7 ♣ Samuele
Martina è scesa al Bar e si è piazzata al banco a fissarmi con la scusa di bere un frullato che sembra non finire mai. Io stacco tra mezz'ora e già so cosa vuole. Ma per qualche ragione stavolta non mi va di farmela, sto fuso: un po' la sbronza che non ho ancora smaltito del tutto, un po' l'idea di ieri, di quel maledetto matrimonio, di Cris vestita da sposa che sembrava uscita da un film dell'orrore in cui l'unico a morire sono stato io. Un po' non lo so, forse la fata che mi ha visto piangere.
Alla fine del turno accendo il telefono e mi squilla all'istante. Mi infilo nello stanzino per cambiarmi, tolgo la maglia dello staff e intanto accetto la chiamata, è mia sorella Carola. Aveva smesso di starmi addosso, ma con la storia del matrimonio ha ricominciato. Dire che ieri ce l'ho portata apposta per dimostrarle che Cristina che si sposa non mi fa più nessun effetto. Solo che poi mi sono ubriacato e ho quasi pisciato di sotto.
«Sto bene, sorellina, smetti di tampinarmi, non mi ammazzo», le dico al volo, mentre calzo il collo di una felpa.
«Mi ha chiamato papà, dice che deve parlarti urgentemente», dichiara incolore.
Ecco, dopo che Cristina si è sposata, ci manca una riunione col Boss e ho proprio fatto strike.
Afferro il giaccone. «No, grazie», rispondo lapidario.
«Samo, è urgente. Deve dirti una cosa importante», insiste.
«Tipo?», esco fuori e Martina è lì che mi aspetta sull'uscio.
«Tipo che vieni a casa stasera e te lo dice lui, non posso dirtelo io», risponde Carola.
«Quindi tu sai già di cosa si tratta», e mi avvicino a Martina facendole cenno di uscire.
Ci mettiamo in marcia lungo il viale, devo fumare. Le indico la tasca del mio giaccone, lei ci infila la mano e tira fuori l'accendino mentre ficco tra le labbra che bruciano la Camel, e lei mi fa accendere.
«Samo, è importante davvero, stavolta. Vieni prima che puoi», prende e attacca senza darmi il tempo di rifiutare.
E se papà avesse deciso di vuotare il sacco? Forse una possibilità posso dargliela.
Metto via il telefono e sbuffo fumo.
Martina mi si struscia addosso. «Ti voglio da morire. Che ne dici, andiamo in camera mia?»
«Non posso, devo andare a casa di mio padre.»
Lei abbassa gli occhi. «Ah, okay. Io comunque sto a casa a studiare, se quando torni mi bussi...».
«Va be', a dopo eh», le schiocco un bacio casto sulla bocca e me ne vado dalla parte opposta.
E prendo l'autobus che va verso il centro storico.
Scendo al Colosseo e me la faccio a piedi fino al portone di via Labicana, poi resto fermo, inchiodato a fissare il citofono. So che vederlo finirà di distruggermi ma rimandare servirebbe a prolungare l'agonia. Sono pronto a sentirmelo dire da lui? Ammetterà le sue colpe ora che Cris si è sposata? O farà ancora orecchie da mercante?
Il portone scatta e io salgo con l'ascensore fino al piano attico senza riprendere fiato, ho il diaframma contratto per i nervi.
Mi apre Gianca, la colf filippina. «Bentornato, dottore. Il giudice la riceve subito», sorride, mi prende il giaccone, mi fa accomodare, dice tre cose che non ascolto e alla fine sono qui, su questo maledetto divano che ha decretato la fine di ogni situazione che mi ero fatto andar bene nella vita e che qui, seduto su questo divano, anno dopo anno mi sono visto demolire da lui. Mio padre. Il Giudice integerrimo. L'uomo di legge. Carlo Alberto Angiolini Spada. La mia spada di Damocle da tutta la vita.
Sto per alzarmi e fare dietrofront convinto che non mi dirà mai la verità, quando la porta si apre e mi compare davanti un vecchio che si spinge verso di me su una sedia a rotelle elettrica.
«Papà?», parlo nel fiato, «Che t'è successo?», lo dico con una preoccupazione addosso che da me non mi sarei aspettato, ma l'ultima volta che l'ho visto, l'anno scorso, era un pezzo d'uomo imponente e con vent'anni in meno.
Lui scuote la mano destra come per sorvolare e parla piano ma con l'indifferenza nel tono: «Quattro mesi fa ho avuto un ictus».
Impallidisco, resto in piedi e immobile e non so bene se devo incazzarmi o sentirmi in colpa.
«E me lo dici adesso?»
Lui si fa avanti e si ferma a pochi passi da me, mi fa cenno di mettermi seduto e lo faccio solo perché mi fa pena.
Dice: «L'emiparesi non mi consente di continuare a gestire il patrimonio...».
Incredibile, invece di parlarci umanamente davanti a questa tragedia che mi ha scosso oltre ogni immaginazione, lui è già arrivato al patrimonio. Non cambierà mai.
« ...ho lasciato il comando a tuo fratello e bisogna che tu torni a lavorare nello studio. Al suo posto», conclude.
Conciso e coerente pure con l'emiparesi.
Quasi rido. «Mi stai chiedendo di fare l'avvocato?».
Lui si acciglia: «Tu sei un avvocato!».
«Ma non esercito e non voglio farlo. Questo discorso lo abbiamo affrontato un anno fa e non intendo tornarci.»
Lui alza la voce, gli costa uno sforzo che lo fa tossire mentre impreca: «Ti sei laureato con lode, hai la specializzazione e hai fatto il praticantato, l'abilitazione, hai già vinto due casi, c'hai ventisette anni, sei pronto, che cos'è quest'ostinazione a voler pulire i cessi dei Bar e scaricare valige alla stazione, sei un masochista?».
Masochista. Se non sbaglio è un altro modo in cui mi ha chiamato la scorsa notte la Fatina.
Papà non la smette di inveire: «Tu sei un avvocato con le palle, non ti voglio più vedere a fare il facchino, il pugile o il barista! È chiaro?».
Mi monta il demone e me ne frego di parlare a un invalido, ancora non gli ho sentito chiedere perché mi sono ritirato, cazzo.
«Mi sono auto-diseredato e non ho continuato a esercitare neanche per tenermi Cristina, e pensi che lo farò adesso, perché dopo mesi ti ricordi di avere un altro figlio da inserire nell'organico?».
«Hai deciso di diventare un poveraccio per dei trascurabili tradimenti. Cristina era una brava ragazza, perfetta per te, d'accordo ha sbagliato, ma potevi soprassedere! Dovevate mettere su famiglia!»
Tradimenti?
«Hai detto tradimenti?», lo guardo tremando, con l'odio negli occhi.
Lui ignora la mia domanda e continua con la predica sorda: «Sei andato al suo matrimonio dove metà del mio studio legale ha avuto modo di compatirti. Dico, perché farti prendere per il culo?», il grido gli è uscito così potente che si è piegato su se stesso, vinto da un colpo di tosse.
Il mio sgomento deve essere evidente perché mio padre trasale e gli si legge in faccia la gaffe.
Balbetta: «Non mi dirai che non hai mai saputo dei suoi tradimenti? Allora perché diavolo l'hai mollata?».
Possibile che la sagacia che lo ha contraddistinto in tribunale per decenni ora faccia cilecca? Sarà stato l'Ictus? Non mi legge in faccia la risposta a questo punto? Non gli viene in mente la verità?
Davanti al mio mutismo prolungato scuote la testa e sospira come avesse davanti un idiota. Mi pare evidente che non ha nessuna intenzione di vuotare il sacco. Fine della mia pazienza.
Mi metto in piedi e faccio per andarmene, ma lui mi afferra il polso e mi trattiene.
«Ascolta, figliolo, ti prego almeno di pensarci. Non mi resta molto da vivere, vorrei vedere i miei tre figli sistemati nello studio di famiglia.»
Sfilo il polso dalla sua stretta ridicola e me ne vado senza rispondere.
Ma l'incontro non è finito, ora sul ring è apparsa mia madre dall'alto del suo completo Dior e dei suoi capelli platinati, mi osserva in corridoio e fa una smorfia sbigottita: «Samuele! Ma come ti sei ridotto? Sembri un selvaggio! E tagliati quei capelli!».
Le arrivo accanto senza guardarla, e mi fermo al suo fianco: «Tu lo sapevi che Cris mi tradiva?», e ora la osservo di lato.
Lei va indietro e con lei anche la scia di Bulgari che ha addosso. Il suo sguardo colpevole è piuttosto eloquente, e capisco di essere l'unico coglione.
Proseguo fino alla porta e lei mi chiama: «Aspetta, tesoro, torna qui! Ma non lo sapevi? Ma non l'hai lasciata proprio per questo? Allora perché hai mollato tutto?».
Mi faccio le scale del palazzo in velocità, la discesa sembra una planata di nervi e se finisco schiantato contro il muro, meglio.
Sul portone mi sbuca davanti Carola, col cappotto rosso e il cappello rosso e la borsa da lavoro zeppa di cause, immagino. È trafelata, non ha fatto in tempo, la conosco, avrà fatto di tutto per raggiungerci prima della sparata.
«Troppo tardi, sorellina, guerra finita. Levati e fammi passare», la scanso.
Lei mi blocca il passo e mi osserva accigliata: «Perché mi tratti così?».
«Aspetta, fammi pensare», faccio lo stronzo, «forse perché papà ha avuto un ictus quattro mesi fa e tu non mi hai detto un cazzo?».
«Non voleva che te ne parlassi, lo ha vietato a tutta la famiglia. Te n'eri andato, ci avevi lasciato tutti per andare a vivere come un reietto, ed eri troppo depresso per Cristina in quel periodo...»
Interrompo la sua lagna: «Oh, giusto, Cristina. Forse sono incazzato perché pare che mentre stava con me si sia scopata l'intero studio legale, e che ne era al corrente l'intera famiglia, ma la mia bella sorellina non si è premurata di dirmelo!».
Lei trasale.
Ora balbetta: «Ah, non lo sapevi? Cioè, ma... non l'hai lasciata per questo?»
Ringhio un feroce: «No!».
E lei indietreggia. «Beh, e allora perché ti sei rovinato la vita? Cioè sei finito in analisi, a vivere dentro a un appartamento condiviso in periferia, a fare il facchino e il barista, e non è stato perché lei ti tradiva? Cioè, non capisco...».
Ho il respiro corto, «Tu che ne sai che sono in analisi?».
«E via, fratellone, lo hai capito o no in che famiglia sei nato? Agli Angiolini Spada non sfugge niente.»
Sbotto: «'Fanculo! Potevi dirmelo che mi tradiva!».
«No, perché comunque tra moglie e marito non mettere il dito.»
Sgrano gli occhi, «Sei seria?».
«Se te lo avessi detto mi avresti odiata. Non è per me che il tuo rapporto doveva naufragare.»
«E invece adesso pensi che non ti odio?»
«No, perché hai capito con che traditrice stavi. E ora sai che è finita per colpa sua.»
Tiro fuori una Camel e me la ficco in bocca e l'accendo tirando fumo coi nervi a pezzi.
Carola tenta di farmi una carezza ma la scanso e le butto fumo in faccia.
«Sei una stronza», me ne vado marciando e ignoro il fatto che mi abbia chiamato e pregato di fermarmi.
♣♣♣
Alle otto di sera arrivo sotto casa di Ferdi, il brillante viceprocuratore che da anni si finge mio amico e che solo ieri a quel matrimonio mi abbracciava e mi esortava a ignorarla.
«Sali», dice al citofono.
«Scendi tu, e muoviti, è urgente.»
Lui odia essere disturbato all'ora di cena, ha un suo iter, mangiare per lui e sua moglie è una specie di rito sacro che io sto stoicamente violando.
Infatti è sceso con la vestaglia da tremila euro e le pantofole da trecento e mi sta già guardando storto.
«Che succede?», chiede nervoso.
Me ne fotto, gli ringhio in faccia: «Ci sei andato pure te? Con Cris. Te la sei fatta pure te alle mie spalle? Perché in quello studio due sono gay, uno è un praticante appena svezzato, poi c'è mio fratello, e restate solo tu, il coglione che s'è sposata e sei donne».
Ferdi sbianca e questo conferma i miei sospetti.
Ma lui è anche uno snob pieno di sé e difficilmente chiede scusa o si lascia sopraffare dall'arroganza, anche perché è convinto di valere più di me, per cui fa un ghigno accompagnato da un sospiro.
«Due volte. Me la sono fatta due volte. Una sulla fotocopiatrice e l'altra nello sgabuzzino delle scope. Però devo dire che, a parte tutto, era innamorata pazza di te. Secondo me la dava in giro per sfregio. Ti basta come spiegazione?»
Sono sconvolto. Non so se voglio ammazzarlo o ammazzarmi.
Lui fa un respiro profondo: «Non so perché pensi di essere tu quello ferito e che lei ti abbia tradito, mentito e ora sposato un altro; la verità è che sei cambiato all'improvviso, come uno che ha avuto l'illuminazione, sei tu che hai rifiutato il mondo intero lei compresa. Per questo non ti sei neanche accorto delle corna, perché eri troppo occupato a ...».
«Ce l'ha una fine questa arringa?»
«Lo hai sabotato tu, quel rapporto. Non aspettarti comprensione da me, Samuele Spada.»
«Potevi parlarmene invece di scopartela!»
«E no, avvocato, perché ci dovevi arrivare da solo. Ma che l'hai lasciata a fare, se poi ti incazzi? Non lo sapevi che la dava in giro? E allora perché l'hai mollata?»
Adesso gli sgancio un destro e poi mi becco una denuncia, devo stare calmo prima di rovinarmi la vita.
Ma lui insiste a sfottere: «Avevamo pure inventato una massima riferita a voi due che recitavamo alla tua donna, e lei ogni volta s'incazzava...»
«Quale massima?»
«Chi di spada ferisce, di spada perisce.»
Lo fisso con gli occhi a fuoco e le nocche che fremono, stringo i pugni nelle tasche per evitare di colpirlo.
«Vai a farti fottere, Ferdinando Alcese», faccio dietrofront e marcio rapido lungo il viale.
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