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Trascorse una settimana da quella notte, sette giorni in cui non ebbi il coraggio di guardare in faccia Jack. La mattina seguente avevo abbandonato Villa Jones con una scusa, facendomi accompagnare a casa da Jonathan. Eludevo come la peste ogni possibilità d'incontro con la famiglia J, compreso il mio fidanzato. Non avevo né la voglia né la forza di confrontarmi con mio cognato; conoscendolo bene immaginavo si sarebbe beffato di me, poiché non avevo fatto l'amore con Jonny quella notte e lui, invece, aveva rispettato la parola data. Non sapevo se essere imbestialita o stizzita per ciò che era successo, ma un macigno pesava sul mio stomaco, era insopportabilmente asfissiante e angosciante. Eppure, sapevo che non avrei dovuto provare nulla, che Jack doveva essere il nulla per me. "Facile a dirsi" mi schernì la mia coscienza.
Ghignai, disprezzando me stessa, e gettai uno sguardo sullo specchietto al di fuori della vettura di mio padre. Fissai il mio riflesso con irrisione, tutto sembrava una grande barzelletta. Il problema era che non ci fosse niente che mi facesse ridere, al contrario avrei piacevolmente spaccato quel vetro per non vedere più la ragazza che ero diventata: un'eterna contraddizione. Ero traviata e immorale, frangibile e corruttibile.
Tutto ciò che odiavo profondamente.
Proprio io, che bramavo la morigeratezza e l'equilibrio, la forza e il vigore che tentavo di conquistare da anni.
«Siamo arrivati» la voce di mio padre mi scosse a tal punto da aguzzare la vista e notare, solo allora, che il piccolo viaggio da casa alla New York University era terminato.
«Grazie pa', al ritorno prenderò un autobus» gli posai un bacio sulla guancia ruvida per ringraziarlo. Aveva rinunciato ai suoi dieci minuti con Karen, prima di andare in azienda, per accompagnarmi al college. Solitamente era Jonathan a scortarmi fino al Greenwich Village, ma ancora non ero pronta per stare insieme a lui senza sentirmi una vipera velenosa, dopo aver nuovamente focalizzato la mia attenzione solo su suo fratello.
«Prima o poi mi dirai cosa è successo con Jonathan?» mi chiese, rimarcando dentro di me quel tasto dolente.
Mi morsi l'interno della guancia «Non è successo niente, volevo solo farmi accompagnare da te per una volta. L'hai sempre voluto, no?» dissi con tono colpevole e al tempo stesso innocente. Era una mezza verità.
«Sì certo, e io sono George Clooney» sorrise lievemente, marcando i suoi lineamenti rigidi e affascinanti.
«Pa', tu sei meglio di George Clooney!» gli scoccai un altro bacio sulla guancia, per poi uscire dall'auto e salutarlo con un cenno della mano.
A differenza degli altri quartieri, come Financial District, lì i grattacieli lasciavano il posto a edifici più a misura d'uomo e le strade super affollate erano solo un lontano ricordo, poiché le vie erano piacevoli, alberate e anche un po' tortuose, e consentivano dei ritmi molto più rilassanti. L'assetto urbano era del tutto diverso dal tradizionale reticolo di strade di Manhattan, niente shopping mall e fast food, i luoghi caratteristici erano piccole boutique, negozi di antiquariato, gallerie d'arte, ristoranti, locali alla moda e teatri. Iniziai a passeggiare lentamente sulla Washington Square Park, gettando con la coda dell'occhio sguardi eclissati a quel parco verdeggiante e rigoglioso. Scorsi alcuni turisti che sostavano ai tavoli di pietra e giocavano a scacchi, erano sereni e spensierati. Avrei pagato oro per essere al loro posto invece che trovarmi nei miei panni, spaccata in due tra i fratelli Jones, sempre con un problema fra i piedi. Camminai a rilento fra la flora e la gente, e non potei fare a meno di sorridere quando mi passarono a fianco un anziano e il suo nipotino mano nella mano. Il signore stava dicendo al bambino riccioluto che, in un giorno futuro, avrebbe frequentato una delle tante istituzioni lì presenti. Il piccolo sembrava affascinato dalle bandiere viola sventolanti che ritraevano il marchio della New York University. Scomparirono dalla mia visuale e, sulle note di una canzone neomelodica, superai alcuni musicisti improvvisati.
«Soph!» una voce squillante mi costrinse a ruotare il capo. Mi imbattei nella figura esile e minuta di Aria, affiancata da Caleb. Tra la folla non mi ero accorta della loro presenza.
«Ragazzi» li salutai tentando di celare ogni insicurezza o dubbio. Mi stampai in faccia anche un falso e disteso sorriso. Si avvicinarono di fretta con dei libri fra le mani. Aria era come al solito incredibilmente felice, mentre l'altro mostrò a malapena una ruga d'espressione all'angolo della bocca.
«Allora? Passate bene le vacanze di primavera?» mi chiese la mia amica, con una luce brillante ad attraversare i suoi magnifici occhi verdi. Un quesito davvero scomodo, visto che quelle vacanze erano state l'inizio di una rovinosa tortura psicologica. Cercai la risposta dentro di me, dove si scontrarono ragione e sentimento. Se da una parte la testa mi diceva che potevo starmene tranquilla, dall'altra persisteva il senso di colpa per aver provato qualcosa di sbagliato nei confronti di mio cognato. E ancora una volta mi sentivo una traditrice, come otto mesi prima, con la sottile, ma sostanziale, differenza che ero stata infedele con il pensiero e non con il corpo.
«Direi che sono state delle vacanze alquanto strane...» ribattei alla sua domanda mordendomi il labbro, trovando che quell'aggettivo fosse l'unico più adatto per descriverle, anche se riduttivo.
«Strane? Io direi esplosive. Vedendo come ti hanno ridotta devono essere stati dei giorni intensi» Caleb si intromise nella conversazione e, come sempre, non seppe tenere a freno la lingua. Si accese una sigaretta e non diede peso al mio sguardo di fuoco.
«Soph, ha ragione Caleb? Raccontami tutto!» Aria si voltò prima verso il nostro amico e poi verso di me. L'altro, con i suoi occhi scuri e i suoi capelli lunghi, non si smosse di un centimetro, caratterizzato da un'aura impenetrabile. Era noto per non avere cosiddetti peli sulla lingua. Ed era stata proprio quella caratteristica del suo carattere ad affascinarmi, ma restava comunque insopportabilmente schietto.
«Non gli dare ascolto, Caleb esagera sempre. Non è successo niente di eclatante» sfoggiai il mio asso nella manica: ricordare ad Aria quanto melodrammatico fosse il nostro amico.
«Io non esagero, sei tu che nascondi una parte di verità» si difese Caleb, dopo aver espirato una nuvola di fumo.
«E dal tuo atteggiamento furtivo credo proprio che questa volta Cal abbia ragione. Non mi scappi, signorina! Voglio le dinamiche, i dettagli e i minimi particolari!» mi redarguì Aria mettendomi alle strette.
«Ok, avete vinto voi. Alzo le mani!» mi rassegnai con disapprovazione. Odiavo spifferare i fatti miei, non volevo sentirmi debole e avere bisogno di qualcun altro, preferivo invece tenere tutto dentro e risolvere il caos con le mie uniche forze.
Ma alla fine adoravo quei due impiccioni da strapazzo, sempre pronti per prestare aiuto.
«Compromesso?» chiesi ai due, con la speranza di guadagnare tempo. Aria strinse gli occhi ad una fessura, mi scrutò per qualche istante con fare investigativo e poi disse «E sarebbe?»
«Vi dirò tutto, ma quando andremo a pranzo insieme» li osservai entrambi. Caleb gettò il mozzicone a terra e poi incrociò le braccia. Aria sorrise compiaciuta.
«Affare fatto» dissero all'unisono.
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«Quindi, ricapitolando, sei andata a letto con quel figo di Jack al tuo compleanno, hai continuato la tua relazione con Jonathan per mesi senza dire nulla e ora ti dà fastidio che Jack sia andato a letto con Alexia, nonostante fossi stata tu a farlo allontanare. Tesoro, sei in un bel casino!» le parole di Aria suonarono come il più scompigliato dei disastri.
«Molto rassicurante» feci sarcasmo e mi addolcii dando un morso all'hamburger, per affondare tutti i miei problemi in qualcosa di calorico.
«Beh, questa è la verità. Sei stata tu a metterti nei pasticci, ti sei data la zappa sui piedi» disse Caleb, dopo aver ingurgitato con voracità l'ultima patatina fritta rimasta nel suo piatto. Da quando era venuto a conoscenza della notte fra me e Jack si era irrigidito e interveniva solo per ricordarmi che avevo sbagliato.
«Odio questa verità» affermai sconsolata e tornai a infilzare i denti nel mio panino.
«Ma mi manca ancora un tassello del puzzle... Che cosa c'era scritto nella lettera che hai ricevuto quella sera al CIELO CLUB? E di chi era? Non ce lo hai mai detto, eri rimasta sconvolta per quanto mi ricordi» la mia amica non scordava mai nulla troppo facilmente, ma su quell'argomento non aveva mai avanzato pretese di sapere.
Abbassai lo sguardo «Di quello preferisco non parlare...» sussurrai a testa bassa e con i denti serrati.
«Tasto dolente, Williams? Forse era una lettera hot del tuo Jack?» insinuò Caleb poggiando i gomiti sul tavolo e costringendomi a far scontrare i nostri occhi. Era tremendamente franco e malizioso. Lo fissai a lungo prima di parlare e scorsi nelle sue iridi scure una lampante provocazione.
«Se non sai di cosa stai parlando, non aprire la bocca, Adams» usai un tono ammonitorio e ruggente nei suoi confronti che non lo spaventò per niente, ma che ebbe il suo effetto su Aria, che si fece scappare un pezzo di carne dalla bocca.
«Ho indovinato? Il tuo cognatino aveva deciso di passare alle strategie medioevali per sedurti? Beh, poco conta, visto che ci è riuscito comunque» sbatté il bicchiere sul tavolo con fare brusco, facendoci sussultare entrambe. Le sue parole erano dure e velenose, quasi di scherno. Respirai a fatica per non esplodere, quella lettera era ciò che più di tutto aveva segnato la mia vita e lui la stava interpretando a favore dei suoi insulti. Tamburellai nervosamente le unghie laccate di rosso sul tavolo in legno.
«Anche se fosse, non è un tuo problema. Sono andata a letto con Jack e non ne vado fiera. Ma se preferisci, continua pure a rinfacciarmelo, Adams» marcai il suo cognome con ruvidezza, non ne potevo più di sorbirmi le sue frecciatine meschine e spregevoli.
«Ok, ragazzi, calma. Se Sophia non vuole parlare di questo argomento ci sarà un motivo, quindi non insistere, Cal» Aria addolcì le acque tanto da far desistere Caleb, che sbuffò sonoramente, e da distrarre me dai ricordi di quella lettera. Eravamo lì per pranzare come tre semplici amici, per chiacchierare in armonia e condividere del tempo insieme, non di certo per trasformare quel tavolo in un campo di battaglia. Fui grata all'impeccabile dote naturale di smorzare la tensione della mia amica e terminai il mio pranzo in silenzio, così come Caleb, che non si azzardò più a dire neanche mezza parola in merito alla questione.
«Posso darti un consiglio?» mi chiese con tranquillità Aria, mentre si puliva la bocca dalle restanti briciole.
«Quale?» alzai il capo e sostenni il suo sguardo dolce ma deciso.
«Credo che dovresti prenderti del tempo per fare chiarezza» mi disse. Poche parole che riuscirono a riportarmi in una fase babelica.
«È proprio quello che sto facendo, sono giorni che non vedo né sento Jonathan e tantomeno Jack» accavallai la gamba sotto al tavolo e iniziai a graffiarmi sui jeans scoloriti.
«Intendo prenderti una pausa dalla tua relazione. Dovresti svagare la mente e sentirti libera di fare le tue scelte con cautela» allungò una mano sul mio braccio per confortarmi, ma non esisteva un antidoto che potesse salvarmi da quella voragine di parapiglia.
Anche se quel consiglio si rivelò subito uno spiraglio di salvezza, una via di fuga.
«Credo che tu abbia ragione, ci penserò» risposi ad Aria un po' più rilassata, fissando il vuoto.
«Andiamo a pagare?» Caleb si alzò di sobbalzo, non con brutalità come mi sarei aspettata, ma con una marcia di buonumore in più e con un sorrisino cucito in viso. "Certo che è proprio bipolare!" sbattei le palpebre più volte spaesata, e poi seguii a ruota il mio amico.
«Eccomi, ci sono!» Aria si affrettò a recuperare le sue cose e poi si abbordò al nostro fianco.
Dopo aver pagato uscimmo dall'hamburgheria e passeggiammo in simbiosi sull'undicesima strada. Il Greenwich Village era uno dei miei luoghi preferiti, in quanto, essendo l'unico quartiere caratterizzato da palazzi più bassi, era anche il più soleggiato di New York.
Mi trasmetteva quiete e letizia, con i suoi viali alberati e il suo fascino culturale. Ogni struttura attirava la mia attenzione, tutto pur di non pensare ai miei problemi sentimentali. New York era grattacieli e futuro, non di certo chiostri ombrosi, vetrate policrome, navate imponenti, absidi affrescate, portali e pulpiti riccamente scolpiti, ma fantasticai immaginando un'inesistente New York nei tempi andati. La nostra epoca non era una delle migliori, e non mi sarebbe dispiaciuto vivere negli anni pericolosi e romantici di cavalieri e monaci, amori cortesi e fughe religiose dal mondo. Continuai a passeggiare fra i miei amici, e mi chiesi cosa avrebbero pensato se gli avessi confessato quella mia bizzarria: "Sophia, l'apatica e scostante ragazza di Manhattan, che sogna di ballare alla corte medievale? Che assurdità" ecco cos'avrebbero detto. Era meglio custodire i miei desideri celati nella mia mente squilibrata. Sospirai godendo dell'aria fresca e rigenerata del quartiere, per poi tornare a fissarmi la punta dei piedi.
«Ragazzi, vorrei restare con voi, ma devo proprio scappare a casa. Mia madre si è rotta una gamba e ora vuole che l'aiuti con i servizi domestici. Mi tocca purtroppo» Aria arrestò il suo moto e ci salutò, non prima di avermi dato un abbraccio e di aver tirato un buffetto affettuoso sulla spalla di Caleb.
«Ah, Soph!» prima di allontanarsi mi richiamò all'attenzione.
«Sì?»
«Fammi sapere come va a finire con i tuoi fidanzati!» rise di gusto, complice la sua ilarità innata, e si avviò celere verso il mezzo di trasporto appena arrivato alla fermata.
Ruotai gli occhi «Jack non è il mio fidanzato!» le urlai di rimando per farmi sentire.
Lei mi diede le spalle «Ma ti piacerebbe che lo fosse!» esclamò, con un sorriso malizioso sulle labbra, prima di salire sul bus e smaterializzarsi in un lampo davanti ai miei occhi. Era troppo complicato smentire ciò che aveva detto, perciò mi persi semplicemente in un sogno irrealizzabile a occhi aperti. Io e Jack soli, senza Jonathan e senza la sua famiglia, solo noi: "Sarebbe nato qualcosa se non ci fossero state complicazioni? Avrei davvero intrapreso una relazione sentimentale con quello stronzo di Jack?" non ebbi risposta alle mie fantomatiche domande.
«È così?» la voce di Caleb, al mio fianco, mi riscosse dai miei pensieri taciturni.
«Cosa?» chiesi spaesata. Mi ero dimenticata della sua presenza e non riuscivo a dare un senso alle sue parole.
«Vorresti davvero che Jack fosse il tuo fidanzato?»
«No, ma che domande!» negai. Presi il labbro inferiore tra i denti e iniziai a torturarlo.
«Meglio così, non ne uscirebbe nulla di buono con quel donnaiolo» rispose a denti stretti. "Siamo alle solite! Eccolo che parte con le sue frecciatine!" pensai. «Da che pulpito vien la predica!» alzai le mani al cielo in un gesto teatrale.
«Io mi limito alle ragazze single. Non sono io quello che si è scopato la fidanzata del fratello» rispose piccato con un'alzata del sopracciglio, mantenendo un tono neutro, ma carico di disistima.
«Oggi sei inspiegabilmente insopportabile!» fu l'unica cosa che riuscii a ribattere, sbattendo un piede sull'asfalto e stringendo i pugni.
Alcuni passanti si voltarono nella nostra direzione incuriositi, ma li incenerii con lo sguardo e continuarono per la loro strada a passo spedito. A quel punto Caleb si avvicinò di getto, mi puntò l'indice contro e iniziò a dire: «Sai perché sono insopportabile? Perché ti sto sbattendo in faccia la realtà e tu non vuoi prenderne atto. Sophia...» dopo avermi sbraitato contro, sillabò il mio nome con fatica, cercando nel cielo le parole da dirmi. Me ne stetti zitta, aspettando di sentire la conclusione del suo rimprovero.
Si grattò il mento ricoperto da un lieve accenno di barba, e poi afferrò dalla giacca di pelle un pacchetto di sigarette. Ne estrasse una e se la portò alle labbra. Si allontanò di poco da me, il necessario per non sputarmi il fumo addosso.
«Il punto è che stai perdendo di vista il vero Jack Jones, ti ricordo che lo hai sempre disprezzato per le sue avventure notturne. Invece, ora, eccoti qui a mettere in discussione un fidanzamento lungo quasi tre anni per lui. Pensaci bene prima di commettere un grave errore, di cui potresti pentirti a vita. Hai già sbagliato una volta otto mesi fa, nel letto di quel donnaiolo, ora fai più attenzione» la sua voce diventò instabile, quasi rotta per l'intensità che si occultava dietro quelle parole. La mano con cui reggeva la sigaretta gli tremava leggermente, le sue labbra si distendevano e si ritraevano insicure.
Mi si inumidirono gli occhi, la rabbia lasciò il posto all'emozione. Una cosa era certa: aveva ragione, avevo sbagliato, ma con lui. Avevo interpretato male i suoi sproloqui, non avevo afferrato il vero nocciolo della questione: voleva mettermi in guardia, assicurarsi che non commettessi altri errori madornali e io, stupida come sempre, avevo provato fastidio e rancore nei suoi confronti ingiustamente.
«Cal,» la mia voce era frammentata, minacciava di spezzarsi da un momento all'altro «sai che ti voglio bene» fu difficile espormi così tanto, ma nel mio cuore sentivo che era la cosa giusta da fare. Non servivano altre parole, perché il linguaggio del corpo parlava da sé, a partire dai nostri sguardi. Lui fece un tiro dalla sua Marlboro e poi inchiodò nuovamente i suoi occhi scuri nei miei glaciali. Rividi in quelle iridi buie il Caleb dei primi mesi, quello con cui avevo scherzato e litigato, riso e pianto. Il mio Caleb.
Sorrisi spontaneamente, rendendomi conto di quanto il nostro rapporto di amore-odio fosse la prova della nostra amicizia e ciò che la rendeva così salda e inamovibile. Caleb mi strinse in un abbraccio fraterno e io lasciai spazio a una lacrima di felicità di bagnare le mie gote, percorrendo la mia pelle candida e liscia.
«Anche io ti voglio bene, stupida» mi scompigliò i capelli con tenerezza, soffiando con il suo alito caldo sul mio collo.
«Dai, ora basta smancerie» dissi, distanziandomi non troppo in fretta dal suo corpo robusto. Mi asciugai le guance con le dita e mi accorsi che anche il mio amico, seppur non fosse molto evidente, aveva gli occhi lucidi e il fiato corto.
«Mi prometti una cosa?» mi chiese, mettendosi le mani in tasca, dopo aver gettato lontano il mozzicone fumante.
«Quale?» mi rigirai i pollici.
«Giurami che non ti farai del male, che starai lontana dai guai. E per guai sai cosa intendo» mi fissò intensamente, come a voler leggere sul mio viso ogni minima espressione.
Scossi il capo e poi gli risposi: «Cal, posso prometterti che ci proverò, ma sai che sono una calamita per i guai. Altrimenti non sarei io, e tu mi vuoi bene anche per questo!» mi misi le mani sui fianchi e piegai la testa di lato. Lui scoppiò a ridere, mostrando i suoi perfetti denti bianchi. I suoi capelli lisci ondularono a confine con le sue spalle.
«Nessuno riuscirà a cambiare Sophia Williams: sì, è proprio così. Ne sono consapevole, ma tenterò di riporre la mia fiducia in quel poco sale in zucca che ti resta!» esclamò, passando una mano nella mia folta chioma nera.
«Ehi! Vuoi dirmi che non sono abbastanza intelligente?» mi scansai dal suo tocco, fingendomi offesa. Lui incrociò le braccia al petto, facendo risaltare i bicipiti «Sai cosa voglio dire, non cercare di rigirare la frittata, Williams» disse gesticolando.
Sospirai «Va bene, ma ora parliamo di cose serie. Puoi darmi un passaggio a casa? Pensavo di prendere un autobus, ma esistono gli amici con la patente come te e.... perché non usufruire dei vantaggi?» sbattei le ciglia più volte e mi guadagnai uno schiaffetto sulla guancia.
«Ora mi sfrutti come taxista?»
Lo spinsi via da me scherzosamente.
«Diventi sempre più forte, Stuzzicadenti» mi beffeggiò in modo plateale, non smuovendosi di un millimetro dalla sua posizione e utilizzando quel soprannome odioso.
«Non sono uno stuzzicadenti. Per tua informazione, col pranzo di oggi, avrò preso almeno cinque chili!» dissi, mentre continuavo a spingerlo invano.
«Grande traguardo, allora! Mi complimento con te, signorina stuzzicadenti» mi afferrò le mani con facilità e mise fine al nostro piccolo combattimento.
«Ti odio, Adams» affermai, con un sorriso malcelato sulle mie labbra e le mani incatenate fra le sue.
«Ti amo anche io, stupida» mi diede un bacio sulla fronte alta.
~~~
In auto ascoltammo musica pop e cantammo a squarciagola come due pazzi. Il tragitto era stato breve e, quando arrivammo a destinazione, mi dispiacque salutare Caleb.
Scesi dalla vettura, non prima di aver posato le mie labbra sul suo zigomo sporgente. Mi fece un occhiolino e poi sparì dalla mia vista.
Quando mi voltai per raggiungere la porta di casa, restai spiazzata. Mi pietrificai sul posto, non potevo credere ai miei occhi. Jack era poggiato, con la schiena e con una gamba piegata, alla parete della facciata di casa mia. Se ne stava lì, con uno sguardo impassibile e il ciuffo castano che gli penzolava lievemente sulla fronte. Mi fissava immobile senza accennare un solo movimento né una parola. Fui io ad approssimarmi nelle sue vicinanze, con passo lento e felpato «Che cosa ci fai qui?» gli chiesi per prima cosa.
Non si smosse di un centimetro, continuando a fissarmi acutamente. Gli unici muscoli del suo corpo che si misero in moto furono quelli del viso. Sollevò un angolo della bocca in un ghigno enigmatico.
Iniziai a sentire il mio cuore battere alacremente.
«Adesso stai con lui?» le sue parole possedevano un non so che di solido e incrollabile. Invidiavo il suo autocontrollo, riusciva sempre a essere deciso e concentrato in ogni circostanza. Fece schioccare la lingua tra i denti e mi sentii in soggezione.
Prima di rispondere mi guardai attorno, per sviare il suo sguardo magnetico e penetrante «Lui è Caleb ed è un mio caro amico» ribattei con foga, i respiri si fecero più corti ed ebbi timore di avere un abbassamento di pressione. Jack sospirò sonoramente, per poi staccarsi dalla parete e avvicinarsi a me. Spalancai le palpebre e trattenni il fiato; non ero pronta per reggere quel confronto.
«Se fosse davvero come dici, poco fa non avrebbe rischiato di schiantarsi con la sua auto per gettare lo sguardo su di te e di sicuro non avrebbe rivolto quell'occhiataccia a me. Stava marcando il territorio» disse. Dinnanzi a quelle affermazioni restai per un attimo sorpresa e confusa: non avevo notato niente di quanto aveva descritto. Eppure, ero lì.
«Che stai dicendo? Caleb mi vuole bene, è normale che si preoccupi per me» giustificai le azioni del mio amico.
«Questo non lo metto in dubbio, ma credimi...» mi sfiorò lentamente le gote con le sue dita affusolate. Mi ritrassi come se mi fossi appena scottata con il più ardente dei fuochi.
«Io conosco bene quello sguardo da innamorato» disse.
«Innamorato? Tu sei pazzo! Caleb non è innamorato di me, è il mio migliore amico» allargai le braccia e presi un respiro profondo.
«Ne riparleremo quando scoprirai che ho ragione» si passò una mano nei capelli lisci e castani. Evitai di ribattere, in quanto non avrei saputo cos'altro dire. «Allora? Perché sei venuto qui?» gli chiesi incrociando le braccia sotto il seno.
«Non potevo venire a farti visita?» mi osservò con una strana luce negli occhi. Non la riconobbi, ma aveva tutta l'aria di essere qualcosa di nuovo per Jack, uno sguardo che non avevo mai visto prima.
«Non lo hai mai fatto, quindi dimmi cosa vuoi» usai un tono fermo e stabile che lo stupì, ma solo per poco tempo. Si aggiustò la cravatta e sorrise a malapena.
«Mi piace quando sei così diretta, sai benissimo che se dovessi dirti cosa voglio davvero finiremmo a rotolarci nelle lenzuola» mi provocò una scarica di brividi lungo tutto il corpo, che terminò la sua corsa in mezzo alle cosce. Strinsi i pugni per trasformare quel piacere in vigore a mio vantaggio, e sembrò funzionare.
«Vogliamo cose diverse a quanto pare. Se il tuo intento era quello di portarmi a letto, mi dispiace, ma credo proprio che ci saluteremo qui» affermai con decisione. Lo scansai per aprire la porta di casa, ma prima che potessi inserire la chiave nella serratura sentii la sua presenza alle mie spalle. Pochi secondi e il suo corpo aderiva al mio, mentre il suo respiro caldo e ruggente si espandeva sul mio collo e risaliva fino a dietro l'orecchio. Mi morsi il labbro facendolo quasi sanguinare, ebbi la forza di voltarmi e trovarmelo a distanze equivoche.
«Vuoi sapere cosa ci faccio qui?» soffiò sulle mie labbra, portando anche i suoi occhi su quest'ultime. Di rimando strinsi le gambe fra loro, soprattutto quando notai che aveva indossato il piercing all'angolo del labbro inferiore. Era da tempo che non glielo vedevo più addosso e aveva sempre un certo effetto su di me. Ero stata proprio io, ai tempi dell'High School, a convincerlo a farlo. Era procacemente erotico ed eccitante, gli conferiva un fascino tutto suo.
«Sì, cosa sei venuto a fare?» chiesi con voce flebile. Non ci sfioravamo neanche in un solo punto, ma l'energia che si sprigionava quando eravamo vicini sembrava unirci come due poli opposti.
«Fammi salire e te lo dirò» mi ricattò spudoratamente. Avrei dovuto tirarmi indietro? Forse, ma non lo feci.
«Vieni» gli intimai, prendendo subito le distanze dal suo corpo rovente.
«Così in fretta? Sai che duro a lungo» ero di spalle, ma immaginai il suo ghigno da stronzo malizioso stampato in faccia.
«Hai intenzione di continuare con i doppi sensi o vuoi spiegarmi perché sei qui?» non mi girai, e per fortuna direi, visto che ero arrossita all'immagine di lui che mi penetrava ritmicamente per ore. Non era l'imbarazzo, credo che fosse il disagio.
«Oggi hai la luna storta, Sapienza.»
Lo ignorai e aprii la porta, facendogli segno di entrare. Mi superò con un sopracciglio inarcato che mi fece scuotere il capo rassegnata. Lui era fatto così, non esisteva nulla al mondo che potesse cambiarlo. Freddo e caldo. Distaccato e avvolgente. Malizioso e seduttore. Perspicace e provocatore.
Richiusi la porta alle nostre spalle e lo seguii fin sopra le scale in legno. Conosceva bene la strada, sembrava quasi che l'ospite fossi io.
Quando fummo dentro la mia camera iniziai a soffrire di claustrofobia. Era uno spazio troppo ristretto per starci da sola con Jack.
Diede un'occhiata in giro con nonchalance, carezzò con due dita la mia scrivania e si bloccò a fissare una foto che ritraeva me e Jonathan abbracciati e sorridenti.
«Volevi sapere perché sono venuto da te, ecco il motivo» proclamò, indicando quella cornice.
Aggrottai le sopracciglia «Che cosa intendi?»
Sospirò, puntò le sue iridi scure nelle mie più chiare e riprese a parlare: «Non ti sei fatta viva con mio fratello dalla settimana scorsa, da quel giorno a casa nostra. Jonathan sta uscendo pazzo, tra lavoro, affari e sensi di colpa. Crede di aver fatto qualcosa di sbagliato nei tuoi confronti e non ha il coraggio di venire a cercarti» si sedette sul mio letto a una piazza e mezza e incrociò le mani tra loro. Lo studiai curiosa e gli feci un cenno per spingerlo a continuare.
«Ecco, vedi, io non sono un senza palle come lui. A me non interessa niente della vostra relazione, potete fare quello che vi pare, ma di me sì che mi interessa. Ho avuto l'impressione che non sia stato un caso che tu abbia deciso di ignorarlo proprio quando ci siamo riavvicinati dopo tempo. Sento che c'è di più, che forse non vuoi dirmi cosa ti sta succedendo» si alzò di colpo e si avvicinò con celerità.
A ogni parola pronunciata dalle sue labbra sentivo il mio scudo protettivo sgretolarsi e macerarsi. Era fin troppo sagace.
Il mio cuore batteva all'impazzata e la paura che potesse afferrare le mie insicurezze, i miei dubbi nei suoi confronti, mi logorava.
«Soph, io ho sempre saputo che tra noi c'era una sorta di chimica. Mi chiedo se tu non lo abbia finalmente capito: non è solo un'attrazione come le altre, tu mi vuoi. Ammettilo» mi afferrò la vita e mi spinse verso il suo torace tonico. Ero finita, dovevo trovare un escamotage per uscire da quell'utopica situazione. Non potevo permettere a Jack di leggermi fin dentro l'anima con così tanta facilità.
Non avevo lavorato così a lungo su me stessa per permettergli di sfogliarmi come un libro aperto!
«La nostra è pura attrazione fisica, come quella che provi per tutte le ragazze che ti porti a letto, come quella per Alexia, come quella che provo per Jonathan. La differenza fra te e tuo fratello è che lui mi ha rubato il cuore, tu tre orgasmi e qualche bacio.»
Per la prima volta non fui io a dovermi allontanare da lui. Mi guardò ferito, quasi offeso, e mi liberò dalla sua presa ferrea. Tornai a respirare regolarmente.
«Va bene, come vuoi: ti lascerò in pace d'ora in poi. Spero che mio fratello abbia cura di te» disse, e poi si morse l'interno della guancia con intensità «fai tanto la forte, ma hai solo paura di dare voce ai tuoi sentimenti» sillabò duro e redarguente.
Non aveva ragione, non poteva aver ragione. Io amavo Jonathan, era Jack a dover sparire dalla mia vita. Era un problema, una tentazione, qualcosa di oscuro e peccaminoso, differente dall'emozione pura e genuina di suo fratello. L'amore era quello pudico e composto, invece, quello che ottenevo da Jack era solo sesso e alchimia, ciò che regalava a più ragazze, ciò che col tempo svanisce per lasciare spazio a un cuore ferito e abbandonato.
E io non volevo essere più né scalfita né tormentata.
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