5 ♣ Samuele
Quando si dice la favola che prende vita. Ho davanti una fata, saranno quei capelli azzurrini e spettinati chiusi in una crocchia sulla testa, sarà che ha lo sguardo spaventato e sensuale di una bambina che non lo ha mai preso in vita sua; sarà che ha due occhi più azzurri dei capelli e con quegli occhi mi fissa da un minuto. E se mi sto eccitando? Senza i vestiti come la nascondo l'erezione? Mi osservo il membro con un'occhiata rapida e capisco che inizia a indurirsi, devo battere la ritirata.
«Lasciatemi una ciambella, torno subito», e mi fiondo verso il corridoio.
Mentre lancio magliette e jeans da un lato all'altro facendoli passare da un mucchio a destra a uno a sinistra in cerca di qualcosa che non odori del mio sudore, ripenso alla fata: quella stanotte mi ha colpito in faccia e mi ha visto piangere. E mi sto scervellando per ricordare cosa le ho detto esattamente, che tipo di figura di merda posso aver fatto e fino a che punto mi sono umiliato. Devo giocare in attacco, non posso fare altre mosse false. Finora chiodo schiaccia chiodo non ha funzionato, nessuna scopata mi ha tolto dalla testa Cristina, ma la fata azzurra me la faccio lo stesso, anche fosse l'ennesima scopata inutile, io quella faccia da non l'ho mai preso in mano la voglio baciare.
Appena metto piede in cucina mi rendo conto che la fata è sparita, tornata nella favola. Fingo di non averlo notato.
Monica se ne frega, lei è navigata e non si fa problemi a condividermi, ma Martina, faccia da incazzata col ciclo e il mal di testa mi sta fulminando, e questa caffettiera che mi passa se potesse me la tirerebbe in faccia.
Anche stavolta fingo di non averlo notato e bevo il mio caffè e mordo la mia ciambella e ascolto il rumore dell'acqua della doccia che scorre. La fata fa la doccia. Nuda. Con i capelli azzurri che si schiacciano sotto al getto e contro la sua pelle lunare, e io sto qui a bere caffè freddo invece di spalancare la porta del bagno e infilarmi là sotto con lei.
«A che pensi?», domanda Martina, intenta a lavare le tazze.
Non rispondo. Odio 'sta domanda.
Dopo un po' si china con i gomiti sul tavolo e mi osserva a un palmo, «Ti fanno male le labbra?», con un dito sfiora il taglio.
Non mi fa male niente, io queste labbra gliele ficcherei tra le gambe e la farei venire strillando.
Martina non si arrende, «Come mai ti ha colpito? Ci hai provato con lei, dì la verità», e fa un mezzo sorriso che però è più il ghigno di chi spera di sbagliarsi.
Non ci ho ancora provato, altrimenti a quest'ora sarei nel suo letto, non qui a sottopormi al tuo interrogatorio.
«Samo?», sbuffa, «sei diventato muto?».
Monica sbuca dietro di lei e le appoggia le mani sulle spalle, «E lascialo stare, che ieri ha avuto una gran brutta giornata, non infierire».
Lei è carina, vuole aiutarmi, ma non sa che con questa battuta mi ha ributtato nel baratro. Mi è tornato in mente il maledetto matrimonio e io che voglio crepare.
Mi vibra il cellulare nei jeans.
Le due scopamiche si staccano e fingono di avere qualcosa da fare ma lo so che origliano la mia telefonata.
Osservo il display, è Mario, forse avrei dovuto portarlo al matrimonio, mi avrebbe fatto fare due risate, ma lui con quella gente non c'entra davvero niente, non lo avrebbero neanche fatto entrare.
Attacca subito con una risata e un urlo: «A zi', evviva gli sposi!», e ride, ride, che cazzo se ride.
«'Fanculo, Mario.»
«Eddai, rinco, non fa' l'offeso che quella non ti merita», e si rimette a ridere.
Forse ha capito che mi sto incazzando sul serio e finalmente cambia tono, «Senti, Sa', oggi mi devi sostituire, lo so che era il tuo giorno libero, ma sto troppo male, c'ho l'ernia».
«Io non sono mai libero, ricordartelo. Dài, vabbé», sbuffo, «a che ora attaccavi il turno tuo?».
«Tra mezz'ora, grazie zi', sei un amico.»
«Grazie un cazzo, tra mezz'ora? Come faccio a stare a Termini in mezz'ora?»
Ma lui ha chiuso.
Cazzo.
Mi lancio verso il corridoio, devo volare. La porta del bagno si apre e prendo in pieno la fata che precipita per terra con me addosso. Era quello che volevo, ma non così. Lei mi spinge indietro e le si apre l'asciugamano, mi basta un attimo, le intravedo due bocce perfette e tonde, più piene di quanto avessi sperato e sul petto c'è un tatuaggio, sembra un, non lo vedo, lei con la mano chiude il lembo.
«Ti levi?», dice isterica.
L'ho proprio travolta.
Sorrido, non posso impedirmelo, questa tipa azzurra mi piace troppo. «Scusa, fata, non l'ho fatto apposta», e la prendo per le spalle nude e ancora umide per aiutarla, ma lei si agita e si libera dalla mia presa come se avesse davanti un maniaco. E in effetti, ora che mi ricordo, mi pare che la scorsa notte mi abbia chiamato in questo modo.
«Ancora con questa fata?», mugugna infastidita. Mi scansa con una spallata e se ne va verso la sua camera.
'Fanculo, ma chi ti credi di essere?
«C'hai i capelli da fata di Pinocchio!», le urlo dietro.
Lei si chiude dentro sbattendo la porta, e mi viene fuori un urlo incontrollato: «E poi non lo so il tuo nome!».
Dal corridoio sbuca Martina, piccola come una bambina offesa e messa all'angolo, e dice piano: «Mila. Si chiama Mila».
Povera Martina, gelosa e innocente, vorrei afferrarla e farmela, così mi passerebbero i nervi e a lei tornerebbe il sorriso, ma tra meno di mezz'ora devo essere alla stazione.
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