22
-E questo dove cazzo era?- sbottò Paige, rigurandosi tra le mani un'agenda dalla copertina di finta pelle blu, disperandosi perché non ricordava più da dove l'aveva tirata fuori.
Sophie, seduta sul pavimento tra Rocky e Adriana, tra scatole e altri oggetti non meglio identificati, ancora in pigiama, si strinse nelle spalle e sbadigliò senza coprirsi la bocca, per poi strofinarsi gli occhi con una mano.
-Ti vuoi rendere utile?!- la rimbeccò la sorella continuando a parlarle in modo adirato, ma tentando di non alzare troppo il volume della propria voce.
Evan era andato al lavoro presto, quella mattina, e Keith, che era rincasato in piena notte, invece dormiva ancora. Paige si era svegliata sia all'arrivo del secondo, sia quando il primo era uscito e ne aveva approfittato per restare all'erta e cercare di approfittare del momento giusto. Si era assicurata che Keith si fosse addormentato profondamente e aveva iniziato a frugare in giro per casa, obbligando la sorella a seguirla.
Fino a quel momento, tuttavia, non aveva trovato assolutamente nulla degno di nota.
Erano ormai trascorsi tre giorni da quando si trovavano sotto lo stesso tetto di suo padre e tanto era bastato perché incominciasse a percepire Sophie sempre più insofferente.
Paige la spiò anche in quell'istante – così come aveva fatto nei giorni precedenti – prendendosi una pausa dal proprio frugare in giro.
Sophie appariva assonnata e scapigliata. Indossava una camicia da notte per bambine, di colore rosa, tempestata di stampe di arcobaleni e nuvole bianche. Tutto ciò, accostato ai suoi capelli rossi, la faceva sembrare un cupcake. La sua espressione era serena e stava giocando con i cani, quest'ultimi intenti a bearsi delle sue coccole con la pigra rassegnazione di due pronti ad acconsentire ogni sua richiesta.
Sophie si stava abituando troppo velocemente a quella vita, all'avere una casa, dei cani, ad avere due persone che si prendevano cura di lei, che le compravano cose, le rimboccavano le coperte e le assicuravano addirittura tre pasti al giorno – più eventuali spuntini.
Avevano cenato sempre fuori casa mentre il pranzo era stato spesso appannaggio di Evan. La colazione era solito comprarla Keith. Erano state al centro commerciale con Evan e, nonostante tutte le sue rispostacce e gli innumerevoli tentativi che Paige aveva messo in piedi per rovinare il momento, suo padre non si era fatto demoralizzare e aveva ordinato un letto a castello di colore viola, degli occhiali nuovi per lei e aveva persino acquisto a entrambe scarpe e vestiti. Più la bambola dalla faccia orribile che Sophie stringeva tra le mani, facendola camminare sulla schiena di Rocky.
Evan avrebbe voluto comprare anche un gioco per lei, ma Paige si era rifiutata categoricamente.
"Non va bene" si disse con un pizzico di panico. Non aveva previsto che il suo piano potesse ritorcersi contro di lei pure da quel punto di vista: prima di mettere piede lì dentro, era stata assolutamente certa che nessuno avrebbe mai potuto separare lei e sua sorella. Ma incominciava a temere che fosse una possibilità di cui avrebbe dovuto prendere in considerazione il suo concretizzarsi.
Era spaventata che ciò potesse accadere, ma, d'altronde, era pure vero che non aveva mai visto sua sorella tanto serena, neppure quando la madre era stata in vita, neppure quando lei aveva tentato di difenderla dai pericoli della strada con ogni mezzo a propria disposizione.
-Ragazze?-
Udì la voce di Keith provenire dal corridoio e Paige abbandonò di corsa l'agenda sulla scrivania alla propria destra.
-Ah. Siete qui- disse l'uomo, facendo capolino nella stanza, e sbadigliò sonoramente. I cani scodinzolarono e a andarono incontro al loro padrone, facendogli le feste come se non lo vedessero da anni.
Paige alzò gli occhi al soffitto, annoiata da tutte quelle moine, ma quando li riportò su di lui fece in tempo per vedere sua sorella alzarsi in punta di piedi e baciargli una guancia – aveva persino abbandonato la sua mostruosa bambola sul pavimento per dargli il buongiorno. Keith si era proteso verso di lei per facilitarla e le sorrise in un modo che fu in grado di scaturire nella ragazza ancora quel fastidioso prurito.
-Facciamo colazione, vi va? O volete ancora giocare qui?- chiese l'uomo, indicando con il gesto sommario di una mano lo sgabuzzino in cui si trovavano.
C'erano scaffali su entrambi i lati e una scrivania sommersa di scatoloni, sedie impilate le une sulle altre. Keith non era proprio sicuro che quello fosse il luogo più adeguato per giocare, ma non aveva intenzione di impedire alle bambine di esplorare l'abitazione come meglio credevano. Sperava anzi che, lasciandole libere di muoversi, avrebbero presto iniziato a percepire la casa come più familiare, qualcosa anche di loro.
Sophie gli strinse una mano e rimase a fissarlo dal basso, in attesa che lui decidesse il da farsi anche per lei. Keith annuì e fece strada in direzione della cucina. Paige incrociò le braccia sul petto, guardandoli darle le spalle, lasciandola indietro.
Non aveva alcuna voglia di seguirli.
Ma non aveva neppure voglia di restare da sola nello sgabuzzino – con la bambola mostruosa – lontana da sua sorella, con il rischio che Sophie finisse per distaccarsi ancora di più da lei, dato che, tra il continuare ad aiutarla nelle sue ricerche e seguire uno sconosciuto per farci colazione insieme, aveva optato immediatamente per la seconda opzione, senza battere ciglia.
Sbuffò esasperata, si guardò intorno e tentò di grattarsi tra le scapole, al di sopra della maglia del pigiama che Evan le aveva comprato, infastidita da quell'ormai onnipresente prurito. Poi non riuscì più a resistere e corse fuori di lì.
•
La cucina di casa Coleman-Randolph, così come ogni altro ambiente che caratterizzava l'abitazione, non era molto grande e la maggior parte dello spazio era occupato da un'isola che ospitava un tavolo da colazione, due piani da lavoro e quello cottura. Attorno si trovavano gli altri mobili, posti a ridosso delle pareti, e sotto due ampie finestre c'era il lavabo, già stracolmo di stoviglie sporche. Ma non soltanto lì dato che, un po' dappertutto, erano state disseminate scodelle, posate, mestoli, due padelle, un sacco di farina, gusci di uova rotte e un'altra serie infinita di cose che pareva si stesse preparando un cenone di Natale per un intero esercito, in quella cucina.
Invece no.
In realtà, Keith era alle prese con dei pancakes che proprio non ne volevano sapere di assumere un aspetto commestibile e aveva già rifatto l'impasto due volte, mentre il risultato finale restava invariato, restituendogli delle cose non proprio rotonde, crude al loro interno e nero-carbone all'esterno.
-Ma sai cucinare?- gli domandò Paige, seduta su uno sgabello, intenta a mangiucchiare una merendina con fare annoiato. Keith arrossì e contrasse la mascella.
-Certo- borbottò e tentò di recuperare un mestolo per riprendere a lavorare il terzo impasto che stava preparando. Tuttavia, a causa del profondo disagio che provava in quel momento nel vedersi fallire ancora e ancora davanti agli occhi delle bambine, finì per urtare il manico dell'attrezzo, che scivolò sulla superficie, andando a sbattere contro un'altra ciotola, per poi schizzare come un missile sul piano da lavoro, precipitando infine sul pavimento, sporcando di impasto non solo le mattonelle, ma anche i piedi nudi di Sophie che stava al suo fianco, auto-elettasi sua assistente chef.
Paige seguì tutta la scena, allibita, e alla fine scoppiò in una fragorosa risata, aumentando a dismisura il disagio di Keith che temeva di stare dando di sé uno spettacolo davvero poco lusinghiero.
Sophie si accorse dell'espressione mortificata dell'uomo, che tentò di dissimulare la propria delusione chinandosi per raccogliere il mestolo da terra.
-Ti si sono sporcati i piedi- disse lui, tenendo gli occhi bassi, mentre Paige continuava a ridere.
Sophie gli si fece più vicino e cercò il suo sguardo, piegandosi sulle ginocchia anche lei, e gli sorrise timida. Keith sgranò gli occhi sorpreso e l'altra arrossì, smorzando subito il proprio sorriso.
-Sei un disastro!- esclamò Paige. -Ecco perché compravi la colazione! Non sai cucinare!-
-Evan sì- disse Keith con un sospiro, tornando in posizione eretta, ma Sophie lo trattenne per una manica della maglia che indossava e gli si fece più vicina. Allungò l'altra mano verso i primi disastrosi risultati di pancakes che giacevano su un piatto in mezzo al caos, ne prese uno e lo addentò.
Keith si fece sfuggire un mezzo urlo di terrore – non voleva avvelenarle per sbaglio – ma Sophie si portò un dito a una guancia e tornò a sorridergli. Fu allora che l'uomo percepì gli occhi riempirsi di lacrime di commozione e la gioia per l'apprezzamento della bambina – seppur, con ogni probabilità, del tutto falso – gli scaldò il cuore, permettendogli di ricambiare il suo sorriso.
Anche quella volta Paige assistette a tutta la scena, ma, diversamente dalla prima, quella non la trovò affatto divertente e tornò a percepire un fastidioso prurito tra le scapole. Aggrottò la fronte e si sporse sul bancone per strappare di mano alla sorella il pancake e lo morse anche lei, per poi lanciarlo con sdegno sul piano da lavoro.
-È disgustoso- disse, incrociando le braccia sul petto e assumendo un atteggiamento di sfida.
Keith annuì imbarazzato e abbassò ancora una volta gli occhi sul pavimento.
-Tra poco torna Evan. Lui vi preparerà dei buonissimi pancakes- disse con voce tremula. -Anche se ormai si è fatta ora di pranzo, quasi-
Sophie fece scorrere lo sguardo tra l'uomo e la sorella, pestò un piede a terra infastidita e Paige distolse l'attenzione da lei, sbuffando.
-Sì, andiamo a ripulirci, è meglio- disse Keith, fraintedendo il gesto della bambina, e Paige ridacchiò compiaciuta, mentre Sophie sgranava gli occhi comprendendo di non essere stata capita e si sentì in colpa perché temeva, col suo gesto, di avere ferito Keith. L'uomo la prese per mano e lei lo seguì docile. Prima di uscire dalla stanza, Sophie rivolse uno sguardo severo in direzione della sorella e Paige le rispose con una linguaccia, restando dov'era.
Keith si sentiva come se quell'episodio fosse stato in grado di cancellare ogni sforzo fatto negli ultimi tre giorni. Aprì un'anta dell'armadio che si trovava in camera da letto, con sguardo assente, domandandosi quanto la sua goffaggine, le sue nulle qualità culinarie potessero renderlo agli occhi delle bambine immeritevole di essere il loro papà.
"Se neanche riesci a fargli due pancakes" si disse, recuperando uno dei pigiami che Evan aveva comprato loro. Lo tenne tra le mani per un po', ammirandone la stampa dai tratti infantili che raffigurava un coniglio addormentato.
Quante volte, davanti la vetrina di un negozio per bambini, si era fermato domandandosi se la sua presa di coscienza riguardo la propria omosessualità gli avrebbe precluso la possibilità di diventare padre?
Aveva avuto paura che Evan non nutrisse il suo stesso desiderio, aveva avuto paura di non scoprirsi all'altezza, di non riuscire a essere degno di una gioia di quel tipo. Ne stava stringendo la possibilità tra le mani, eppure si sentiva lo stesso in procinto di perdere tutto – e solo per due stupidi pancakes.
"Non sono solo i pancakes" ammise con se stesso, sospirando mesto, "Tutti quei rifiuti da parte delle famiglie. Loreen. Paige che sembra odiarmi a prescindere. Poi sbaglio e, anche se sono cazzate, è come se stessi remando contro me stesso, come se stessi dando opportunità, a chi pensa che non me lo merito, di avere ragione" pensò e socchiuse gli occhi.
Si sentì tirare di nuovo per una manica e si girò verso Sophie, sorridendole teso.
La bambina si alzò in punta di piedi e lui le andò incontro, credendo di stare per ricevere uno dei suoi dolci bacetti. Tuttavia, Sophie accostò la bocca a un suo orecchio.
-Erano buoni- disse in un sussurro e si scostò subito da lui, diventando color porpora e guardandosi intorno in cerca di una via di fuga, mentre il cuore le schizzava in gola per il panico.
Keith rimase interdetto, domandandosi se avesse davvero udito quelle due parole uscire dalla sua bocca, così sbalordito da credere di stare sognando ad occhi aperti.
-Sophie?- chiese titubante e lei si girò di nuovo verso di lui, portandosi un dito davanti le labbra, gli occhi pieni di lacrime.
Keith sedette sui talloni e poggiò entrambe le mani sulle sue esili spalle, anche se in una teneva ancora il pigiama, ormai appallottolato.
-Ti... ti sono piaciuti davvero, i pancakes?- le domandò con voce sempre più tremante di emozione e l'altra si morse la punta della lingua e annuì. -Facciamo... che questo è il nostro piccolo segreto?- le chiese, portandosi anche lui un dito davanti le labbra.
Sophie lo fissò in tralice e prese a dondolarsi sul posto. Si sentiva carica di una tensione elettrica e non sapeva proprio come scaricarla, tanto che iniziò a percepire i muscoli dolerle per lo sforzo che stava compiendo nel continuare a stare ferma, quando invece avrebbe voluto correre fino a non fermarsi mai più. Deglutì e abbassò gli occhi sul pavimento. Fece un passò avanti e si accoccolò contro di lui, le braccia rigide lungo i fianchi.
-Okay- mormorò e Keith la strinse forte a sé.
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