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Parte 7 ~Schiavi di piacere

Eros teneva tra le mani il biglietto che sua madre gli aveva consegnato solo pochi giorni prima. Si strinse nel mantello di pelliccia e tirò le redini del suo cavallo. Quando partiva per compiere missioni ufficiali gli piaceva indossare gli abiti tradizionali, simili a quelli con cui gli dei erano da sempre stati rappresentati nei quadri e nelle sculture dagli uomini. Gli piaceva anche usare il suo cavallo, perché si sentiva libero, e non un dio che imita gli umani prendendo uno dei loro inquinanti e veloci mezzi di trasporto, e poi, in fondo, se lo avesse davvero voluto, di mezzi avrebbe potuto non usarne nessuno: gli dei avevano la facoltà di spostarsi come e quando volevano. Teletrasporto, lo avrebbero chiamato gli umani.

Si fermò in un campo incolto. Poco lontano scorgeva la strada asfaltata che gli uomini usavano per i loro viaggi. Coperto dagli alberi e dalla vegetazione spontanea nessuno lo avrebbe visto. Aveva percorso diversi chilometri, inoltrandosi nella radura, fiancheggiando ulivi e pini, ma anche querce e noci. Nel corso dei secoli il numero di alberi si era ridotto sempre di più, per far posto a strade e palazzi. Di turisti ce ne erano pochi, perché nessuno osava mettere piede in un paese ancora dominato dagli dei. Eros, però, era consapevole che alla distruzione di parti del territorio avevano contribuito anche gli stessi dei con le loro guerre che si combattevano tanto in cielo quanto in terra. Erano poi tanto dissimili dagli uomini?, si domandò. O erano entrambi accomunati dall'inestinguibile sete di potere e distruzione?

Lesse un'ultima volta il biglietto di sua madre e poi lo mise in tasca. Diede un colpo di staffa e il cavallo riprese il galoppo. L'aria fredda sferzava il viso candido di Eros, provocando in lui un brivido. Gli dei erano immortali, ma nelle sembianze di carne che indossavano provavano le gioie e i dolori degli uomini, con l'unica differenza che le gioie e i piaceri erano più intensi e i dolori non sarebbero mai stati fatali.

Olimpia era vicina e così la rocca dove Kakia era rintanato. Più la distanza si accorciava più il cielo si velava di nubi, come se il sole si rifiutasse di far vedere il suo volto in un luogo di perdizione e volgarità qual era la rocca. Era come essere passati dall'inizio di primavera a un inverno profondo nel giro di pochi metri. Eros si addentrò nel bosco, si sorprese a pensare all'ultima volta che vi aveva messo piede, quando aveva incontrato il giovane a lui sconosciuto nello stagno. Chissà chi era, qual era il suo nome, cosa faceva per vivere. Se un qualche dio o dea lo aveva già reclamato. Ma che gli importava?

Doveva essere il luogo tanto tetro a fargli fare quei pensieri. Attraversò una macchia dagli alberi alti, i cui rami si intrecciavano tra loro in modo tanto intricato da nascondere il cielo. Ed eccola, improvvisa e possente, apparve la rocca. A pianta quadrangolare, delimitata da quattro torrioni, densi fumi si levavano dalla sua sommità. Che luogo terribile, Eros pensò. Chi mai vi ci sarebbe entrato di sua spontanea volontà? Non certo il giovane Psiche, pensò con una punta di rimorso. Poi ricordò delle sue frecce, del loro potere, e del fatto che Psiche si sarebbe innamorato, proprio grazie a lui, di una canaglia come Kakia.

«Sono il dio dell'amore», Eros disse alle guardie. Quelle, colpite dalla sua bellezza e dal suo portamento, lo riconobbero immediatamente e lo lasciarono passare.

Oltre il cancello non c'era che un ponte che conduceva direttamente all'ingresso. Eros non poté fare a meno di notare la presenza delle grate alle finestre. Una prigione, ecco cos'era quella rocca. I suoi passi rimbombarono nell'ingresso lastricato di pietre. Eros avanzò fino allo studio di Kakia. Lungo il corridoio non gli erano sfuggiti gli uomini e le donne seminude, dallo sguardo perso nel vuoto, accasciati sul pavimento e pronti a soddisfare le richieste del loro padrone. Un senso di disgusto lo invase, destinato ad aumentare quando nello studio vide Kakia seduto su una poltrona, intento ad accarezzare un giovane che posava la testa sulle sue ginocchia e aspettava di esaudire i suoi desideri.

«Cos'hai da guardare? Credi che Afrodite non si dedichi a simili piaceri?», Kakia domandò, l'aria tronfia e lo sguardo malizioso.

Eros serrò le mascelle. «Gli ospiti di mia madre sembrano contenti di stare con lei, nessuno li ha mai obbligati, non si può dire altrettanto dei tuoi».

Kakia fece sollevare il giovane ai suoi piedi e lo baciò sfacciatamente, quasi con violenza. Eros si domandò come fosse finito lì, come ci fossero finiti tutti. Alcuni, sapeva, erano stati incauti e si erano lasciati ammaliare dal fascino oscuro di Kakia, ma altri, ne era certo, erano stati rapiti, vittime di torbidi giochi di potere tra dei.

«Devo parlarti, è per conto di mia madre. Affari». Eros tagliò corto.

Kakia schioccò le dita e il giovane li lasciò da soli. Eros vide Kakia avvicinarsi alla scrivania e versarsi un liquore distillato di mosto e aromatizzato con l'anice. Il suo viso squadrato, i suoi ricci neri, il suo naso importante gli conferivano un'aria risoluta e allo stesso tempo l'ombra che offuscava il suo sguardo trasmetteva tutta la sua crudeltà, la mancanza di scrupoli. La sua bocca si era piegata in un sorriso, sapeva che se Eros era andato fino a lì per parlargli doveva essere qualcosa di importante: la superba e bellissima Afrodite aveva bisogno di lui e lui non si sarebbe lasciato scappare l'occasione di servirla e guadagnarci qualcosa.

«Non sono stato invitato alla festa del 4 marzo in vostro onore», Kakia constatò, mentre muoveva il bicchiere e il liquore si illuminava di bagliori dorati, catturando la poca luce presente nella stanza.

«Sai dove si trova Atene, non hai bisogno dell'invito», Eros replicò secco, senza sedersi, nonostante l'altro gli avesse fatto cenno di accomodarsi su una sedia di legno. Tirò fuori dalla tasca ricavata nel mantello il biglietto che sua madre gli aveva scritto, e glielo porse.

Kakia lo afferrò e lo lesse avidamente. «Il più bel giovane sulla terra», commentò. «Deve esserlo se tua madre ne è invidiosa tanto da volerlo nascondere agli occhi del mondo». Un lampo di lussuria gli accese lo sguardo, ed Eros avrebbe voluto cancellarlo, distruggere la rocca che doveva avere una dignità regale e che invece Kakia aveva trasformato in un volgare lupanare.

«Mia madre vuole il tuo aiuto, glielo darai? In cambio io ti consegnerò un giovane bellissimo e innamorato, disposto a tutto per te», Eros disse, desideroso di mettere fine il più presto possibile all'incontro.

Kakia finse di pensarci, ma tanto Eros quanto sua madre sapevano fin dove poteva spingersi la sua voglia irrefrenabile di corrompere giovani onesti, per lui cedere un territorio o aiutare Afrodite a conquistarne un altro non era niente in confronto alle orge con cui continuava ad allenare i suoi vizi perversi. Non erano le stesse orge di Bacco, dove regnava una certa allegria e dove tutti si recavano in modo consensuale. C'era sempre, in tutti i compagni che Kakia si metteva a fianco, la sofferenza di una volontà annullata o di un amore mortificato.

«Atena, con cui tua madre è in lotta, è sempre permalosa e vendicativa», Kakia lo riscosse.

Lui pensò che Atena avrebbe davvero dovuto intervenire e radere al suolo la rocca per portare un po' di giustizia tra gli umani e gli dei. Sperò per la prima volta che sua madre perdesse una battaglia, e il pensiero lo sconvolse.

«Accetti o no? Al contrario d te non ho tutto il giorno da perdere».

Kakia si alzò, appoggiò i palmi sulla scrivania, lo scrutò. «Accetto. Sono onorato di servire la dea della bellezza». Aggirò la scrivania e, giunto di fronte a Eros, allungò una mano sul suo viso. «Sarei onorato di servire anche suo figlio».

Eros gli rivolse uno sguardo glaciale. Come poteva credere quell'essere immondo, mezzo dio, mezzo uomo, di poter anche solo sfiorarlo? Di poter mettere le sue mani sul dio dell'amore? Le sue frecce o i suoi sguardi, quando esse mancavano, erano in grado di unire le anime affini, che non immaginavano di poter essere legate, di far affiorare sentimenti tenuti nascosti per pudore o per paura, di donare la felicità, un corpo bruciante di passione che veniva soddisfatto toccando l'estasi. Quello che faceva Kakia nella sua rocca non aveva niente a che fare con l'amore.

«Credi di essere tanto diverso da me?», Kakia disse, mentre un sorriso arrogante gli piegava le labbra. «Eppure sarai tu a portarmi il giovane».

Eros gli voltò le spalle e a passo svelto uscì dalla rocca. Evitò di incrociare lo sguardo degli ultimi sposi o amanti di Kakia. Non c'era lì dentro un amante o uno sposo che non fosse stato ridotto a schiavo di piacere, privato delle proprie volontà, sottomesso a un amore malato.

Inspirò a fondo mentre saliva sul suo cavallo e si lasciava alle spalle la rocca. Al suo interno l'aria gli era sembrata irrespirabile e adesso era persino felice di sentire su di sé il vento di quella fredda mattina di marzo. Spronò il cavallo per allontanarsi il più in fretta possibile, per tornare a rivedere il cielo azzurro privo di nubi. Olimpia era vicina.

Le parole di Kakia continuavano a martellargli in testa. Non sei tanto diverso da me, gli aveva detto. E, in fondo, non aveva ragione? Non aveva lui stesso odiato assecondare il capriccio di sua madre? Non aveva pensato a quante volte aveva unito coppie per la sua convenienza politica? Era un giovane fanciullo allora con un potere più grande di lui, ma adesso era passato del tempo e avrebbe dovuto usare il suo dono soltanto quando necessario, né per gioco né per convenienza.

Provò a immaginare il viso di Psiche e poi a immaginarselo tra gli amanti di Kakia. Si calò una maschera sul volto, come se avesse vergogna di se stesso.

Se era davvero il dio dell'amore, perché faceva questo?

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