so, credo sia una roba più grottesca che altro. – risponde un altro.

– Se lo dici tu. –

M'irrigidisco ancora.

Ora che mi stavo rilassando, ora che stavo meglio, ora che...

Kōtarō mi guarda dritto negli occhi.

– Che schifo. – commenta.

Annuisco per confermare, perché è vero, perché fa schifo, è innegabile che lo faccia.

Io non sono "grottesco".

Il mio orientamento sessuale non è "grottesco".

È me, è una parte di me, è qualcosa che non posso scegliere, che non posso decidere, non il feticcio di un uomo ricco che non si è mai confrontato apertamente con la sua sessualità.

– Sarà che quello coi capelli neri sembra una donna. –

– Sì, potrebbe essere per quello. –

Bokuto stringe le mani sulla mia vita e mi costringe a tirarmi giù, poi le passa sulla schiena, prende la mia spalla sinistra con la destra e viceversa, chiude le braccia a croce su di me, mi stringe.

– Tu non sembri affatto una donna. –

– È la scusa degli uomini che si credono etero per non ammettere che gli piaccio. Succede sempre, sai. –

– Non dovrebbe succedere. –

– Lo so, ma... –

Stringe lo sguardo sul mio come se fosse arrabbiato.

Sì, in effetti ha senso.

Si arrabbia sempre quando...

– Quando la smetterai di giustificare le cose brutte che ti succedono con "eh ma il mondo è fatto così", Keiji? –

– Non sto giustificando niente. –

– Lo stai facendo, lo fai tutte le volte. Guarda che puoi star male se ti fanno qualcosa di brutto invece di fingere che sia tutto normale. –

– Non credo proprio. –

Sospira ed è così imbronciato che mi viene quasi da ridere.

– Non prendertela, dai, non è niente. –

– Non parlare di te stesso come "niente". –

– Non è questo che intende... –

– Sei più zuccone di quanto credessi. –

Metto una mano di fronte alle labbra e mi viene da ridere, in effetti mi metto proprio a ridere. "Zuccone"? Mi ha appena chiamato "zuccone"? Ma che insulto è? Che...

Si sporge con il collo dalla mia parte, fonde le labbra con le mie di nuovo, questa volta è meno sensuale, più dolce, più delicato.

– Stupido, stupido Keiji. Credevo di essere io quello scemo dei due. –

– Io non sono stupido. –

– Lo sei. –

Mi accarezza la schiena con le mani, infila il naso sotto la mia mascella, spinge verso il mio viso perché lo inclini come vuole lui.

– Solo uno stupido penserebbe di te quello che pensi tu. –

Appoggia le labbra contro il mio collo, ma lo fa con calma, piano. Non crea in me quel calore sottopelle a cui mi ha abituato, più un brivido sottile che scorre sulla mia spina dorsale.

– Sei troppo meraviglioso per non volerti nemmeno un po' bene. –

Sento il sangue salirmi fino ai capelli, distolgo lo sguardo da lui e lascio cadere indietro la testa.

– Smettila. –

– Di fare cosa? –

– Di dirmi le cose carine. Non è il momento. –

Ridacchia.

– È sempre il momento. –

– No, non è vero. –

– Sì che è... –

Sentiamo qualcuno sospirare nella stanza, ed è femminile, questa volta. Guardo Kōtarō per evitare di girarmi e dovermi confrontare un'altra volta con la vastità della nostra platea, capisce la domanda ancor prima che la faccia.

– Ci sono due donne, sì. –

– Sono... –

– No, non sono le ragazze di prima. Sono vestite bene. –

Appoggio la fronte contro la sua.

– Mi fanno sentire meno a disagio degli uomini, in ogni caso. –

– Già, anche a me. –

Di nuovo, sento sospirare.

Però poi arriva anche la voce, e tocca un tasto che abbiamo tutti appurato essere decisamente dolente per me.

– Sai se quello grosso dopo si libera? Credo venderei la mia macchina per un'ora con lui. –

– Sì, ho chiesto al cameriere e mi ha detto che dopo ha il turno vuoto. –

Mi cade la mascella.

Queste...

Queste schifose. Queste schifose luride che vogliono pagare Bokuto, il mio Bokuto, per...

Gli prendo la faccia con la mano, la tiro su.

– Tu non ci vai con loro. –

– Non avevo intenzione di farlo. –

– Tu non ci vai, cazzo, non ci puoi andare. –

Ridacchia.

– Keiji, no, non ci vado. Te lo prometto, non ci... –

Gli prendo una delle mani con le mie, la porto sulla mia schiena e l'abbasso, me la appoggio direttamente sul culo.

Inizia a fregarmene poco e niente degli uomini, davvero, inizia ad importarmi solo ed unicamente che...

La forza della mia sindrome dell'abbandono è davvero inarrestabile, cazzo. Un secondo fa ero distrutto e disperato all'idea di dover mettere su uno show per persone che mi trattano come se fossi un giocattolo, e ora eccomi, accaldato e geloso, a schiaffarmi le mani di Kōtarō sul culo perché è mio, me ne frega un cazzo di chi mi vede, lui è mio e basta.

– Keiji, un attimo, un... –

Slaccio la mia camicia fino all'ultimo bottone, me la faccio scivolare via dalle spalle.

– Sei sicuro di quello che stai facendo? – riprova, ma non reagisco.

No che non sono sicuro.

È quello il problema.

Che sono insicuro e che...

– Tu non hai provato la stessa cosa quando hanno parlato di me, Kōtarō? Non provi la stessa cosa quando mi guardano e mi sbavano addosso? –

Punto giusto?

A giudicare dal modo in cui gli si contrae la mascella sì, punto giusto.

Passo il pollice sul suo labbro inferiore e mi avvicino tanto da poterlo baciare, senza effettivamente farlo davvero.

– Pensa, venti persone stanno pensando di farmi le stesse identiche cose che vuoi farmi tu. Io sono nelle loro teste a fare esattamente quello che faccio nella tua, Kōtarō. –

Si guarda attorno con un modo di fare quasi minaccioso.

– Tu non hai nemmeno un'idea di cosa tu faccia nella mia testa. –

– Oh, e perché non me lo fai vedere, allora? –

Abbassa drasticamente il tono della voce.

Non ci sentivano prima, ne sono quasi sicuro, ma in ogni caso non ci sentono adesso, non sentono lui.

– Perché siamo in pubblico e certe cose, in pubblico, non posso proprio fartele. –

– Non ti piace un po' di esibizionismo? –

Sorride contro la mia guancia.

– Non ho bisogno di esibire niente, Keiji. –

Mi bacia lo zigomo, mi stringe il culo con più cognizione di causa, inspira il mio odore.

– E tu sei certamente uno spettacolo che voglio vedere in privato. –

Giro il capo e ci baciamo un'altra volta.

Di nuovo caldo e passionale, un'altra ondata di completo calore che quasi mi travolge, di nuovo lingua che s'intreccia con la lingua, mani dappertutto, bacini che strofinano l'uno contro l'altro e mani nei capelli.

Decisamente erotico.

In ogni caso nel limite delle mie premesse.

Se ci staccassimo gli direi "grazie".

Continuiamo a baciarci così intensamente che mi passa di mente, l'eccitazione mi scorre nelle vene al punto che mi passa di mente, ma glielo dovrei, credo che glielo dirò dopo.

Grazie di essere un punto fermo.

Grazie di non esserti fatto prendere dalla situazione.

Grazie di essere qui.

Tu non hai idea, Bokuto Kōtarō, quanto tu sia diventato importante per me.

Continuiamo a baciarci per quelle che sembrano ore, ma che Kenma all'auricolare ci dice essere quaranta minuti col tono stanco e completamente svogliato.

Dice di aver spento l'audio perché gli facevamo schifo.

So che non l'ha fatto, perché qualsiasi cosa fosse successa sarebbe intervenuto immediatamente, ma credo di dovergli delle scuse per la sdolcinatezza e per le cose sporche, in effetti.

Ho le cosce che fanno male e le labbra gonfie, immagino, ho caldo ovunque e i miei pantaloni non sono esattamente larghi attorno a me, ma tiro un sospiro quando le persone iniziano a defluire e pare arrivarci addosso una parvenza di pausa.

So che qualcuno ha fatto qualcosa, qui dentro.

Lo so dal modo in cui Bokuto ha iniziato a tenermi la faccia verso la fine del nostro spettacolino.

Mi ha tenuto fermo immobile, non delicato ma saldo, come a impedirmi in ogni caso di girare la testa.

Credo di sapere che cosa possa essere successo.

Ma sono grato a Kōtarō per avermi impedito di vederlo.

Dovrò chiedergli se vuole parlarne, come l'ha fatto sentire, se gli va di confidarsi con me, quando saremo a casa, perché se lo merita, e perché non voglio dare per scontato che lui non si senta a disagio in queste situazioni.

Ora come ora, però, sono solo tremendamente felice che mi abbia protetto.

Sono steso sul divano, la faccia sulle sue cosce, guardo il soffitto cercando di riprendere fiato.

Ho il bottone dei jeans slacciato, le mutande sono rimaste là, e sto platealmente cercando di calmarmi.

– Stanco? –

Mi rilasso contro la sua mano sul mio viso.

– Per niente. Sono frustrato, che è diverso. –

– Oh, davvero? –

Mi pizzica la punta del naso, annuisco.

– Quando arriviamo a casa devi riparare a questa cosa o credo che potrei morire. –

– Non preoccuparti. –

– Non lo faccio. –

Sento il canale aprirsi sul mio orecchio e il sospiro di Kenma è plateale, stanco e sfinito.

– Voi due siete due cazzo di adolescenti. Davvero, due adolescenti. Ce la fate a non parlare di sesso per più di due minuti? –

– E di cosa dovremmo parlare? –

– Magari del fatto che state cercando un serial killer, per dire. Oppure del fatto che non hanno ancora spento il cellulare di Keiji. –

– Non è spento? –

Kōtarō mi guarda strano, io guardo strano lui.

– No. Ho triangolato il segnale e rimane fermo dove siete, ma c'è. Non è spento. –

– Strano. – commento.

– Strano. – conviene Kōtarō.

– Potrebbero essersene dimenticati? –

Alzo un braccio per colpire la faccia di Kō con un dito, lo prende prima che possa ritrarlo e mi sorride.

– Potrebbe essere una coincidenza, sì. Ma penso sia più saggio evitare di credere alle coincidenze, ora come ora. –

– C'entra col cliente speciale. –

Storce il naso, mi guarda negli occhi.

– Forse anche agli altri è successo. Tu che dici, micetto? –

Kenma mugugna un "vaffanculo" nell'auricolare e mi metto a ridere al suono della sua voce.

Non possiamo dire il suo nome e non sembra che stia parlando con qualcun altro, se gli si rivolge così. Fa ugualmente ridere, in ogni caso, perché posso ben immaginarmi cosa Kenma stia pensando.

– I tabulati registrano messaggi sporadici nei cinque giorni successivi al rapimento, messo che li abbiano rapiti proprio di martedì. –

– Quando è iniziata? –

Sentiamo persone chiacchierare più forte fuori dalla stanza, ma nessuno ancora supera il cornicione della porta.

– L'ultimo messaggio risulta alle nove e quarantacinque, ad un amico. È la stessa ora in cui hanno spento il cellulare di Bokuto. –

– Quindi supponiamo che abbia perso il cellulare verso quell'ora, come me. –

– Gliel'hanno preso. –

– Non posso entrare troppo nello specifico, non so chi senta. –

Kenma sbuffa, Kō mi sorride, si china per baciarmi e lo fa, con conseguente "smettete di saltarvi addosso come due cani, cazzo, siete adulti".

– Ha ricominciato a mandare messaggi strani la mattina dopo. Ma dal modo in cui si è attaccato alle celle telefoniche ha riscritto dall'altra parte della città. Non so il percorso, ma quel cellulare non era più dove siete adesso. –

– Mmh. –

Kō si stende sullo schienale della sedia, incastra una mano verso il mio collo, muove i polpastrelli sull'osso della clavicola con calma, come se mi stesse coccolando nonostante il luogo e l'occasione per cui siamo qui.

– Sai com'è fatto il posto? –

– La planimetria? –

– Sì. –

Tasti, tasti, tasti. Quasi rilassante, il rumore ticchettante che arriva alle mie orecchie.

– Oh, c'è una cosa strana. –

– Una cosa strana? –

– Una cosa... –

Kōtarō mi bacia prima che possa rispondere.

Mi bacia perché...

Kenma smette di parlare, borbotta un "ancora" davvero stufato ma Kōtarō non si stacca, nemmeno quando spingo le mani sulle sue spalle per farlo.

Che cosa...

– Hey, con calma voi due! –

Si stacca di botto.

Mi giro col fiatone e capisco.

È entrato qualcuno. Era entrato qualcuno e sarebbe stato decisamente, decisamente più sospetto se mi avesse messo la mano in faccia per farmi star zitto. Se mi avesse verbalmente avvertito poi, non ne parliamo.

Gli stringo la mano per ringraziarlo.

La stringe indietro per rispondermi che ha capito.

Mi tiro su con calma dal suo grembo e spiaccico lo sguardo sull'uomo dentro la stanza.

Vestito di nero.

Alto.

Porta un paio di guanti.

Non so chi sia, ma ha la stessa divisa di ogni altro organizzatore visto stasera.

– Immagino che sia tu il ragazzo con gli occhi azzurri, no? –

Lo fisso senza timore.

– Che dice? –

– In effetti. –

Percorre un paio di passi nella stanza, prende una delle sedie e la squadra per vedere se è... pulita, immagino. Decide che lo è, se la trascina dietro e si siede di fronte a noi.

– Sono qui per portarti di là. –

– Di là dove? –

– Al piano di sotto. –

Non ricordo di aver visto scale per un piano interrato.

Forse sono nascoste, forse semplicemente da un'altra parte.

Schiaccio la mia schiena contro il braccio di Kōtarō.

– Per fare cosa? –

– Lo sai per fare cosa, ragazzino. –

– No, non lo so. –

Sospira, mi fissa, fa spallucce.

Non è gentile, ma è meno scortese degli altri, quelli che c'erano all'ingresso. È voluto che sia meno intimidatorio? Forse serve a non far lamentare le persone, forse serve a...

– È uno ricco, paga bene. È un pezzo grosso in città, non posso dirti altro, ma è sposato, con figli, necessita della massima riservatezza. –

– Vogliono che ci faccia sesso? –

– Se gli piaci, sì. –

Kō mi stringe le spalle, ma non dice nulla.

– In che senso "se gli piaci"? Non mi avete scelto apposta? –

– Beh, un paio li ha rimandati indietro. Ultimamente gli vanno tutti bene ma non è sempre stato così. –

– E perché io dovrei andar bene? –

L'uomo mi fissa e sorride.

Non ha un bel sorriso.

È storto.

E se sulla faccia di Kuroo Tetsurō il sorriso storto sta come la granella di nocciole sui dolci alla crema, su quest'uomo stona, perché sembra infido.

– Sei bello, ragazzino, non fare il finto tonto con me. Sei così bello che ti darei una botta pure io, e ti assicuro che mi piacciono le donne. –

– Brutto figlio di... –

– Kō, calmati. –

Gli stringo forte forte la mano.

È scattato in avanti.

Se lo prende lo uccide a mani nude.

Non possiamo, non possiamo proprio.

L'uomo, che al minimo accenno di movimento era già indietreggiato sulla sedia, quando lo vede fermarsi alza le mani in segno di resa, ridacchia.

– Sta' calmo, su, non prenderla sul personale. –

Bokuto stringe la mascella.

– È personale se stai parlando del mio... –

– Non intendevo offenderlo, era un complimento, per la miseria. –

– Bel complimento di merda. –

Stringo ancora le sue dita e i suoi muscoli si sciolgono, torna rilassato, ma decisamente in guardia e con gli occhi puntati sul viscido di fronte a me.

– Allora, dov'eravamo rimasti? Al fatto che sei... ah, sì, ecco. –

Indica me e Kō.

– Vuole questa dinamica qui. Non so come funzioni per voi gay ma da quanto ho capito, uno sta sopra e uno sta sotto. Il ragazzone non va bene, perché credo che stia... sopra. Sta sopra, vero? –

Bokuto non risponde.

Il tipo ride.

– Immagino di sì. –

Sposta il discorso su di me.

– Quindi servi tu. Lui vuole i gay che fanno le donne, come te. E li vuole belli, giovani e disposti a prendere qualche colpo. –

Spalanco gli occhi.

– Qualche colpo? –

– Sì, qualche schiaffo, qualche morso, quella roba lì. Niente di che, niente che non avrai già fatto di scuro. –

Stringo entrambe le mani su quella di Bokuto.

– Per quanti soldi? –

– La stessa cifra che vi hanno offerto stasera. Per tre. –

– Per tre? –

– Esatto. –

Fisso il tappeto e chiudo la bocca.

Parliamo di un sacco di soldi. Davvero un sacco di soldi. Una persona che può permettersi tutti quei soldi è più di un "pezzo grosso", è una persona davvero ricca e...

Torniamo al punto di prima.

Mi dimentico sempre un dettaglio.

I morti non li paghi.

Non li puoi...

– Allora, ci stai? –

Se ci sto?

No, non ci sto. Non posso starci e non dovrei, ma...

– Vorrei sapere esattamente che cosa mi faranno là sotto. Hai detto "sesso" e "qualche colpo" e "se gli piaci", credo di avere un'idea generale, ma vorrei sapere tutto per bene. E anche come avete intenzione di pagarmi. –

– Dio, quanto parli. –

– Se no prendo e me ne vado. –

– Ok, ok, aspetta. –

Ha un filo attorcigliato dietro l'orecchio, da bodyguard, preme sull'auricolare, dice "datemi ancora un minuto", poi torna a guardare me.

– Allora, ragazzino. Io ti porto di sotto, il nostro cliente ti ispeziona. Se gli piaci ti tiene un paio d'ore, diciamo fra le due e mezza e le tre, fate sesso. Per qualche colpo intendo che ha la fama di essere un po' aggressivo, ma niente di osceno, te lo giuro. Poi ti diamo i soldi in contanti, riprendi il tuo telefono e ti mandiamo a casa col tuo fidanzato grande e grosso che non sembra condividere nemmeno una parola di quello che abbiamo detto. –

– Quindi il cliente è sotto? –

Sbatte le palpebre.

– Dove credi che possa essere? –

– Giurami che è sotto. –

Sembra costernato, ma...

– Ti giuro che è sotto. Dio, ma cosa prende a voi ragazzini di oggi? –

Mi tiro su.

– Lasciami due minuti col mio ragazzo da solo e arrivo. –

– Scendi? –

– Sì, devo solo dirgli una cosa in privato. –

Si alza dalla sedia, sorride di nuovo e fa per uscire.

– Fa' in fretta. –

– Arrivo subito. –

Esce ma non chiude la porta, rimane lì, e io mi ritrovo col cuore in gola a guardare Bokuto, mi viene da sorridere ma...

– Keiji ma che cazzo dici? –

È preoccupato.

Preoccupatissimo.

Sarà geloso?

Oh, Kōtarō, non fare così.

Questa è un'ottima notizia.

Un'ottima, fantastica...

– Vado con lui. È perfetto, Kō. Se vado con lui posso sapere chi è il cliente e sono sicuro che c'entri qualcosa in questa faccenda. Appena capisco chi sia scappo e faccio rapporto, così lo catturiamo. –

– E se ti ammazza? –

Mi guardo attorno, abbasso il tono della voce ancora.

– Non è nel modus operandi, non lo farà prima di venerdì. –

– E se ti rapisce? –

– Ho il GPS nei vestiti. –

Stringe le sopracciglia.

– No, è pericoloso. Compromette l'operazione metterti in pericolo, e non possiamo rischiare. –

– È per salvare delle vite, Kōtarō! –

Stringe la mascella.

– È comunque un no. –

– Non ti ho chiesto il permesso. –

Indietreggia come se gli avessi tirato un ceffone.

Forse sono stato un po' brusco, forse non dovevo...

Non importa.

In questa situazione non importa.

Quello che importa è che devo sapere chi è che uccide i ragazzi della mia comunità, non gestire le emozioni personali, e il fatto che Kōtarō non lo capisca è un argomento che non ho il tempo di affrontare.

Infilo le dita nel mio orecchio e tiro fuori l'auricolare controllando che il movimento sia discreto, lo infilo nella tasca dei pantaloni di Kōtarō.

Non posso tenerlo.

È un'ispezione, rischio di farmi scoprire.

– Keiji, non devi andare. È troppo rischioso. Stai facendo una stronzata. –

– Io so come fare il mio lavoro. –

– Non mi sembra. –

Sposto lo sguardo su di lui.

– Mi insulti perché sei geloso? –

Questa non dovevo dirla. Capisco che questa non dovevo dirla l'istante esatto in cui fissa gli occhi sui miei e perde la patina di gentilezza che li permea di solito.

È che non capisce.

Come potrebbe?

Il mio lavoro è la mia vita ed è vero che lui mi piace tanto ma non comprometterei...

– Io non sono geloso, Keiji. Cioè, lo sono, ma non in questa situazione. Non permetterti di dire che lascio che le mie emozioni personali compromettano la mia professionalità. Quello sei tu. –

– Io non sto permettendo alle mie emozioni personali di compromettere... –

– È esattamente quello che stai facendo. Stai mettendo l'operazione in pericolo per un rischio che non dovresti correre. –

Stringo la mascella.

Sono offeso.

Offesissimo.

Come si permette?

Non deve...

Non ha ragione, no, non ce l'ha.

La mia rabbia non è personale.

Sto facendo la cosa giusta, so di star facendo la cosa giusta, non voglio sentire lamentele inutili sul mio lavoro perché io so che quella che sto facendo è la cosa giusta.

– Dovrei aspettare che ne ammazzi un altro, allora? –

– Dovresti evitare che il cadavere sulla strada che ritroveremo questo weekend sia il tuo. –

– Allora, quanto hai? –

Mi giro verso l'uomo all'ingresso.

– Devo andare, Kōtarō, finiamo questa discussione più tardi. –

– Non devi... –

– Il caso è mio. Io prendo le decisioni, impara a stare al tuo posto. –

Mi fissa con gli occhi tristi, preoccupati, delusi.

Mi spezza il cuore.

Io...

Non voglio litigare con te.

Vorrei che fossimo a casa, vorrei che fossimo soli, vorrei...

Io devo salvare quelle persone, Kō, lo capisci? Tu dici che è una cosa personale ma non lo è, non lo è davvero, io...

Capirai, dopo.

Quando salverò tutti lo capirai.

Te lo prometto.

Capirai e tornerai ad essere il Kō sorridente e gioioso che è fiero di me.

– È nostro. Il caso è nostro. –

Mi sporgo per baciargli una guancia.

– No, d'ufficio il caso è mio. –

Mi stacco da lui, non lo guardo quando cammino verso la porta ed esco, col cuore in subbuglio e lo stomaco che s'intreccia su se stesso.

Non volevo... essere aggressivo. Non volevo accusarlo di non essere professionale, non volevo ferirlo, non volevo fare il pezzo di merda.

Volevo...

Fare qualcosa per gli altri.

Forse sono troppo orgoglioso per te.

Forse mi odierai, adesso.

Ma se salvo quelle vite anche il tuo odio sarà approvazione, lo so.

Devo solo dimostrarti che valgo.

Anche se mi remi contro.

Capirai poi.

Capirai.

Lo spero.

Il tipo che mi aspetta fuori sorride, quando arrivo, e comincia a camminare senza fermarsi verso il centro della sala non appena gli arrivo vicino.

Sa dove andare.

È sicuro, efficiente.

Il sangue mi ribolle nelle vene.

L'hanno fatta anche loro questa strada? Li avete ammazzati dopo avergli fatto questo? Cazzo, se non sarò io ad ammazzare voi. Se non sarò io a mettervi dietro le sbarre e a guardarvi marcire per il resto delle vostre vite di merda.

"Pezzo grosso".

Quale schifoso represso organizza qualcosa del genere per poter nascondere a se stesso e agli altri che gli piace quel che piace a me?

Io avrò giustizia per voi.

La avrò.

La avrò perché siete come me, perché...

– Il tuo ragazzo non era d'accordo? –

– È un po' geloso. –

– Forse tiene soltanto a te. –

– Forse semplicemente non può capire. –

L'uomo alza le spalle, gira a destra sul salone ma non si ferma, lo supera con me a fianco.

– Non state assieme da tanto, vero? –

– No, non tanto. –

– Forse non siete fatti per stare insieme. –

Lo guardo male, davvero male.

Ok, abbiamo discusso.

E allora?

Come cazzo ti permetti di...

– Io e Kō siamo fatti per stare assieme. –

– Sei sicuro? –

– Certo che sono sicuro, cazzo. –

Sospira.

– Allora forse è il caso che ti gli chieda scusa, non credi? Sembrava che lo stessi ammazzando, prima, da come ti guardava. –

– Non ci è rimasto così male. –

Ridacchia verso di me.

– Certo che tu quando vuoi fare qualcosa sei completamente cieco, eh? L'hai fatto piangere. –

– Ha pianto? –

Il mio petto fa crack.

Davvero.

Mi sembra che una crepa scenda sullo sterno e lo apra, che le costole si spezzino, che il cuore avvizzisca.

Che cosa ho fatto?

Che cosa...

Non me n'ero accorto.

Ho davvero ignorato così tanto qualsiasi cosa stesse facendo perché ero fisso nella mia idea?

Non l'ho visto piangere.

Ma in faccia, per davvero, l'ho guardato?

Non me lo ricordo.

Non ricordarmelo risponde alla mia domanda.

Merda, merda, merdissima.

No che non capirà.

Non c'è niente da capire.

Aveva...

– Ma se è troppo debole per affrontare il fatto che nella vita uno non fa sempre quello che vuole ma quello che deve, allora non credo meriti attenzione. Di qua, ragazzino. –

Non faccio in tempo a rispondere che mi afferra il polso con forza, apre una porta a scomparsa sulla parere inferiore del salone e mi trascina sulle scale.

Aveva ragione.

Mi sono completamente illuso.

Mi sono completamente fatto prendere dall'idea di trovarlo che mi sono dimenticato di cosa sia successo, perché, come, del fatto che sono disarmato e del fatto che...

Cosa doveva dirmi Kenma?

Che c'è un piano interrato? Che c'è qualcosa che non risulta nella planimetria?

Il mio cellulare è acceso, gli altri no.

Merda, mi sono sepolto con le mie mani.

E peggio di questo, ho ferito gratuitamente Bokuto dandogli del geloso quando sono io, quello geloso e immaturo che reagisce d'istinto.

Che cosa ho fatto?

No che non devo dimostrare quanto valgo.

Non a lui.

Non me l'ha mai chiesto.

Non me l'ha mai...

Arrivo al fondo delle scale col cuore in gola e le lacrime agli occhi, l'uomo mi tiene il polso tanto forte da farmi male, non riesco a respirare bene, sono terrorizzato.

– Per di qua. –

– A... arrivo. –

Cammino.

Quando mi trascina, cammino.

Devo stare al gioco, è il modo migliore, il modo migliore per rimanere vivo finchè...

Ma Bokuto ci viene a salvarmi?

Io non lo so.

L'avrei saputo un'ora fa.

Ma dopo le cose che gli ho detto, dopo tutta la cattiveria che gli ho buttato addosso, perché dovrebbe? Alla fine, forse, queste cose me le merito pure. Me le faccio da solo come me le sono fatte per tutta la vita.

Ho rovinato il rapporto con mia madre, ho allontanato le persone che mi volevano bene, mi sono nascosto da tutto e da tutti.

Perché mi sono illuso che con te sarebbe stato diverso?

Avrei dovuto sapere che io lo trovo sempre, un modo per distruggere tutto.

Me l'ero dimenticato.

Ora me lo ricordo.

– Su, entra. –

Vedo una porta aperta di fronte a me, ma non riesco a muovermi.

– Ti ho detto di entrare. –

Mi tremano le ginocchia, mi tremano forte e...

Mi spinge.

Entro reggendomi al cornicione per evitare di cadere.

– Vai, cazzo! –

Mi costringo a muovere un paio di passi.

Mi ritrovo in una stanza di medie dimensioni, completamente al buio, con una luce puntata in faccia e il terrore che monta fin nelle ossa.

Ci sono delle persone ma...

La luce mi acceca.

Non le vedo.

Non le distinguo.

Io...

– C'è voluto un po' ma ce l'ho fatta. Eccolo, capo, è lui. Ha fatto un po' il prezioso. –

Il tono di voce è completamente diverso. Era... gentile per finta.

Mi si avvicina.

– Dice che va bene? Le piace? –

– Fammelo vedere meglio. –

La voce è familiare.

La voce che risponde all'uomo è familiare.

Non familiare nel senso che la ricollego ad una faccia che conosco, non è di un amico, un collega, o qualcosa del genere. Ma... ha un'inflessione dialettale diversa dal quella di Tokyo e l'ho già sentita. Io, almeno una volta nella vita, questa voce l'ho già sentita.

– Chi siete? – mi azzardo a chiedere.

Mi risponde una risata.

– Datori di lavoro. –

– All'incirca. –

Vedo bene o male delle gambe.

Ci sono cinque o sei persone, qui dentro, ma parlano in due. L'uomo che mi ha portato qui e il suo capo, come lo chiama.

– Ha una bella voce. Quanto è alto? –

L'uomo di prima mi si avvicina.

– Quanto sei alto? –

Esito.

Mi stringe la base del collo come a volermi strozzare.

– Ti ho chiesto quanto cazzo sei alto. –

– Un me... un metro e settantanove. –

– Troppo? –

– No, va ancora bene. –

Mi tremano le mani, mi tremano le gambe.

Non voglio morire, non voglio, non voglio, non voglio.

– Perché ha i segni sul collo? –

– Era qui col fidanzato. –

– Erano i due dello spettacolino nella saletta? Mi hanno detto che c'era qualcosa del genere, fossi arrivato prima sarei venuto a dare un'occhiata. Com'era? –

L'uomo sospira.

– Ti dico solo che ad una certa mi sembrava ci fosse meno gente in salone che da loro. –

– Avete anche il fidanzato? –

– È di sopra. –

– Com'è? –

Com'è?

Probabilmente triste.

Probabilmente triste e offeso, con tutte le ragioni del mondo, lontano da me. Non vorrà più saperne di me, ora. Spero che venga al mio funerale, quei pochi momenti che ho avuto con lui sono la cosa più vicina all'amore che abbia mai provato, sono...

– Sarà due metri ed è grosso tre volte me, non è il suo tipo, capo. –

– Dio, no. –

– Già. –

Sento qualcosa cigolare.

È una sedia?

Una sedia girevole, una cosa del genere?

– Aprigli gli occhi per bene. Sono azzurri, vero? –

L'uomo mi prende dalla faccia.

Sento le sue mani appoggiarsi sulla mia fronte e sulla mia guancia, apre per bene le mie palpebre, così tanto che la luce mi fa lacrimare gli occhi già sull'orlo di strabordare.

– Azzurro cielo. –

– No, direi più azzurro ghiaccio. –

Mi lascia andare che ormai bruciano così tanto che persino tenerli aperti è uno sforzo.

– Come si chiama? –

– Keiji. –

La sedia cigola di nuovo.

Più a lungo.

Si sta alzando?

Si sta...

– È il più bello che mi avete portato, davvero. Non so da dove sia uscito ma complimenti, è tanto incredibile che sembra finto. –

Mi si raggela il sangue.

– Mi piace. È decisamente di mio gusto. Ultimamente si stanno superando. –

Non mi sembra nemmeno che il mio cuore sia ancora in grado di battere.

Si dev'essere fermato.

Io...

– Lo voglio. –

Sento distintamente un passo e prima che arrivi il successivo, prima che la matassa informe di ombre che ho davanti prenda una forma, qualcosa sibila.

E quel qualcosa è l'auricolare dell'uomo.

Che s'irrigidisce contro di me e guarda il suo capo.

– È entrata la polizia. –

La...

Si rivolge alle altre persone nella stanza.

– Capo, deve andarsene. Cosa faccio col ragazzino? –

Inizia ad esserci casino. Inizio a sentire gente che si muove, voci, passi, il rumore della sicura di una pisola, mani sul muro, poi il ruotare di una maniglia, una porta che si apre.

C'è una porta?

C'è una porta qui?

Stanno scappando?

– Legalo, spoglialo, portalo via. Lo voglio. Se ho detto che lo voglio lo voglio. –

– E se mi beccano? –

– Nessuno sa che c'è il piano interrato, avremo più di un'occasione per scappare. –

Qualcuno bisbiglia, qualcuno muove del tessuto o i vestiti e le voci si fanno distanti, i passi riecheggiano come se rimbombassero, la voce del capo scompare, stanno andando via nel cunicolo, stanno scappando.

Io...

Dovrei lottare.

Siamo in due, se siamo in due posso farcela, sono addestrato.

Non faccio in tempo a far reagire il cervello che mi sento prendere le mani e spingere in avanti, sul muro.

Liberati, liberati, libe...

Sento qualcosa pungermi la schiena.

So che cos'è quando rimuove la sicura.

– Fai un movimento che non devi e sei morto, ragazzino. –

– Che cosa sta succedendo? –

– Ora farai esattamente quello che ti dico come te lo dico, intesi? –

Aguzzo l'udito per cercare altri rumori.

I passi nel cunicolo stanno scomparendo.

Fuori dalla porta non mi sembra che ci sia nessuno.

Devo...

– Metti le mani dietro la schiena, da bravo. –

Le tiro su anche se tremano, le appoggio sul retro della mia schiena, avvicino i polsi.

Lo sento indietreggiare e penso di avere un'occasione, ma quando mi giro vedo la pistola verso di me e torno immobile, terrorizzato, fermo.

Rovista in una borsa, credo.

Tira fuori una fascetta da elettricista.

Mi si avvicina di nuovo e me la lega attorno ai polsi.

– Il tuo ragazzo aveva ragione, non dovevi venire. Te l'hanno mai detto che sei stupido, Keiji? Sei davvero stupido. Come tutti gli altri froci che sono passati qui prima di te. Come cazzo si fa a credere ad una storia come quella? Come se qualche persona onesta volesse avere a che fare con voi. –

Sento le lacrime scendermi sulle guance.

Ma non parlo, non parlo.

– Ora ti girerò e ti toglierò i pantaloni e tu non farai resistenza, ok? Tirami un calcio e ti sparo in bocca. –

Mi mordo l'interno di una guancia.

– Hai capito? –

– Ho... ho capito. –

I pantaloni no.

Ho il cellulare di riserva nei pantaloni.

Il GPS è lì, se li lascio qua mi perderanno e io sarò...

Mi spiaccica con le spalle al muro.

Quando mette le mani sul bottone dei miei jeans lo guardo negli occhi e lui guarda negli occhi me.

Come si fa?

Come si fa a non provare nemmeno il minimo grammo di empatia?

Cosa sono, per te, un animale?

Una bestia da trattare come preferisci?

Sono terrorizzato, cazzo.

Ho ventisei anni, una vita davanti, delle scelte, delle passioni, degli amici.

Come fai a guardarmi negli occhi e a non pensare che quello che stai facendo sia sbagliato?

È perché sono gay?

O perché tu fai schifo?

È davvero vero che me lo merito?

O lo è piuttosto che nessuno meriterebbe questo, a prescindere da quanto diverso dal canone possa essere?

Io sono una brutta persona.

Ma tu, tu lo sei molto di più.

Ridacchia e china lo sguardo.

– Lo sai? Chiederò al capo di avere un giro anch'io, sai, come pagamento. Lo dicevo sul serio, prima, sei così bello che ti darei una botta volentieri. –

Mi mordo il labbro.

– Non sono frocio, davvero. È che tu hai... –

Sgancia il bottone.

Sta per tirare giù i pantaloni.

– Hai quel non so che di... –

Mordo così forte che esce il sangue.

Resisti, resisti un minuto, un minuto solo, Keiji, resisti.

Tu puoi...

No.

Non è vero.

Tu non puoi.

Non hai mai potuto.

Non hai mai potuto farci niente, né su questo né su nient'altro. Tu sei così freddo e calcolatore perché pensi che prima o poi la vita possa cadere nei tuoi schemi e speri come un disperato che qualcosa vada secondo i tuoi piani anche solo per dimostrarti di avere un briciolo di controllo su quello che le persone ti fanno.

Ma la verità è un'altra.

La verità è che tu non hai controllo su niente.

Che pensi di essere forte e indipendente ma in realtà ti stai solo difendendo.

La realtà, Akaashi Keiji, è che forse non hai nemmeno la colpa di quello che ti succede.

La realtà è che ti dai la colpa perché se ce l'hai tu, almeno hai un colpevole con cui prendertela.

Ma la realtà è anche che, tu non ce l'hai.

Tu non hai mai scelto niente.

E quelle rare volte che l'hai fatto, l'hai fatto male.

L'hai fatto...

– Keiji, sta giù! –

Non ho mai scelto niente.

Non so se lo faccio ora.

Non so se lo faccia il mio corpo o il mio cervello.

Ma le mie cosce si piegano, la mia testa si abbassa e quando sento il suono di uno sparo, il proiettile non è nel mio corpo ma sulla testa dell'uomo sopra di me, chino sul mio corpo, con le mani ancora attaccate ai passanti dei miei jeans.

Non ho mai scelto niente.

Scoppio a piangere.

Ho il sangue addosso, ho freddo, fa freddo, sto gelando, tremo.

Tiro su con il naso e cerco di tirarmi sulle ginocchia ma non ce la faccio, cedono, sono stanco, voglio, io voglio...

Mi sento tirare su dalla vita.

Mi stringo verso la fonte di calore.

– È tutto finito, Keiji. È tutto finito. Ci sono, è tutto finito. –

Appoggio la faccia contro la sua spalla, continuo a piangere.

– Mi spiace, Kōtarō, mi spiace, non volevo, io... –

Mi muove una mano fra le scapole.

– È tutto finito. –

Non ho mai scelto niente.

Nella mia vita, io non ho mai scelto niente.

Credo però, che se domani il cielo mi chiedesse di scegliere per la prima volta qualcosa, saprei cosa rispondere.

Non ho mai scelto niente.

Però, Bokuto Kōtarō, io credo che potessi, sceglierei te.

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

okokokokokok allora premesso che sono di fretta perchè sto andando ad eurovision e che devo correre volevo solo dirvi che

LE DINAMICHE DELLA FINE SONO UN PO' STRANE nel senso che non si capisce bene che cosa stia succedendo (più che altro per come) ma che ve le spiego nel prossimo non disperate

era ovvio che kou avrebbe salvato keiji ma spero di avervi messo almeno un po' di ansia (scusatemi lol)

nel prossimo vi spiego come l'ha salvato pardon ma sono due scene diverse andavano divise

niente

ci sentiamo prossimamente con la kiribaku

spero che vi sia piaciuto!!!

bye babies,

mel :D

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro